Ilaria Boffa – About sounds about us (Di suoni e di noi) – Samuele editore, 2019
Un libro interessante, questo di Ilaria Boffa, che pone delle questioni rilevanti (e anche dei problemi) che cercheremo di vedere. In versione bilingue, con testo a fronte in inglese, composto dalla stessa autrice e dalla medesima tradotto in italiano (con altre collaborazioni per alcuni brani), il libro parte dall’idea-progetto di una “poesia sonora”, come ricorda Patrick Williamson nella prefazione, ovvero di testi in cui l’elemento fonico, sonoro sia parte preponderante, sebbene non esclusiva, del significato, del livello comunicativo, almeno tanto quanto ciò che possiamo definire come “tema” o motivo dello scritto stesso. Dovrebbe essere, il libro, il punto di coagulo o di affioramento di un percorso artistico in cui è coinvolta l’autrice, che come si legge in una nota “dal 2018 produce lavori che uniscono poesia e field recording in collaborazione con musicisti italiani e stranieri”. Come avverte il prefatore, si tratta di mettere in opera una “forma poetica nello spazio sonoro tra i suoni, i versi e le lettere”, là dove “le parole sono macro strutture che contengono informazioni ma le unità verbali sottostanti agiscono semplicemente come elementi sonici”, raggiungendo (o tentando di raggiungere) “una messa in atto poetica di uno stato di consapevolezza non-duale che collassa la suddivisione soggetto-oggetto” (quest’ultima affermazione, per la verità, appartiene a Timothy Morton, teorico degli iperoggetti e della realtà “viscosa”). E’ questa l’ambizione di fondo del libro, anche se mi pare che alcuni di questi concetti in realtà appartengano da sempre alla poesia. Dico subito che in questa raccolta non c’è niente, nemmeno a livello di citazione, della poesia sonora come storicamente la intendiamo in Italia, almeno non quella che ruota intorno a nomi come Giovanni Fontana, Arrigo Lora Totino, Julien Blaine, Adriano Spatola, Gian Pio Torricelli e altri. Il suono in questa poesia deriva, come rimarca anche Williamson, in gran parte dall’uso abile di certi strumenti retorici e pararetorici, dalla selezione verbale per la quale “il suono si adagia su precisi schemi di vocali e consonanti tramite assonanze, allitterazioni, quasi rime e ripetizioni”, come annota Williamson, che di seguito porta l’esempio del primo testo del libro (The sounds of language/I suoni del linguaggio – v. sotto). A questo va aggiunto un uso esteso di “‘s’ sibilanti come suoni iniziali o terminali quasi ad incollare insieme i propri testi, in particolare in Sustain/Sostieni (v. sotto), e una terminologia sonora” (terminologia quale lo stesso sustain, come sa qualsiasi musicista. Andrebbe comunque marginalmente osservato che la citazione di terminologia sonora non è poesia sonora, è semmai metapoesia).
