Francesca Marica – Concordanze e approssimazioni

Francesca Marica - Concordanze e approssimazioni - Il Leggio Libreria Editrice, 2019Francesca Marica – Concordanze e approssimazioni – Il Leggio Libreria Editrice, 2019

Concordanze e approssimazioni. Qualcosa è sovrapponibile, qualcosa ci si avvicina. Sembra una buona definizione, tra le migliaia, della poesia (e del lettore, inevitabilmente). Poesia, che è forma di descrizione, ma anche di reticenza, o una manifestazione alta del silenzio, di ciò che comunque si vuole che rimanga segreto, dicendo qualcosa che ci si approssima. Da questo punto di vista, che è un punto di vista poetico, ho trovato questo libro di Francesca delicatamente equilibrato. Perché in realtà non vi è in esso niente che dissimuli, non dissimula ad esempio un costante elemento tragico, che non ha niente a che fare con un troppo diffuso piagnisteo esistenziale, ma che riguarda una diuturna elaborazione di elementi dolorosi, siano essi direttamente vissuti oppure frutto di una consapevolezza o una capacità di percezione dell’esposizione della vita – anche in certi dettagli o “minute acrobazie”, ci torneremo – al dolore; non dissimula, di questa percezione, né i vuoti, la parte di nulla incolmabile, né i silenzi, quando il poeta non può che sopperire con le parole di cui dispone, riempiendoli in qualche modo (“riparo lo spazio con la calma della parola”, scrive) o dilatarli; non dissimula l’idea che l’elaborazione del lutto, anche metaforico, o dell’assenza, non può essere artisticamente feconda se la separi da quel quid anche “gioioso”, anche casuale o destinale che pertiene anch’esso alla vita e che ha bisogno di essere accolto con equivalente coraggio, magari “ridendo dei disordini del caso”; non dissimula lo sforzo che ci vuole, anzi il lavoro che si fa con quelle parole ma prima ancora con una “decisione” salomonica di accoglimento o rifiuto nei confronti dei motivi ispirativi che si hanno, e del pudore che se ne prova, un lavoro di cui nei testi c’è evidenza, l’evidenza di una scrittura abilmente “sottrattiva”; non dissimula la necessità, forse l’obbligo, di tenere a bada le emergenze liriche che talvolta la stessa dolorosa materia poetica spinge fuori e che rischiano di condurre al compianto o all’elegia. Approssimarsi significa soprattutto, in fondo, portarsi progressivamente ad una distanza che permette di mettere a fuoco senza abbacinarsi con l’inutile, e anche per la scrittura, come per l’occhio, è quasi una questione di fisica (per la distanza e altre cose qui pertinenti rimando volentieri a quanto scrissi anni fa su Poesia 2.0 – v. QUI ), cioè di una giusta prospettiva dello sguardo (un esempio: quel precipitare di molti testi in un corsivo, finale o interno, che mi pare fissi un punto focale, sia esso una domanda o una asserzione). Questa prospettiva finisce per affinare in maniera egregia un vecchio arnese, un fardello della tradizione poetica italiana, quella indeterminatezza del dettato che ha attraversato gran parte del Novecento tra crepuscolari, decadenti e oltre, quel tenersi sulle generali che in genere mi irrita quando tende a mordersi la coda. Come nota giustamente Marco Sonzogni nella prefazione (riferendosi a versi come “Cominciava veramente quando, / sempre più veloce, veniva il tempo / etc.”), “non importa alla fine dei conti e delle cicatrici, chi o cosa cominciava. Ma conta, è decisiva, la volontà di farsi trovare pronti anche quando le parole non dovessero più esserci”. Ha ragione, sì, a parte il tono eroico della cosa. Ma solo perché, nell’ordine di quella prospettiva che dicevo, poi le parole ci sono, tendono a catalizzarsi: dapprima, nello stesso testo, Francesca si aggancia ad elementi oggettuali/simbolici (film muti, gambe, periferia, porti sepolti [!], strade e soprattutto quel foglio bianco metaforico/metapoetico), insomma la realtà esiste, ci dice, vi siamo immersi, non stiamo parlando di sogni; e poi, come rialzando la testa (e quindi lo sguardo) aggiunge: “Serve un gesto di molta precisione / per aiutarsi a crescere ancora”; chiude il corsivo “focale”: ” Gettarsi a terra è appena l’inizio della parola pace“. Parola, si intenda bene, non altro, definizione concettuale non escamotage metapoetico. Del resto, rispondendo in calce al libro ad una domanda di Gabriela Fantato riguardo a questa “notevole presenza della concretezza”, Marica ci dice “spesso la mia poesia nasce da un’immagine, da un’intuizione, da un dettaglio. Ho bisogno di un elemento visivo e concreto da cui partire”. Dunque, a parte il meccanismo poietico comune a moltissimi, poi è l’elemento focalizzante che conta, la matrice del pensiero: “le associazioni che ne nascono e ne scaturiscono sono incontrollate e talvolta imprevedibili”, dice ancora Francesca (corsivo mio). Il che a pensarci bene assomiglia straordinariamente ad almeno due cosette fondamentali: alla riemergenza del ricordo (che però in Marica non è mera rammemorazione, ma – ancora – dettaglio da cui partire per approdare ad un altrove); e, contemporaneamente con la memoria (anche Bergson ce lo ricorda), alla marcatura del tempo (in questi versi molto presente, come nota ancora Fantato), del tempo vissuto, di quello che sfugge al vuoto, marcatura di cui il dettaglio (o magari una piccola epifania) è segno e significato, pietra di confine, elemento riassociativo, ricostitutivo – scrive Francesca – della “concordanza di tutti i brandelli”, ovvero di una presenza, di un essere nel mondo (Heidegger mi scuserà). Ricordo, tempo, esperienza, micromanifestazioni sono tutti soggetti/oggetti centripeti nella poesia di Francesca, ed elementi di forza. Forse è per questo che la sezione che mi è parsa forse (ma non troppo) più debole è la terza, Interstiziale fra elementi uguali o analoghi, nella quale il protagonista-tempo è il presente, un presente i cui segnali, ipotizzo, non sono per l’autrice ancora del tutto leggibili, comprensibili, collocati nell’io. Marica è ben consapevole di tutto questo e di altro, basta leggere le sue risposte alle domande postele da Fantato, a cui tutto sommato c’è poco da aggiungere. Come opera prima (chi lo direbbe?) non c’è davvero male. Aspettiamo il seguito con interesse. (g.cerrai)

