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Aljoša Curavić – Scadenzario minimo di un viaggio senza fine
Aljoša Curavić – Scadenzario minimo di un viaggio senza fine – Oltre Edizioni 2020, introduzione di Gabriella Musetti.
A proposito di Artemisia, una nota di Elisa Castagnoli
A proposito di Artemisia Gentileschi, una voce al femminile nell’arte
“Artemisia Gentileschi, pittrice guerriera”, il nuovo film documentario di Jordan River uscito recentemente sulle piattaforme streaming nella Giornata internazionale contro la violenza alle donne, illumina e apre un squarcio poetico sulla vita e le opere di Artemisia Gentileschi, pittrice italiana del ‘600 di scuola caravaggesca, figura eccezionale per la propria epoca_ una tra le prime donne ad essere ammessa in una accademia di disegno_ artista di rilievo e precorritrice di un’arte al femminile e delle future poetiche femministe.
Come afferma il regista Jordan River: “Penso che la vita di Artemisia e le sue opere possano oggi immergere la potenza dell’arte su un piano emozionale e farci comprendere ciò che vive nell’animo un artista a tratti oppresso dalle circostanze quotidiane che a volte la vita può riservare a un essere umano”. Il documentario mette in luce, in particolare, questa commistione profonda tra la vita e l’opera della pittrice, la sua personalità artistica e stile espressivo intimamente connessi alle vicende esistenziali. Orfana molto giovane di madre, Artemisia era figlia del noto pittore Orazio Gentileschi, che nella sua casa-bottega a Roma ne valorizzò il talento precoce, la condusse passo a passo sulla via della pittura mettendola in contatto con maestri influenti e noti come il Caravaggio. L’evento dello stupro giovanile subito dal Tassi, l’umiliazione del processo che ne seguì e il matrimonio riparatore con un mediocre e quasi sconosciuto pittore segnarono tutta la sua giovinezza proiettandosi con veemenza nella sua opera fino a renderla senza dubbio il simbolo di un’arte inequivocabilmente femminile. In definitiva, è la dimensione interiore e esistenziale dell’artista, nello specifico il suo essere donna in un mondo dominato da leggi e gerarchie di potere a lei precluse, e riflettersi in queste opere di matrice classica, a sfondo mitologico o religioso, tanto da renderle per noi estremamente espressive e attuali oltre il tempo e la storia.
Artemisia, privilegiata dalla protezione di committenti e mecenati potenti, appare nel ‘600 l’eccezione in un mondo dominato da sole presenze maschili; è tra le prime donne a combattere contro cliché e discriminazioni di genere per affermarsi professionalmente grazie al suo talento e alla sua formazione artistica. Continua a leggere
Sylvia Plath – Cinque poesie
Cinque poesie di Sylvia Plath nella traduzione di Giona Tuccini, tratte da “Soglie”, anno XVII n.3, che ringrazio.
“Le poesie qui presentate toccano problematiche costanti nella produzione di Sylvia: la tentazione del suicidio, il rapporto morte-resurrezione, l’amore intenso e contrastato, il nesso realtà-trascendenza, la distruttiva contrapposizione al padre. Stilisticamente i testi tradotti da Giona Tuccini, studioso dell’Università di Cape Town, testimoniano la fuoriuscita dalla prima fase creativa della poetessa (1956-1959), che abbandona una scrittura fortemente visiva, sorvegliata, talvolta raziocinante entro strutture rimatiche chiuse e bene ordinate, per articolare più espressivamente il magma informe del mondo e il caos dell’esperienza. Un evento che alcuni critici hanno sintetizzato come la transizione da una poesia essenzialmente per l’occhio (eye) ad una più libera e appassionata lirica dell’io (I)” (Fausto Ciompi, Università di Pisa). Altre cose di S.Plath QUI.
Canto del fuoco
Nascemmo verdi
a questo giardino in difetto,
ma nella spessura macchiettata, grinzosa come un rospo,
il nostro guardiano si è imboscato malevolo
e tende il laccio
che abbatte cervo, gallo, trota, finché ogni cosa più bella
arranca intrappolata nel sangue sparso.