Qui si inserisce il primo motivo di riflessione riguardo al libro, e cioè la “conflittualità” in relazione al suono / senso / metro ecc. tra lingue diverse e in special modo tra inglese e italiano (se ne è parlato spesso nell’ambito della musica nella sua forma canzone, dicendo – magari a sproposito – che è meglio l’inglese). Perché mi pare indubbio che le “qualità” sonore che Williamson indica vadano quasi inevitabilmente disperse nella traduzione italiana, che finirebbe così per diventare “documentale” come una didascalia museale di una installazione, se non fosse che l’italiano si prende la sua bella rivincita, vantando una supremazia sul campo della (bella) resa lirica dei testi (basta leggere i brani per rendersene conto). Questo è uno dei motivi per cui è certo molto importante (se possibile) leggere entrambe le versioni: il fatto che la traduzione dall’inglese (lingua sorgente, quindi di creazione “prima”) all’italiano (lingua di arrivo, ma anche “madre”) sia opera dell’autrice offre una visione di prima mano sui meccanismi traduttivi ma anche mentali e creativi “in corso d’opera”, su una certa binarietà che mi pare risponda non solo a bisogni creativi ma anche a necessità in qualche modo pre-testuali di comunicazione/diffusione (usando appunto una lingua internazionale, anzi “franca”); e anche sui dissidi, gli scontri, spesso irrisolvibili, tra idiomi, sui compromessi fonolinguistici, gli spostamenti lessicali (ad es. pond che diventa argine, lo stresso sustain che – scelta difficile – diventa sostieni) ecc.; e poi appunto sulla poiesi, sulla poesia “pensata” in maniera binaria; ma anche fra tradizioni letterarie, diciamo da una parte whitmaniana dall’altra crepuscolare (basti pensare ai deittici, in inglese generalmente usati per dare concisione o grammaticamente indispensabili, in italiano i primi ad essere cassati in nome di una lirica indeterminatezza). Va da sé che la traduzione è anch’essa creativa, e significante e autoriale, rientrando a pieno titolo in quel tentativo di superamento non tanto e non solo di quella suddivisione soggetto-oggetto di cui parla Williamson ma anche di una dualità per così dire culturale.
L’altro motivo di riflessione forse riguarda i limiti e le possibilità del testo scritto, le fughe e i ritorni ad esso, rispetto alle ambizioni dichiarate del libro. Una delle particolarità del quale è che alcuni testi sono associati a un QR code, cioè un codice a barre bidimensionale contenente alcune informazioni. E infatti le cose più interessanti avvengono fuori dal libro stesso, in un tempo asincrono attivabile (e questo sì è davvero intermediale) con il click di un dito su una app – se ce l’hai (*) – del tuo smartphone, che scansiona un codice a barre (QR code) che ti fa transitare attaverso la rete in un mondo digitale di suoni e voce, un reading particolare e davvero affascinante (file voce + field recording) del testo a cui il codice è associato. Ma si ha l’impressione di due mondi che si sfiorano, si avvicinano ma non abbastanza da intersecarsi, confondersi, meticciarsi, almeno qui e almeno per me. Il muro al momento invalicabile è di carta, è la carta. Mi viene da osservare che questo libro, sorretto da un’idea feconda, avrebbe avuto bisogno di una dimensione ipertestuale che la carta, pur con qualche innesto come abbiamo visto, non consente. La carta è qualcosa di marmoreo, non solo è impermeabile (molto) all’intervento del lettore, ma è anche tetragona (se non in ristampa) a qualsiasi varianza testuale. Già un ebook permette altre cose, ad esempio l’inserimento di tracce audio immediatamente linkabili, oppure ancoraggi a note, varianti, addirittura percorsi alternativi o trabocchetti per chi lo utilizzi. Figuriamoci poi le potenzialità di un sito/installazione dedicato, come ad esempio QUI. Ma questo è un altro problema.
Queste considerazioni, che potrebbero essere viste come punti critici (ma in senso costruttivo), incidono relativamente poco sulla qualità della scrittura, a mio parere considerevole nella sua concisione, nella selezione del linguaggio capace di definire l’immagine velocemente (es: “l’ombra precede le ossa / sulla via del ritorno” ci dice tutto o quasi sulla collocazione nello spazio, sulla luce, sull’ora del giorno), nei non pochi squarci lirici, nello sguardo gettato sulla natura, molto più presente di quanto sembri, nella vis con cui affronta temi importanti come la migrazione, tutte qualità rintracciabili in entrambe le versioni ma – come abbiamo visto – con diverse implicazioni sonore. Qualcosa si perde qualcosa si acquista nella traduzione, ma è comunque importante prendere coscienza, come lettori, di questa duplicità, della zona di confine che si viene a creare tra i testi che tuttavia, poi alla fine, non può che riflettere una unicità di pensiero, di sensibilità artistica. Perché alla fine si può dire che questo è un bel libro, è un bel libro malgrado le sue intenzioni e le sue ambizioni, il suo voler essere concettuale. E’ un bel libro di poesie in versione bilingue, anche eccellenti, a cui è venuta a mancare, a mio avviso, la dimensione installativa, una certa tridimensionalità. Verso cui Boffa certo dovrebbe procedere, certo tendenzialmente, come lei dice, con meno “lingua”, un ipotetico grado poco più di zero (“tagliare la verbosità. Tacere”). Senza perdere di vista, auspico, le sue qualità di poetessa pura e quella “speranza nel potere del linguaggio che conserva e ripristina” a cui allude Williamson. (g. cerrai)
(*) come QR Droid per Android o QR Code per iOS
THE SOUNDS OF LANGUAGE
On the pond boots root and
dogs predict the mutability of doubts.