Cominciava veramente quando,
sempre più veloce, veniva il tempo
dei film muti, delie gambe in alto
a sfidare le ortiche, dei chilometri tritati nei digiuno.

Era la favola delia periferia lontana,
con i porti sepolti a picco
e la vergogna degli inganni.
Nessuno che supplicava di perdersi tra quelle strade,
la disattenzione del giorno a fare il foglio bianco.
Io vi avrei amati tutti, uno a uno,
nella totale imperfezione del momento.

Serve un gesto di molta precisione
per aiutarsi a crescere ancora.

Gettarsi a terra è appena l’inizio della parola pace.

***

Raccoglierò dettagli come ossa
Un museo affinché non si disperdano
Antonella Anedda

Si perde lo sguardo nel bianco verticale
e dopo anni accade. Si ripresenta uguale il tuo male,
si ripresenta senza parlare.

Non lascia segni, nessun indizio
è un minuscolo quadrato nero,
la risposta a un bisogno primordiale di indagare
senza che la domanda sia mai posta.

In anticipo sul desiderio di salvezza
verrà il momento del congedo.
Una stretta silenziosa,
un vociare che intorno si spoglia, lentamente.

***

È nel centro delle cose il lutto
Peter Huchel

Febbraio con le sue enumerazioni
artigli per altrove invisibili,
confermate le avvisaglie e i molti indizi.

Nessuno che abbia davvero bisogno
delle sue attenzioni e delle sue parole.
Una capacità limitata di gestire il dolore,
un gesto che continua a parlare quello suo.
Lo osserviamo da lontano,
le donne nascoste nei suoi passi
consegnano una tenerezza a cui è difficile credere.

***

Qui dove tutto è aperto e il rumore si fa obliquo
ci sono facce che partoriscono nuove facce da poco.

Una responsabilità scomoda,
un principio di distrazione
vorrei credervi anche se la morte si avvicina.
Domani ci sarà tempo per le presentazioni ufficiali.

La finzione sta finendo.
Nulla più si addice al tempo indietro.

***

Molti chilometri di strada prima di arrivare
con la convinzione che il respiro basti
e dall’incontro se ne ricavi una specie di abitudine.
Tutta una questione di coincidenze da sfatare.
È prendendo le misure che si costruiscono i letti agli argini.

Meglio andarsene altrimenti, andarsene del tutto dimenticati. 

***

Basterebbe il silenzio rotto della sera,
la materna pazienza dell’acqua,
una veglia che tenga a riparo le polveri.

Non è una terra straniera
quella che ti asciuga gli occhi
nell’istante della confessione che cade
e non c’è rumore che sappia farsi sordo
intorno a questa stanza senza più illusione.

Riparo lo spazio con la calma della parola,
maneggio gli eventi con cura.

***

È andata così.
L’incertezza quasi fatale,
un’apparizione tardiva non avrebbe reso più concreta la visione.
Lieve non resta neanche la terra su cui poggiare i piedi.
Non avevano nulla da dire prima di partire
e infatti, non avevano detto nulla.

La domanda è stata esaminata poco dopo,
a seguire le trattative per andare.
Forse un giorno potrò dire quello che oggi temo.
Qualcosa si agita al confine, un principio di rivoluzione?
Le accuse hanno il colore delle cose ormai mansuete.

Qualcuno ha ucciso la mia ombra e il suo contrario.

***

Un minuto e parlava la nudità.
dicevi di sentirti a casa ed era strano,
contenevi quel verde e non sapevi.
Le parole ordinate nei giorni in fondo al mese
raccontavano al posto tuo,
erano giorni a sommare.
Aspettavi che qualcuno venisse a liberarti,
che qualcuno dicesse
è dicembre, sono qui, ti ho riconosciuto.    
Speravi in un capitolo più comprensibile,
in una vita a misura di gradino.

Era un canto di pupille a sgusciarti dalle tasche
mentre tutto chiedeva permesso reclamando il suo vero nome.

***

Fare pace con la misura tra le cose mai dette
che non sanno la parola andare.
Trovarsi è poi forse questo e noi lo sappiamo.
Sulla linea d’orizzonte il gesto traduce una parola.
Ti chiedo di aspettare,
di mettere da parte il tempo,
di diventare forma.
Dobbiamo imparare la resistenza del bianco,
la sua capacità di dire.

Dobbiamo raccontarci le vite precedenti
e dirci che mancano le cose viste insieme.       

***

Sono mani che vengono incontro senza
parlare le tue ferite ancora aperte.
Quell’assurda, infantile pretesa
di ripetere gesti imparati a memoria,
nulla di detto, non esplicitamente almeno.
Farsi carico di sguardi, indagare il loro dire
partendo dalla fissità con cui stanno fermi.

Un restare che è un andare, un andare che è un trovarsi.  

Decisivi minuti di bianco prima del risveglio
la ragione che non ha paura di essere contraddetta.

 

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