Sandro Pecchiari – Desunt nonnulla (piccole omissioni), nota critica di Claudia Mirrione
Come scrive Giovanna Rosadini Salom nella prefazione a Desunt nonnulla (piccole omissioni) (Arcipelago Itaca 2020) di Sandro Pecchiari, la raccolta è “un diario di viaggio dentro una sofferta ospedalizzazione, protagonista la malattia del secolo”. Effettivamente, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio resoconto in versi delle emozioni provate dal poeta triestino Sandro Pecchiari, già affermato scrittore e traduttore e/o curatore da e in inglese di alcune importanti antologie poetiche, nel corso di un suo ricovero ospedaliero. Il ricovero, come è dichiarato esplicitamente in una nota finale, è finalizzato alla rimozione di quello che, nel corso della raccolta, viene indicato come un “figlio”, un adenocarcinoma, germinato e generato da un “padre”, tema importante su cui ritorneremo (le liriche, infatti, sono suddivise in sezioni che raccontano tutto l’iter ospedaliero: PRIMA DEI GIORNI, GIORNO ZERO, GIORNO UNO, GIORNO DUE, GIORNO TRE, GIORNO D’USCITA, DOPO I GIORNI – AFTER THE DAYS).
L’incipit dell’intera raccolta è decisivo: “l’aria nutre il lupo che ci azzanna”. Chi è questo lupo che azzanna, che è dentro il corpo e che sopravvive in esso, respirando e vivendo attraverso la stessa aria che inaliamo? Il lupo è il male? Il pericolo cui ci stiamo sottoponendo, l’andare incontro ad un’operazione rischiosa? Sì, il lupo è tutto questo e, pertanto, produce un forte senso di straniamento e di perplessità nel riconoscere se stessi, la propria patologia, e anche i propri consanguinei (“che occhi grandi che hai” dice il poeta, p. 21 con nota a p. 74), ma per Pecchiari è anche altro, tanto da arrivare a ribaltare la consueta, insopportabile frase, che viene rivolta a chi sta andando verso la sala operatoria, e cioè “in bocca al lupo!”. Dice il poeta: “andrà bene / che sia un buon lupo / che sia un bel viaggio / che stiamo in bocca / a un qualsiasi dio”. Come, infatti, Pecchiari spiega nella nota corrispondente, egli si augura di essere preso “con amore dalla mamma lupa ed essere portati da una tana all’altra al sicuro dai pericoli. Doppio augurio quindi: di affrontare i rischi e di saper sopravvivere al rischio mediante la protezione. La risposta alla frase ‘in bocca al lupo’ più opportuna non sarebbe quindi ‘crepi il lupo’, ma ‘viva il lupo’.” Abbiamo a che fare con un lupo bifronte quindi, malattia che si fa carne della nostra carne e che azzanna dal di dentro, ma che, nella sua rilettura, si fa anche salvezza, quasi una divinità, una divinità che può sì essere protettiva, ma che si può concretare in sofferenza e passione (e in questo senso vanno interpretati tutti i riferimenti scritturali, spesso in latino, e specialmente quelli alla vicenda di Cristo, disseminati nel corso della raccolta e spiegati accuratamente nelle note finali).
In tale contesto ospedaliero, i temi dominanti della raccolta sono due e sono inevitabilmente intrecciati tra loro: il corpo e la malattia che lo attanaglia. Da un lato, “il corpo da tagliare sarà di nuovo / imbelle di cibo e di scarti”, ma nella fase attuale il poeta sta vivendo un momento in cui si tende ad “esplorarsi per tratti” (…) “cambiando sul corpo il corpo” (…) e si chiede: “quanto di me permane / quanto di noi è noi?” Il corpo, sottoposto ad un intervento, ad un intervento invasivo, importante, cambia, si evolve: è ancora nostro? Noi siamo più noi? Questo è l’interrogativo che ci pone il poeta, mentre si focalizza sulla percezione che ha del suo corpo e della sua identità. Come la antica e leggendaria nave di Teseo: quando gli si vanno a cambiare tutti i pezzi per ristrutturarla piano piano, è sempre la stessa nave oppure è una nave diversa e altra rispetto a quella di partenza? Insomma, il poeta ci mette di fronte ad un puzzle identitario. Dall’altro lato, c’è anche da dire però che, qui, i corpi in questione sono due: “siamo nello straniero di due corpi / senza trovarci né almeno perderci / padrefiglio disciolti dalle lontananze / tu sei l’allarme e l’espulsione / io la spinta del sangue in diacronia. / siamo solo custodi incompatibili”. L’altro corpo, gemmato malignamente dal primo, è il male che – come anticipavamo – lungo tutta la raccolta è reinterpretato in termini traslati come un “figlio” che minaccia il “padre” ospite e tenta un patricidio (“Tu quoque fili mi”, si legge nel primo componimento, con chiaro riferimento al Bruto cesaricida) che però resta incompiuto (è un figlio che rimane “abrogato”, è un padre che rimane “senza figlio ormai / salvo / svuotato”) attraverso un atto che, poeticamente, è senza nome (“ciò che tu vedi ha ricevuto nome / ogni sua sottoparte / lascia pure / quanto di tutti noi / nella stechiometria di una asportazione / dove sta il voltarsi nel sentire. / come nominare un nido vuoto?”), ma che seziona e racchiude il “figlio” in vasi “canopi”. Il corpo, del “padrefiglio”, però, interagisce con gli altri corpi (“il corpo scava storie altrui / intrusioni densi segnalibri”) e si muove in uno spazio, sia all’interno dei reparti ospedalieri presso cui vaga come “uno zombie da corsia” in una atmosfera alienata e alienante, ma crudamente realistica (“varco la porta 7D/ in un voile di teli d’ospedale / la borsa col catetere, il cigolio del porta-flebo / i collant antitrombo, le infradito gialle / in questa sfilata di reparto / avanzo come nel cemento”), sia perdendosi in lontananze al di là dai vetri (“noi qui isolati da finestre alte / contiamo le case e ridiamo / nomi ai villaggi come a vidimarli / confermiamo le colline e il mare / l’esserci stati rassicura dalla lontananza / noi collegati a tubi d’aria controllata / veniamo allattati di sangue e sale”: questa è, come spiega Pecchiari a p. 75, una rilettura personale di ciò che simboleggia l’espressione “l’altra sponda”, quella additata da Dora Markus nella celebre poesia montaliana, citata espressamente in un altro componimento della presente raccolta).