Holes dug between hunger and rage.
Saturation and desaturation
the notation of void. Always vigilant
sounds are as good an answer as language.
I SUONI DEl LINGUAGGIO
Sull’argine gli stivali mettono radici e
i cani predicono la volatilità del dubbio.
Buche scavate tra fame e rabbia.
Saturazione e desaturazione
la notazione del vuoto. risposta vigile
i suoni sono linguaggio.
SUSTAIN
There is a way to generate a multitude
of undefined
spaces.
Sound designs density and sparseness.
It’s in endurance.
The iteration of pitches
processed.
Separate what is spurious and ancillary.
Disclose the
pieces.
Deconstruction over construction.
While I walk
I scan the clumps of dirt.
I wonder about the gram of mud.
Sustain each second
of us.
SOSTIENI
Esiste un modo per generare moltitudine
non definiti
spazi.
Il suono disegna densità e rarefazione.
È nella persistenza.
l’iterazione di toni
processati.
Separa ciò che è spurio e ancillare.
rivela le
parti.
Decostruire sul costruire.
Mentre cammino
seziono le zolle.
Mi interrogo su un grammo di fango.
Sostieni ogni secondo
di noi.
THE CARTOGRAPHY OF OBJECTS
The cartography of objects
is a shriek that wrecks. Sensual.
We are not alone.
Starlings are back. Unsorted
the building sites, the helmets,
the yellow crane, the solar panels.
That video where
decay is unearthed.
Humans rotate copper aerials
to catalyse memory.
It’s so arduous to tame desire.
Take my mornings, the dogs’ jumps
all the leaves on my wet boots.
Take weakness and shift it
to the right
Then press Enter.
LA CARTOGRAFIA DEGLI OGGETTI
la cartografia degli oggetti
è un grido che distrugge. Sensuale.
Non siamo soli.
Gli storni sono tornati. Disordinati
i cantieri, gli elmetti,
la gru gialla, i pannelli solari.
Quel video in cui
si dissotterra il declino.
Uomini ruotano antenne di rame
per catalizzare il ricordo.
È così arduo addomesticare il desiderio.
Prendi le mie mattine, i salti dei cani
tutte le foglie sui miei stivali bagnati.
Prendi la debolezza e trascinala
sulla destra
Poi premi Invia.
CHARTING TIME
That window through which we look
it’s your window.
A window with blinds banging
fiercely in the cold.
We chart territories, oaths,
peoples walking, mapping stillness.
Unexpectedness opens
and we face the crevasse, the vastness,
loneliness.
I’ve crossed time for you
past and future.
I’m here, immobile, a whiteness in me.
leaning against this wall
I yearn for the calm.
TRACCIARE IL TEMPO
Quella finestra da dove guardiamo
è la tua finestra.
Una finestra con gli scuri che sbattono
impetuosi nel freddo.
Tracciamo territori, giuramenti,
popoli che camminano mappando la fissità.
l’inatteso si apre
e affrontiamo il crepaccio, la vastità,
la solitudine.
