Susana Thénon – Poesie

Susana Thénon (Buenos Aires, 1935 – 1991) è stata una poetessa, saggista, traduttrice e fotografa argentina. Laureata in Lettere all’Università di Buenos Aires e coetanea di Alejandra Pizarnik (con cui nel 1960 fondò la rivista Agua Viva) e Juana Bignozzi, è associata forse non del tutto correttamente alla cosiddetta Generazione del ’60, pur non essendosi legata mai ad alcun gruppo letterario. Grande padrona del linguaggio, quel linguaggio che lei stessa definiva emputecido (imputtanato) con la stessa crudezza con cui definiva se stessa Sappho in Shitland, un linguaggio pieno di spazi e territori, anche mentali, che, come dice uno dei suoi critici (Ignacio Oliden), “sembra ordinario, ma in realtà non lo è: è necessario prima superare quel mare di sconnessioni che evidenzia una profonda preoccupazione che coinvolge parole, comunicazione ed esperienza, e che implica linguaggio e poesia”. Come in Alejandra Pizarnik e altre della sua generazione molti dei suoi temi riguardano il corpo, la solitudine, l’amore negato, il desiderio. Tra le sue raccolte di poesie spiccano: Edad sin tregua (1958), Habitante de la nada (1959), De lugares extraños (1967), Distancias (1984) y Ova completa (1987). Tra il 1970 e il 1982 non uscirà nessun nuovo libro poiché si dedicò alla fotografia, ma continuò a scrivere. È morta in solitudine il 5 dicembre 1991, all’età di 56 anni, per un cancro al cervello. La sua poesia postuma sarà raccolta dalla poetessa e saggista argentina María Negroni in La morada imposible I y II (2001). È sostanzialmente inedita in Italia. (g.c.)

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DAMMI la libertà,

apri le porte della mia gabbia,

dammi aria, spazio:

Mi manca il mare, ho sete del suo sguardo,

così alto è il mio desiderio

che come un tetto discende sopra questa prigione.

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Ho gettato via la maschera senza sapere che lei era il mondo

E che dietro il mondo, intorno,

un altro mondo d’ombra si preparava ad attaccare,

Quali galeotti saremo noi delle oscure libertà.

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Non c’è speranza, lo so già: allora datemi l’inganno

vedere queste catene come rami stretti

nella pace della tua giungla.

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Concedimi l’errore, la follia, il sogno

che sono uno stame sonnolento

sulla tua pietra, al sole.

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NON E’ facile trovare quello che ti somiglia:

devi uscire, devi allontanarti dalle strade

e raggiungere la terra; devi cercare tra le foglie

e la sabbia, che si arrampica con fervore sulle betulle;

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quando il fumo si allontana dalle case

e nessuno grida né lontano né vicino

e nessuno ha più sete, tranne il mondo

è a riposo e ciascuno

sa cosa lo aspetta

nella solitudine della sua stanza.

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MiròMatisse: al di là delle immagini – nota di E. Castagnoli

MiròMatisse: al di là delle immagini (al Museo Matisse di Nizza)Henri Matisse, 1933, e Joan Miró, 1935

Al Museo Matisse di Nizza, curiosando in vacanza sulla costa azzurra tra le varie attrattive dell’assolata cittadina francese ci si imbatte nel museo dedicato a una delle figure più influenti della pittura moderna europea, Henri Matisse generalmente associato all’avanguardia del fauvismo che trascorse e realizzò qui gran parte della sua vita e della sua pittura. All’ingresso nella hall principale su un’enorme parete del museo appare vibrante di colore la riproduzione su larga scale di una serie di motivi decorativi, per lo più fiori, arabeschi e altre forme geometriche semplicissime e vivide nei diversi colori primari che si snodano in una semplicità disarmante _ quasi nel gioco di un bambino_ ritagliati dai tratti blu di una cornice astratta tipica dei “papiers decoupés” degli anni ‘40. Sul lato opposto della parete in una piccola tela rettangolare lo slancio e la creatività della composizione surrealista di Mirò riempita di segni e forme libere nello spazio. Tale il tema al centro della mostra Mirò-Matisse: la relazione, il dialogo, l’influenza reciproca o meglio la sovrapposizione creativa e proficua tra due artisti appartenenti a due generazioni diverse nonché solitamente associati ad avanguardie distanti quanto il fauvismo e il surrealismo che tangenzialmente incrociano i loro percorsi in rari frangenti nel corso di una vita. Forse solo due costanti a far dialogare i loro distanti universi: l’immersione nel colore e la necessità di andare al di là dell’immagine come imitazione o pura astrazione in una critica serrata della tradizione pittorica occidentale. Continua a leggere