Nostro incarico è ora di strappare
una forma di angelo con cui ripararsi
da questo mucchio di letame dove tutto è intricato tanto
che nessuna indagine precisa
potrebbe sbloccare
la presa furba che frena ogni nostro gesto fulgente,
riportandolo alla fanga primordiale sotto un cielo guasto.
Dolci sali hanno attorcigliato i gambi
delle malerbe in cui ci dimeniamo instradati verso fine ammorbante;
bruciati da un sole rosso
leviamo destri la selce appallottolata, tenuti nei lacci spinati delle vene;
amore ardito, sogno nullo
il metter freno a tanta superba fiamma: vieni,
unisciti alla mia ferita e brucia, brucia.
(1956)
FIRESONG
Born green we were / To this flawed garden, / But in speckled thickets, waited as a toad, / Spitefully skulks our warden, / Fixing his snare / Which hauls down buck, cock, trout, till all most fair / Is tricked to falter in spilt blood. /-/ Now our whole task’s to hack / Some angel-shape worth wearing / From his crabbed midden where all’s wrought so awry / That no straight inquiring / Could unlock / Shrewd catch silting our each bright act back / To unmade mud cloaked by sour sky. /-/ Sweet salts warped stem / Of weeds we tackle towards way’s rank ending: / Scorched by red sun / We heft gloded flint, racked in veins’ barbed bindings; / Brave love, dream / Not of staunching such strict flame, but come, / Lean to my wound; burn on, burn on. Continua a leggere
Micol De Pas – Quello che so di me, nota di Fabio Prestifilippo
Micol De Pas – Quello che so di me (Lietocolle 2020)
Il titolo di questa interessante silloge sembra un viatico verso quello che l’autrice ci offre di sé, ma in verità è solo un’affabulazione affascinante. Micol De Pas è nata a Milano dove vive e lavora. Giornalista, si occupa di musica e letteratura, passando per l’arte e l’architettura. Ha tre figli, un gatto, una laurea in filosofia, due libri all’attivo da ghostwriter.
La caduta nella noia di ogni lirismo di matrice diaristica non si consuma unicamente nell’immediata risposta a un sé richiestivo; è nella convinzione che il compiacimento della propria trascurabile e dolorosa esistenza possa produrre letteratura di qualità che si manifesta nella sua forma più comune e insopportabile . Il lirismo di matrice pretrarchesca, la bellezza della vita di Emily Dickinson raccontata in versi, una certa insistenza nelle poesie di Carver, ci dimostrano come al di là del godimento solipsistico si possa aprire il tragitto verso la scrittura letteraria, ed è tale quando parte dall’io per giungere al grande Altro.
La differenza sostanziale tra una silloge improntata sui capricci di un io nella sua veste di elemento di confine e una riflessione sviscerante, che apra all’altro la verbosità dell’inconscio, sta nella scelta linguistica, più semplicemente nella possibilità simbolica che si vuole dare al linguaggio. In questa prospettiva l’indagine di Micol De Pas amplia i suoi orizzonti sino a giungere in un’abitazione dell’io che è differente – data l’ambiguità di cui si accennava in principio – da “quello che so di me”. Non dover interrogare la veridicità di quel saper è una delle grandi qualità di questo testo.