Questa bolla ospedaliera, tuttavia, sicuramente dominata da un’attenzione ossessiva per il corpo, l’eziologia e il trattamento patologico, le funzioni bio-fisiologiche (cosa che si evince dall’uso di un lessico che si risente certo di influssi classici, biblici, ma soprattutto di quelli medico-biologici), non è esente da interrogativi metafisici sull’impermanenza (“gli oggetti sanno come permanere [cosí parla il sasso se lo pesti / forse il gambo se lo spezzi…]”), sul tempo e la sua fuga verso il nulla, sulla distinzione tra ciò che è vero e ciò che vero non è (“la verità è un lapsus che dispiega [da dire nel secondo prima che si spezzi / la relazione forte tra gli oggetti / e le persone attorno], tra ciò che è corpo e ciò che trascende il corpo (cito in inglese perché rende maggiormente – il componimento è bilingue – “[who would have guessed / we were reduced to mere skin] / the rest [ ] a dark unknown sea inside / we chose not to fathom”). Insomma, tutti pensieri che si affastellano nella mente di chi ha tempo per pensare, per chiedersi, posto di fronte ai grandi interrogativi dell’esistenza, in un momento di grande coraggio, di grande forza di volontà.
La veste poetica di Desunt nonnulla risente di tendenze già affermate nella poesia italiana contemporanea: verlibrismo e strofe di varia lunghezza (disposte in maniera tale da creare anche un ritmo grafico sulla pagina). Quello che però è prepotentemente originale in Pecchiari è che le scelte stilistiche vanno all’insegna della discontinuità e della sospensione: il minimalismo interpuntivo crea un’atmosfera sospensiva, il dettato alterna incisi poetici (sottolineati dall’uso delle parentesi quadre), che sono come degli approfondimenti della voce poetante, e controcanti (sottolineati dall’uso del corsivo: un’altra voce o anche una citazione che si insinua nella linea direttiva dei versi) ed è pervaso da figure di ripetizione e simmetria (anafore e strutture analogiche) che si avvicendano a momenti di asimmetria (variationes, enjambement). La discontinuità sembra, quindi, la cifra compositiva di questa silloge di Pecchiari. Perché? “Perché il corpo sa tutto / e scrive e separa la fine / in una privacy di vuoto tra i paragrafi”. E del resto, la raccolta si intitola Desunt nonnulla (piccole omissioni), manca cioè qualcosa: in questo itinerario non finito e a tratti interrotto, il figlio è sottratto al padre, cui è venuto a mancare (per sua salvezza) un pezzo di sé, da sé generatosi. (claudia mirrione)
*
da mezzanotte niente acqua o cibo!
è un mantra scarnito di calmanti
tiranno se ci estingue nell’attesa
se offre la maternità tremenda
del cavallo di Troia eviscerato
pronto il palanchino di metallo
i flabelli di tachipirina
un buon passo liscio di eparina
le ciabatte offerte come offa
cinque dita di saluto intorpidite
andrà bene
che sia un buon lupo
che sia un bel viaggio
che stiamo in bocca
a un qualsiasi dio.
*
l’omertà che il letto occulterà
obscenum è il sonno con le trame sue
fuori scena questo aizzarmi dentro
l’espugnarmi questo figliocancro
forgiato da anni di parole
[sono connivente di firme e anestesia]
che occhi grandi che hai
tu guardi com’eri
dalla visione ortogonale del cuscino
chiedi dell’acqua
chiedi un cambio asciutto
chiedi agli altri di cambiare
e non sai dirti come
*
esplorarsi per tratti
[brevi per favore e a fiato corto]
per dissimetrie o riverberi
lanciando bracciate di spazio vuoto
cambiando sul corpo il corpo
tracciando linee di corrispondenza
scoprendo che non hai
percorso un campo arato
che non hai appreso a divinare
la geomanzia delle cicatrici
Lemà sabactàni
quanto di me permane
quanto di noi è noi?
*
camminiamo lenti
le mosche hanno buon gioco
e pinzano messaggi sulla pelle
con brivido guardiamo quei riflessi
e andiamo morsi di lentezza
che è cibo e stazione per gli altri
[l’avremmo detto mai
che saremmo stati solo pelle]
il resto [ ] occupa un mare inconoscibile
dentro che scegliamo
di non attraversare.
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