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Edouard Roditi – Poesie

Edouard Roditi - Ph. : Stathis OrphanosEdouard Roditi, poesie

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Chi era Edouard Roditi (1910 – 1992)? Ne ho sentito parlare per la prima volta da Fernanda Pivano, nella prefazione a Sulla strada di Kerouac. “Un eccentrico di formazione cosmopolita e raffinata, (…) poeta maledetto, poliglotta ed esteta” che Gregory Corso aveva letto in carcere e aveva cercato di rivalutare tra i suoi amici beat, ignorando che all’epoca fosse ancora vivo. “Era un derivato del dadaismo surrealista e dell’omosessualità (forse più intellettuale che reale) di gusto francese. Aveva il passaporto americano ma era nato a Parigi da un padre nato a Costantinopoli e da una madre nata a Roubaix: per questo, mi disse, si considerava americano. Era un poliglotta alla maniera di Joyce e del mio nonno scozzese e aveva un modo irresistibile di raccontare storie omosessuali a sfondo autobiografico quasi sempre inventate; più tardi le pubblicò in un volume che resterà un fuoco d’artificio di aneddoti, di informazioni, di fantasia”. (F. Pivano – Altri amici, altri scrittori – Mondadori 1997). Quindi un americano di origine turca, ma che aveva studiato in Inghilterra per poi laurearsi all’Università di Chicago in Lingue romanze e cominciare a girare il mondo, risiedendo, per un lungo periodo dal 1929 al 1937, a Londra, Parigi (dove poi visse), Berlino, per infine morire in Spagna nel 1992 per un incidente. Personaggio complesso, marcato da molte culture e come vedremo da molte influenze anche importanti, padrone di diverse lingue tanto da collaborare in diverse occasioni nella Seconda Guerra mondiale alla radio del Ministero della Guerra americano in Francia e perfino come interprete multilingua alla conferenza di fondazione delle Nazioni Unite (1945) e nel famoso processo di Norimberga contro i gerarchi nazisti (lui stesso è accreditato del salvataggio di quasi 300 ebrei).

Uno che paradossalmente si considerava un “tre volte eletto” (“thrice chosen”, come si intitola la sua importante antologia del 1981) per il fatto di essere ebreo (entrambi i genitori lo erano), omosessuale ed epilettico, Roditi durante la sua carriera svolse un’intensa attività di scrittore, critico d’arte, critico letterario, saggista, insegnante in vari college e traduttore. Nei suoi soggiorni europei aveva incontrato e frequentato personaggi come Chagall, Ernst, Carrà, Fini, Kokoschka, Mirò ma anche Joyce, Breton, Eliot, Hart Crane, la Stein e altri, dedicando ad essi articoli e interviste, oltre ai saggi  relativi a Wilde, Proust, Cioran, Degas, Delacroix ecc. Roditi fu l’estensore a Oxford del primo manifesto surrealista in inglese (1929) e tradusse in inglese René Crevel, Alain Bosquet, Saint-John Perse, lo stesso Breton, e poi Kavafis, Celan, Pessoa, nonché numerosi poeti mediorientali e ebrei. Ma naturalmente fu anche autore di numerose raccolte di poesia, a cominciare da Poems for F del 1935, fino al citato Thrice chosen e altri, oltre a volumi di prosa e racconti, nei quali si intrecciano temi sociali (vedasi qui Giovanni Senza Terra), politici (v. qui Il prigioniero politico), amorosi ed anche spirituali, di derivazione ebraica, una letteratura – anche sacra – di cui era studioso. È sostanzialmente inedito in Italia. (g.cerrai) Continua a leggere