La morsa dell’io – di quell’io convinto d’essere padrone in casa propria – è allentata se non addirittura inesistente; nella silloge della De Pas non è “la speculazione sul soggetto” il motore psichico trainante piuttosto un frizionamento tra il metodo con cui l’autore organizza il soggetto narrativo o scenico, in modo da svolgere sul lettore o sullo spettatore un’opera di persuasione (affabulazione)¹, quello che si intravede del vero racconto (quello che so di me) e le sorti del linguaggio (la poesia). Quello che si intravede del vero, chiariamolo, è un reale quasi tangibile: “Perchè era giorno / ancora / quando sei morto / pieno di veleno nel corpo / morto prima di te / marcio / di piaghe / piscio feci bava”, eppure riesce ad essere quella rottura dall’appiattimento linguistico che la poesie sa esperire: “qual è quell’uomo che muore neonato / e sa dar voce ai suoi pensieri adulti? / La notte è più chiara del giorno / se a definirla sono stelle immobili”. Continua a leggere
Sandro Pecchiari – Desunt nonnulla, nota critica di Claudia Mirrione
Sandro Pecchiari – Desunt nonnulla (piccole omissioni), nota critica di Claudia Mirrione
Come scrive Giovanna Rosadini Salom nella prefazione a Desunt nonnulla (piccole omissioni) (Arcipelago Itaca 2020) di Sandro Pecchiari, la raccolta è “un diario di viaggio dentro una sofferta ospedalizzazione, protagonista la malattia del secolo”. Effettivamente, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio resoconto in versi delle emozioni provate dal poeta triestino Sandro Pecchiari, già affermato scrittore e traduttore e/o curatore da e in inglese di alcune importanti antologie poetiche, nel corso di un suo ricovero ospedaliero. Il ricovero, come è dichiarato esplicitamente in una nota finale, è finalizzato alla rimozione di quello che, nel corso della raccolta, viene indicato come un “figlio”, un adenocarcinoma, germinato e generato da un “padre”, tema importante su cui ritorneremo (le liriche, infatti, sono suddivise in sezioni che raccontano tutto l’iter ospedaliero: PRIMA DEI GIORNI, GIORNO ZERO, GIORNO UNO, GIORNO DUE, GIORNO TRE, GIORNO D’USCITA, DOPO I GIORNI – AFTER THE DAYS).
L’incipit dell’intera raccolta è decisivo: “l’aria nutre il lupo che ci azzanna”. Chi è questo lupo che azzanna, che è dentro il corpo e che sopravvive in esso, respirando e vivendo attraverso la stessa aria che inaliamo? Il lupo è il male? Il pericolo cui ci stiamo sottoponendo, l’andare incontro ad un’operazione rischiosa? Sì, il lupo è tutto questo e, pertanto, produce un forte senso di straniamento e di perplessità nel riconoscere se stessi, la propria patologia, e anche i propri consanguinei (“che occhi grandi che hai” dice il poeta, p. 21 con nota a p. 74), ma per Pecchiari è anche altro, tanto da arrivare a ribaltare la consueta, insopportabile frase, che viene rivolta a chi sta andando verso la sala operatoria, e cioè “in bocca al lupo!”. Dice il poeta: “andrà bene / che sia un buon lupo / che sia un bel viaggio / che stiamo in bocca / a un qualsiasi dio”. Come, infatti, Pecchiari spiega nella nota corrispondente, egli si augura di essere preso “con amore dalla mamma lupa ed essere portati da una tana all’altra al sicuro dai pericoli. Doppio augurio quindi: di affrontare i rischi e di saper sopravvivere al rischio mediante la protezione. La risposta alla frase ‘in bocca al lupo’ più opportuna non sarebbe quindi ‘crepi il lupo’, ma ‘viva il lupo’.” Abbiamo a che fare con un lupo bifronte quindi, malattia che si fa carne della nostra carne e che azzanna dal di dentro, ma che, nella sua rilettura, si fa anche salvezza, quasi una divinità, una divinità che può sì essere protettiva, ma che si può concretare in sofferenza e passione (e in questo senso vanno interpretati tutti i riferimenti scritturali, spesso in latino, e specialmente quelli alla vicenda di Cristo, disseminati nel corso della raccolta e spiegati accuratamente nelle note finali). Continua a leggere
Paolo Roversi – Studio luce, nota di Elisa Castagnoli
Paolo Roversi, “Studio Luce” in tempi di oscurità
“The studio is everywhere, it is a corner of my mind.”
“Studio luce è una stanza rettangolare con il soffitto alto, il pavimento di vecchio parquet e una grande finestra orientata a nord. E’ un piccolo teatro con un’attrezzatura scarna. E’ qui dove lavoro ogni giorno come un artigiano nella sua bottega”.