Per te sono stata attraverso il tempo,
passato e futuro.
Sono qui, immobile nel mio pallore.
Contro questo muro
attendo impaziente la calma.
MIGRANTS
They built a city, a safe place.
A few elements between pavements and trees.
raw nature. The new urban limit
where they call for the living.
They meet languages at the crossroads
and silent, they keep staring.
Don’t be scared migrants.
Enter and unmute us.
MIGRANTI
Hanno costruito una città, un posto sicuro.
Pochi elementi tra marciapiedi e alberi.
Una natura nuda. Il nuovo limite urbano
dove raccolgono i vivi.
Incontrano linguaggi all’incrocio
e osservano muti.
Non temete migranti,
Entrate e toglieteci il silenzio.
THE LANGUAGE OF SOUNDS
It’s all about grass. The green
and the elegance of wilting away.
We stopped at the meadow
to take a field recording.
Our knees got drenched, the spikes rustled.
Drifters in the valley of pulses.
All the senses enhanced, the fibres strengthened
for the crickets sang and dandelions danced.
This land is a resonator, visible
and invisible. We stood there.
Any beat you recognise?
Hear, how insolent.
Il LINGUAGGIO DEI SUONI
Tutto racconta dell’erba. Il verde
e l’eleganza dell’appassire.
Ci siamo fermati sul prato
a registrare i suoni.
le ginocchia fradice, le spighe fruscianti.
Vagabondi in una valle di impulsi.
Ogni senso potenziato, le fibre rafforzate
cantavano i grilli e danzavano i soffioni.
Questa terra amplifica, visibile
e invisibile. Stavamo in piedi.
Ne riconosci il battito?
Senti quant’è insolente.
LOVE IN THE ANTHROPOCENE
It moves to every landscape
it brings a new literacy
and at night hunger.
It took my citizenship away
and taught me yours, by stratification.
you. Then plastics, metal
and glue, polystyrene foam.
And I. you again.
A foghorn, a sound lost
it calcifies the language of this Anthropocene.
AMARE AI TEMPI DELL’ANTROPOCENE
Si sposta nel paesaggio
porta un nuovo alfabetismo
e la notte la fame.
Ha strappato la mia cittadinanza
e mi ha insegnato la tua, per stratificazione.
Tu. Poi plastica, metallo
e colla, schiuma di
polistirolo. Io. E tu ancora.
Il suono perso di una sirena nella nebbia
calcifica il linguaggio di questo Antropocene.
TWO CITIES
The railroad breaks the lagoon and
delivers life every thirty minutes.
rarely on time.
It was November, that mystic entrance
at the arrivals. Wakes, the hiss, Babel,
a few interesting exhibitions.
Nebbia nelle calli.
Further west, the metropolis
its futurity self-restrained, no design for
subsidence.
How distant the strange strangers
how brittle their tilting in the cold.
Desolate the two cities.
Acqua Alta! they yell, acqua alta!
all through.
And it floods slowly, it covers
each tongue, it salts all apertures
the wounds. Do you feel the shockwave?
rarefied, penetrating
and reverberating underground.
Stay still. It recedes now.
Quiet the two cities.
DUE CITTA’
la ferrovia spezza la laguna e
consegna vita ogni trenta minuti.
raramente puntale.
Era novembre, quell’ingresso mistico
agli arrivi. Scie, il fischio, Babele,
qualche mostra interessante.
Nebbia nelle calli.
A ovest, la metropoli
futuribile e composta, nessun progetto
per la subsidenza.
Distanti, strani stranieri
precario il loro piegarsi al freddo.
Desolate le due città.
Acqua Alta! gridano, acqua alta!
ovunque.
E inonda, lentamente copre
ogni lingua, sala tutte le aperture
le ferite. Senti l’onda d’urto?
Calma, perforante
riverbera sotto terra.
Non ti muovere. Ora recede.
Quiete le due città.
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