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Enrico De Lea – Cacciavento

Enrico De Lea – CacciaventoAnterem Edizioni/Cierregrafica, 2024Enrico De Lea – Cacciavento – Anterem Edizioni/Cierregrafica, 2024

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Enrico De Lea torna a casa, da dove realmente non è mai partito, ancora una volta. Lo so, l’ho già detto, lo conosco da un po’, ne ho già parlato in diversa circostanze (v. QUI e di più QUI), cercando di intravedere alcune costanti e delle fondamenta, specie in ciò che riguarda quelle che genericamente possiamo chiamare le sue radici, poetiche e mitopoietiche. Perciò ritornandoci sopra c’è sempre il rischio di ripetersi o peggio ancora di rimaneggiare quanto dato per acquisito. Ma comunque tornare bisogna perché già il titolo, che come vedremo è voce dialettale, ci indica luoghi, memorie, tempi, impressioni di una precisa koiné. In un certo senso Enrico, come alcuni altri, è autore di un solo libro, non tanto nel senso in cui lo diceva Thomas Mann (un unico libro per cui, alla fine, un autore viene ricordato) quanto nel fatto che vi è nella sua produzione un tema centrale, con qualche corollario, imprescindibile come una forza gravitazionale che emana dalla sua Sicilia. Riepiloghiamo in breve di che si tratta:

la radice identitaria: certo la cosa più significativa, con gli inevitabili (e giusti) corollari della distanza, del là e allora vs. il qui e ora nonché della scala di valori che ne deriva (cos’è il meglio nella vita del poeta e di ciascuno, cos’è buono, cos’è “vero”).
il conflitto, direi inoltre, che ne deriva: nel senso dello scontro di direttrici a cui ti sottopone la vita (il paese vs. la città, lo sradicamento – non necessariamente tragico -, il lavoro e la vacanza – il temporaneo ritorno – ecc.) , conflitto che inevitabilmente si concretizza in un nostos irrisolto ma certo creativamente fecondo. C’è come corollario un discorso che concerne un sentimento di dislocazione e, ancora, la domanda (retorica) di dove, tra questi due poli, risieda la salvezza, dove sia casa.
la trasposizione del conflitto in termini linguistici: ovvero la distanza tra la lingua “speciale”, del lavoro, del quotidiano (che non appare ma c’è) e quella poetica e creativa, che diventa nel tempo, affinandosi, un vero elemento identitario, quasi un personaggio con le sue icastiche connotazioni dialettali (qui, non a caso, non c’è niente di “urbano”, non può esserci). Una “lingua salvata” (S. Aglieco) che forse a sua volta salva.
il tempo “diverso”: l’idea, forse vera forse anch’essa legata al personale mito di De Lea, che il tempo abbia una diversa connotazione nel luogo del ritorno e del desiderio, che abbia più valore, che duri di più, che consumi meno, che sia più “ricostituente”. E che sia, quel tempo, l’unico legittimo scrigno delle memorie, delle perdite, degli affetti, del manifestarsi fenomenologico della natura.

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Note a margine: Chiara Serani ovvero Dā mihi sellulam, ubi cōnsistam

Chiara Serani - Dialoghi della sedia, Anterem Edizioni 2023Note a margine: Chiara Serani ovvero Dā mihi sellulam, ubi cōnsistam

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A distanza di alcuni giorni dalla presentazione fatta con l’autrice a Livorno (6 giugno, presso la Galleria d’Arte Extra Factory, a cura de Le cicale operose), e un po’ col senno di poi, vorrei mettere insieme qualche osservazione, forse esposta in quella occasione, forse no, sui Dialoghi della sedia di Chiara Serani, Premio Lorenzo Montano 2022 (Anterem Edizioni/Cierre Grafica, 2023). Lo dico subito, un lavoro particolare, potente, che richiede innanzitutto di mettere da parte distinzioni di genere, dicotomie letterarie e roba simile. È un’opera di poesia perché non è scritta in versi ma della poesia ha tutto il bagaglio metaforico, polisemico e quella ricerca sulla lingua che la narrativa ha abbandonato da tempo.