Primo punto focale della retrospettiva su “Paolo Roversi” è l’idea di studio come luogo di rielaborazione mentale dell’immagine oltre che lo spazio fisico dove il fotografo lavora da anni nel suo atelier parigino, da cui prende il titolo la mostra.
Il Mar di Ravenna ha ospitato fino a pochi giorni fa_ prima dell’obbligata chiusura per le restrizioni imposte dall’emergenza Covid (*)_ la retrospettiva dedicata al fotografo ravennate Roversi da anni stabilitosi a Parigi con le sue più note fotografie di moda ispirate a muse della bellezza contemporanea: i suoi ritratti di personaggi “famosi”, le “still life” come visioni soggettive dello studio, infine una serie di scatti inediti provenienti da Vogue o da altri editoriali del settore .
La mostra spazia attraverso quello che a prima vista apparirebbe come il regno dell’effimero e del transitorio allo stesso modo in cui il mondo della moda si mostra a noi nel suo involucro scintillante, lieve e dorato fatto di belle apparenze; al suo opposto viviamo oggi in Italia, per una seconda volta, un parziale confinamento imposto per tentare di arginare la pandemia Covid in atto. Ciò si traduce nella cancellazione di tanta parte del nostro vivere sociale: ogni forma di aggregazione bandita, gli spazi culturali sottoposti a restrizioni, i luoghi pubblici e di socialità chiusi nella palese austerità o rinuncia a tutto ciò che non appare sostanziale e necessario. Tali immagini sembrerebbero fuori luogo ora, il contrasto con l’emergenza economica di oggi stridente eppure forse è proprio in momenti di oscurità o parziale oscuramento della nostra vita collettiva che sentiamo il bisogno più che mai e la necessità di tali ansiti di bellezza. Perché le fotografie di Roversi più che scatti di moda si imprimono ai nostri occhi come impronte di luce, non solo ritratti di corpi ma vere e proprie emanazioni di anime colte in rari momenti di autenticità. Essi iniziano a deporre le proprie maschere per lasciare a noi trapelare una loro più intima verità. Forse oggi più che mai queste immagini eteree e inconsistenti ci parlano della permanenza della luce in un mondo che si restringe ai nostri occhi e si chiude portandoci via terreno da sotto i piedi, giorno dopo giorno oscurati da pandemie e fobie collettive . Qui, al contrario la fotografia di Roversi è definita da Emanuele Coccia “il contagio della luce, di corpo in corpo, di anima in anima, di istante in istante”[1]. Continua a leggere
Margaret Atwood – Esercizi di potere
Un libro minimalista, con la sua semplice copertina bianca, privo di nota introduttiva (che ci poteva stare), di note al testo (ma inutili con l’inglese lineare di Atwood, un limpido Canadian English), solo la traduzione, che a me pare molto buona, di Silvia Bre. Si tratta di Esercizi di potere (Power Politics, 1971) di Margaret Atwood, collana Poeti di Nottetempo Edizioni, 2020.