Di certo la prima cosa che salta all’occhio è la struttura di questo lavoro. Che forse non è poesia, forse non è prosa, forse non è teatro, per quanto ci assomigli parecchio. È quest’ultima una caratteristica, anzi direi un aspetto, che molti commentatori hanno tenuto a sottolineare. Ma parlare di aspetto, per parte mia, non è un caso. Direi che è l’approccio, lato lettore, più confortante. Vediamo perché, partendo dalla base organizzativa di questa opera. Diviso in sezioni (12) di varia lunghezza e brevissimi interludi (5), il lavoro è composto di quadri nella stragrande maggioranza dei quali agisce un io narrante e agente, collocato in uno spazio vago e tuttavia materiale. Lì – ci si immagina al centro – è collocata una sedia: “Sono seduta su una sedia. Sono nuda”, “Sono seduta su una sedia, la mia. Indosso…”, “Sono seduta su una sedia, la loro. Disposti tutto intorno…”, e così via. Facile per chi legge farsi un’idea “teatrale” della faccenda, qualcosa di performabile su una scena. Altri commentatori si sono soffermati su questa forma teatralizzante del testo, e leggendo viene quasi naturale immaginare un beckettiano palco vuoto, con al centro una sedia, con quadri a tratti illuminati in cui la protagonista è davvero, ipotizziamo, nuda. Un Living Theatre, ma anche, diciamo, Grotowsky. Ma io credo che si tratti di un artificio, proprio nel senso etimologico del termine, una mise en scène di una mise en scène, un contenitore di contenuti che può essere inscenato e non essere mai uguale a sé stesso, come le tre sedie di J. Kosuth ogni volta che vengono esposte. Inoltre, i frammenti testuali o annotazioni o citazioni che accompagnano le “scene” come pensieri apparentemente peregrini o avulsi dal contesto (ma che invece sono radicalmente culturali) creano una crasi della voce narrante, una specie di sospensione temporale e appunto scenica, rimandando peraltro a un dialogo ipotetico, a una voce “altra” di cui non si sa nulla ma che è “possibile” e presente. Continua a leggere

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I Preraffaelliti a Forlì – nota di Elisa Castagnoli

Preraffaelliti, rinascimento Moderno, (ai Musei San Domenico a Forlì)William H. Hunt - Bianca

Se come leggiamo nel pannello introduttivo alla mostra “Preraffaeliti” a Forlì “kronos” rappresenta lo scorrere indeterminato del tempo e “kairos” l’istante decisivo carico di senso che ne incide il fluire dando ad esso il suo unico valore, allo stesso modo ogni divenire del presente dialoga con un passato più o meno manifesto rimanendo da esso plasmato. Tale dialogo tra i linguaggi artistici, pittura o arti visive e le varie epoche storiche, l’ottocento in particolare, appare al centro delle scelte curatoriali del Museo san Domenico illustrando il lavoro di quel gruppo di artisti inglesi che dalla metà del XIX secolo ha totalmente rivoluzionato l’estetica vittoriana dando vita a un rinnovamento profondo dell’arte in Inghilterra con opere moderne di forte impatto visionario seppur radicate nella tradizione pittorica italiana del ‘400.

L’intera vicenda di tre generazioni di artisti che tutti si richiamarono allo spirito e al nome di Preraffaelliti è così ripercorsa attraverso una selezione di 350 opere nel viaggio unico proposto dal museo che spazia dai i Nazareni precursori del movimento ai suoi esiti ultimi nel primo Novecento. Il confronto diretto con i grandi Maestri italiani Giotto, Cimabue ecc da trecento al cinquecento visitabili nella prima parte della mostra sfocia nelle opere degli artisti moderni inglesi nella seconda parte dando vita a una pittura innovativa, appassionata carica di simbolismo e immersa ancora nel sentire romantico all’indomani degli eventi del ’48 in Europa per quello che può definirsi un vero e proprio nuovo Rinascimento. Continua a leggere

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Fernando Della Posta – Diario dell’approdo

Fernando Della Posta - Diario dell'approdo - Arcipelago Itaca, 2024Fernando Della Posta – Diario dell’approdoArcipelago Itaca, 2024

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Fernando Della Posta indica la Luna e guarda la terra, o almeno il suolo che calca. Intitola le sezioni del suo libro con toponimi di regioni lunari e sembra che voglia proporsi come un Astolfo alla ricerca di un senso che – oggi – ci appare sfuggente, oppure di un senno che però non è detto sia possibile trovare altrove da qui, da questa complicata realtà. Hic manebimus, volenti o nolenti, il resto è aspirazione. Teniamo presente questo, per intanto, e teniamo presente però anche chi avvertiva della difficoltà di trovare risposte se le domande non siano ben formulate. Una tra le tante: “dove andiamo?”. Si tratta qui di un percorso o di piccoli tragitti o frammenti di essi in cui però – scrive Fernando – “l’approdo è tutti i giorni”, cosa che equivale a dire, con Ungaretti, che “qui la meta è partire”, cioè coltivare, magari per sempre, il desiderio e il bisogno di quell’altrove, che poi si sostanzia, alla fine, in un ritorno a casa, un nostos. Il primo passo, per Fernando e molti altri suoi coetanei, è misurare una metaforica stanza e il suo perimetro, un luogo in fondo concluso che può essere ovunque, perché se la realtà è complicata e confusa lo è, nel mondo e nella mente, in egual misura a New York come a Roma o a Pontecorvo (FR). Tanto che la dedica è riservata “a tutti i fuori spazio e i fuori tempo”, a cui forse bisogna aggiungere i “fuori luogo”. E tuttavia da quel luogo, fisico o dell’anima, non si può scappare, è anche in fondo una questione di identità. È vero che c’è sempre una partenza, avviene ogni giorno, ogni mattina nel decidere se scendere dal letto, come ci dice il testo di apertura, e dell’approdo si è già detto. Così questo libro potrebbe essere, forse non volendo, un voyage autour de sa chambre, proprio nel senso che si è detto. L’orizzonte, con i suoi limiti, è quello, anche quando si parla di una città o di un’isola, di una data o di una via, cioè di qualcosa che potrebbe essere oggettivamente preciso. Tanto che “sempre si approda / alla posizione periferica”, ovvero in un luogo (fisico o dell’anima, ripeto) ristretto, o in cui comunque ci si sente spettatori, defilati e neanche tanto influenti. Si tratta, per metonimia, della condizione umana, di un canto dell’uomo errante dell’Occidente? Certamente di questo, e allora la risposta alla domanda “dove andiamo?” potrebbe essere “in nessun posto”, stante che in questo mondo non c’è più niente da scoprire; ma potrebbe trattarsi anche della necessità di reperire, autour de la chambre, le “cose”, i segni tangibili di un posto in cui realmente siamo esistiti. Ricordi e suggestioni e singolarità, ma anche metafore “concrete” (o convinzioni un po’ aforistiche e assertive, o ovvie, e perfino tratteggi al limite del bozzetto), sono “cose” come bitte a cui legare le cime all’approdo. Nei mari lunari allora Fernando, adottando un approccio linguisticamente ellittico (e per lo più lirico) cerca reperti per trarne conclusioni di cui per ossimoro non v’è certezza, ma che hanno il confortante pregio o di rompere la superficie, “la divisione surreale dello stagno”, di spingersi “fino al reale” (obbiettivo però ben più ambizioso della realtà, cosa diversa); oppure, nel momento in cui quel reale si creda di afferrare, di illuderci che quella scheggia abbia un senso (per il poeta, in quanto titolare di uno sguardo “speciale”, e insieme per l’uomo comune: Ogni uomo è prima di tutto il poeta, / il poeta che ci muore tra le braccia, / dopo che c’è salito in grembo, non visto). Che nella poesia di Della Posta ci sia questo intento per così dire universalistico lo indica, tra altre cose, l’uso frequente di un soggetto plurale (noi, ci ecc..) che non è il consueto mascheramento dell’io poetico, ma che cerca appunto di disegnare una communitas umana, esistenziale, fornendo quasi un indirizzo filosofico, un’idea di mondo. Non sempre ci riesce, perché quando affiora una sorta di “convinzione” autoriale che asserisce una visione personale delle cose, il risultato appare per converso meno convincente, più predittivo. Tanto che, a mio avviso, le cose migliori sono forse quelle meno “pensate” e pensose. E poco importa, dal punto di vista di diatribe che lasciano il tempo che trovano, se ne traspare un certo lirismo, in cui però la scrittura di Fernando, sempre di rilievo, riesce a dare il meglio di sé. Siamo in ogni caso in un alveo ben delimitato, in cui si ritrovano echi montaliani, perfino petrarcheschi, in cui la buona scrittura spesso è più significativa di ciò che vuole rappresentare, più precisa di quanto vuole descrivere, il terreno cioè di una ormai tradizionale cura della parola come cura di una visione viceversa incerta, a volte simbolistica, del mondo. (g. cerrai)