Non è inutile citare l’anno di uscita di Power Politics. Gli anni Sessanta si sono appena conclusi, con tutte le loro istanze alcune delle quali daranno qualche frutto solo a distanza di tempo. Come le rivendicazioni delle donne, la parità di genere, il desiderio, il rispetto, l’autodeterminazione nel pubblico e nel privato, il diritto di scelta, la sessualità. Tutti temi su cui, fin dai primi Sessanta, Atwood è sempre stata attiva, che hanno anzi trovato voce in molte delle sue opere, dalla poesia ai romanzi distopici per cui è celebre, come Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale, 1985). Sono anche (o sono da poco stati) gli anni di Sylvia Plath, di Anne Sexton, dei confessionals, a cui Atwood in molti stilemi tra cui un forte uso delle similitudini è accostabile, autori nei quali il conflitto, il dramma interiore, le difficoltà nei rapporti sono ben presenti. Gli esercizi (potremmo dire i giochi) di potere al centro di questa raccolta sono infatti quelli tra un uomo e una donna, le dinamiche che animano da sempre (v. “Prima mi avevano dato secoli” qui sotto) i rapporti tra i generi, non solo nella sfera sessuale ma in generale anche in quella sociale e politica. Si parla in effetti di una diseguaglianza di potere, non solo inteso come peso all’interno della società, ma anche come diverso peso dell’investimento affettivo nei rapporti tra un uomo e una donna, la diseguaglianza che c’è nell’attaccamento emozionale al rapporto. E tuttavia l’approccio di Atwood, la resa di questo tema in poesia, non è tanto “politico”, anzi è piuttosto personale, perfino intimo e venato in molti punti di una ironia che smussa i conflitti, li riveste appunto di una patina di superiore comprensione delle cose, ma anche della vena di cinismo di chi ha acquisito una certa esperienza, alla fine una specie di saggezza. E’ appunto personale perché Atwood parla delle sue esperienze, del suo avere a che fare, anche in maniera dolorosa, con gli uomini, o con un Uomo, visto di volta in volta come un mostro a tre teste, un Generale, un Imperialista, un amo infisso nell’occhio, ma anche uno capace di prodigare piacere, “gentle moments”, e insieme sessualità violenta, ma anche qualcuno che ti aggancia, che “fit into me”, mi aderisce, mi sta a pennello (Bre traduce giustamente “ti adatti dentro me”) sebbene lo faccia “like a hook into an eye”, appunto come un amo in un occhio, una visione che sta tra Bataille e Buñuel. Un lungo poema, quindi, di attrazione, dipendenza, attaccamento, dolore, fino al raggiungimento di uno stadio finale in cui il gioco non vale più, non c’è niente di salvabile nel rapporto né esiste la possibilità di farlo, salvo la realizzazione di una diversa forza e consapevolezza di sé come donna. Atwood non solo incarna in poesia quello che appariva uno slogan talvolta superficiale, “il privato è politico”, ma afferma, qui e altrove da sempre, che il potere in effetti permea tutte le interazioni tra uomini, tra uomini e donne, tra gruppi sociali sia nelle grandi questioni che nelle azioni quotidiane, sebbene, come è stato notato, i personaggi femminili nelle opere di Atwood non siano mai vittime passive. Come afferma uno dei suoi critici, Sherrill Grace, docente alla British Columbia University, “attraverso queste poesie Atwood mostra come le lotte di potere colorino tutto ciò che facciamo, trasformando anche le nostre attività più sacre in manovre mortali che, alla fine, distruggono entrambe le parti”, identificando la tensione centrale in tutto il lavoro della scrittrice come “la spinta verso l’arte da una parte e verso la vita dall’altra”. Insieme al fatto che, aggiunge, Atwood “è costantemente consapevole degli opposti – sé / altro, soggetto / oggetto, maschio / femmina, natura / uomo – e della necessità di accettarli e lavorare al loro interno”. (g.c.) Continua a leggere
Francesco Lorusso – Maceria, nota di G. Cerrai
Francesco Lorusso – Maceria – Arcipelago Itaca, 2020
Ma per la verità ho avuto un primo moto di delusione alla lettura. Almeno in riferimento all’unica pietra di paragone che ho, il libro citato all’inizio, perché i primi testi che qui si incontrano mi sono apparsi alquanto petrosi, di una certa difficoltà di comprensione, una specie di salto nell’oscurità. Per quanto abbia una certa esperienza come lettore di poesia, confesso che diverse volte ho avuto qualche problema a mettere a fuoco il nucleo del testo (lo stesso prefatore scrive, pur alla fine assolvendo: “questa scrittura che spessissimo sfiora l’incomprensibile e certamente denuncia lo slogamento del senso che è poi lo slogamento dell’esistenza”). Facciamo un piccolo esempio:
Bernardo Pacini – Fly mode
Bernardo Pacini – Fly mode – Amos Edizioni, 2020