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La discarica fluente – Giovanni Fontana a Pisa

Giovanni Fontana - La discarica fluente - Diaforia

In occasione della  presentazione a Pisa del volume di Giovanni Fontana “La discarica fluente” (Dreambook ed. / [dia*foria, 2023), ripropongo l’interessante articolo (corredato da testi e immagini) apparso sul vecchio sito di “Imperfetta Ellisse” nel 2013, per l’uscita all’epoca di “Questioni di scarti”. Torna a proposito perché quel libro è oggi ricompreso in questa nuova pubblicazione che include altri quattro importanti testi tra cui proprio “La discarica fluente” del titolo, nonché numerose tavole riproducenti i lavori grafici e verbovisivi di “Polluzioni”. L’articolo torna utile a chi non conoscesse Giovanni Fontana per farsi un’idea di uno dei più importanti artisti italiani, e anche a chi già lo conosce.

L’appuntamento è per il 29 maggio 2024 ℅ Libreria Tra le Righe, Via Corsica 8, ore 18,00. Intervengono Marcello Sessa, l’editore/curatore Daniele Poletti e l’autore che leggerà/performerà brani del libro. Da non perdere. (g.c.)

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Giovanni Fontana – Questioni di scarti – Edizioni Polìmata, 2012

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Cos’è uno scarto? E’, in questo libro di Giovanni Fontana, il protagonista principale, l’obbiettivo di una invettiva, un ragionamento politico, una visione del baratro, l’esplorazione di un territorio artificiale, un guardarsi allo specchio. Lo scarto siamo noi, senza dubbio, noi ne siamo gli artefici, poiché senza di noi il rifiuto, la scoria non avrebbero ragione di esistere. A noi è ascrivibile questo gigantesco ready made, così difficile da trattare artisticamente se non come citazione o simbolo o trasfigurazione (basti pensare, a titolo di esempio, a tutto il lavoro concettuale intorno alla cosiddetta “arte povera”, o all’arte in sé, implicita in una “merda d’artista” di Manzoni). La scoria, di cui siamo produttori e vittime, come elemento costitutivo (ma in molta produzione letteraria solo collaterale, scenografico) di una attuale poetica della crisi. (continua a leggere QUI)

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Sebastiao Salgado – Exodus, una nota di Elisa Castagnoli

Sebastião Salgado – Little girl of a landless family. Paraná, Brazil, 1996Exodus, Sebastiao Salgado (al MAR di Ravenna)

Sono storie di esodo, di migrazioni obbligate per milioni di persone che ogni anno, nel mondo decidono di lasciare la propria terra a causa di disastri naturali, per l’ingente povertà che spinge alla ricerca di prospettive migliori o destini differenti, oppure per la violenza di una guerra che mette in fuga interi gruppi di popolazioni; notizie che ogni giorno popolano le cronache del nostro occidente europeo. Tali storie, ugualmente documentate attraverso l’immagini fotografica dallo sguardo lucido e visionario di uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea, Sebastiao Salgado, sono al centro di “Exodus: un’umanità in cammino” attualmente esposte al Mar di Ravenna fino al prossimo giugno. Nonostante sia passato più di un decennio da quando “Exodus” è stata esposta per la prima volta, il tema resta più che mai attuale perché nuove crisi periodicamente si ripresentano_ rispetto a quelle documentate dal fotoreporter negli anni ‘90_ma i migranti e i profughi di oggi vivono esattamente nello stesso baratro tra disperazione e speranza, gli stessi momenti tragici o eroici legati al destino di ciascun individuo o di interi gruppi di popolazione. Raccontano a distanza di trent’anni la storia del nostro tempo, gli sconvolgimenti globali che accadono nel mondo attuale spinti dal crescente divario tra monopoli di ricchezza e diffuse aree di indigenza e marginalità, la crescita demografica esponenziale, infine la crisi prodotta dall’emergenza climatica in atto. Continua a leggere

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Nanni Balestrini – La poesia fa malissimo

Tra qualche giorno saranno cinque anni dalla morte di Nanni Balestrini (19 maggio 2019). Mi anticipo un po’, non che ami particolarmente gli anniversari, solo perché riordinando mi è capitato tra le mani uno dei volumi delle Poesie complete pubblicate da Derive Approdi nel 2018 (precisamente il volume terzo / 1990-2017), Caosmogonia e altro, introduzione di Andrea Cortellessa più vari interventi critici in allegato. Inutile ricordare qui la persona di Balestrini e che cosa abbia rappresentato nel panorama letterario e culturale del nostro Paese, a partire dalla sua presenza fondante nella Neoavanguardia e come cofondatore e ideatore di storiche riviste letterarie come “Quindici” e “alfabeta”, ci sono centinaia di post, articoli, saggi utili allo scopo a cui rivolgersi.

Mi limito a riproporre un testo tratto dal libro citato, testo che unisce secondo lo stile del nostro ironia e pensiero, metodo critico e sberleffo, immediatezza e profondità, suono e significato, nonché vari livelli di linguaggio e, che non guasta, un po’ di sana ferocia. Si tratta di “La poesia fa malissimo”, una composizione inedita fino alla pubblicazione in questo volume, una sorta di invettiva che vuole ricordarci che la poesia è o dovrebbe essere “un affronto all’esistente per mezzo della parola”, una “interminabile apocalisse”. E quindi, perchè no, uno strumento politico.

Fa da contraltare all’ironica “La poesia fa benissimo”, del 2010, che lo segue nella sezione Intermezzo. La poesia fa male dello stesso volume (di cui forse parleremo un’altra volta) e nella quale molti poeti, lettori e frequentatori di reading certo si ritroveranno. Anche questa appartiene a un discreto gruppo di testi sparsi nei quali Balestrini si occupa tematicamente della poesia, della parola, del linguaggio, ci ricorda Cortellessa, come “movimento” da contrapporre alla sua stessa “inerzia”, come oggetto di scandalo (inteso nel suo etimo più radicale), come “opposizione” (“Linguaggio e opposizione” è il titolo di un suo noto intervento programmatico (v. QUI). Ricordando che Nanni Balestrini, più che un eversore della poesia e della lingua italiana “è in realtà un costruttore, un ingegnere o se si preferisce un architetto della poesia” (Fausto Curi). Buona lettura. (g.c.)

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