Micol De Pas – Quello che so di me, nota di Fabio Prestifilippo

Micol De Pas – Quello che so di me (Lietocolle 2020)Micol De Pas – Quello che so di me (Lietocolle 2020)

 

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Il titolo di questa interessante silloge sembra un viatico verso quello che l’autrice ci offre di sé, ma in verità è solo un’affabulazione affascinante. Micol De Pas è nata a Milano dove vive e lavora. Giornalista, si occupa di musica e letteratura, passando per l’arte e l’architettura. Ha tre figli, un gatto, una laurea in filosofia, due libri all’attivo da ghostwriter.

La caduta nella noia di ogni lirismo di matrice diaristica non si consuma unicamente nell’immediata risposta a un sé richiestivo; è nella convinzione che il compiacimento della propria trascurabile e dolorosa esistenza possa produrre letteratura di qualità che si manifesta nella sua forma più comune e insopportabile . Il lirismo di matrice pretrarchesca, la bellezza della vita di Emily Dickinson raccontata in versi, una certa insistenza nelle poesie di Carver, ci dimostrano come al di là del godimento solipsistico si possa aprire il tragitto verso la scrittura letteraria, ed è tale quando parte dall’io per giungere al grande Altro.

La differenza sostanziale tra una silloge improntata sui capricci di un io nella sua veste di elemento di confine e una riflessione sviscerante, che apra all’altro la verbosità dell’inconscio, sta nella scelta linguistica, più semplicemente nella possibilità simbolica che si vuole dare al linguaggio. In questa prospettiva l’indagine di Micol De Pas amplia i suoi orizzonti sino a giungere in un’abitazione dell’io che è differente – data l’ambiguità di cui si accennava in principio – da “quello che so di me”. Non dover interrogare la veridicità di quel saper è una delle grandi qualità di questo testo.

La morsa dell’io – di quell’io convinto d’essere padrone in casa propria – è allentata se non addirittura inesistente; nella silloge della De Pas non è “la speculazione sul soggetto” il motore psichico trainante piuttosto un frizionamento tra il metodo con cui l’autore organizza il soggetto narrativo o scenico, in modo da svolgere sul lettore o sullo spettatore un’opera di persuasione (affabulazione)¹, quello che si intravede del vero racconto (quello che so di me) e le sorti del linguaggio (la poesia). Quello che si intravede del vero, chiariamolo, è un reale quasi tangibile: “Perchè era giorno / ancora / quando sei morto / pieno di veleno nel corpo / morto prima di te / marcio / di piaghe / piscio feci bava”, eppure riesce ad essere quella rottura dall’appiattimento linguistico che la poesie sa esperire: “qual è quell’uomo che muore neonato / e sa dar voce ai suoi pensieri adulti? / La notte è più chiara del giorno / se a definirla sono stelle immobili”.

Ma sono altrettanto tangibili le occasione nelle quali l’autrice tenta una fuoriuscita dalla prigionia del sapere se stessa definendosi allo scopo di movimentare la propria condizione, dal luogo narcisistico a tutta l’umanità: “Imbrigliato nell’asfalto// Albero di città/Imponente e soffocato// Costretti entrambi a una ribellione sotterranea”; “Mostrami il tuo portarti nel mondo/prima del tuo nome/Perchè la tua anima sta lì,/nei tuoi piedi”; “Ecco, questo è il mio credo / Declinatelo come vi pare, / ma vi prego, lasciatelo libero / di corrispondere ad o ogni altro io ”.

Espresso in altri termini, noi possiamo conoscere solo ciò che possiamo intendere grazie alla nostra libreria innata di simboli². Si riaffaccia ancora il problema del titolo, intorno al quale si svolge una delle questione cardine dell’intera opera: l’ineluttabilità dello sguardo umano sempre velato dalle proprie, irriducibili, simbologie. Non a caso l’autrice forza la riflessione su analogie che legano la propria percezione ad una sorta di inconscio collettivo, solleticando così la fragilità di ogni significato”: “E a pochi piedi da lì correva una linea, gotica, di morte e reclusione/Correva, perchè è il camminare che ci distingue, veloce o lento/28 ossa che articolano lo scheletro del piede // Di Gandhi e di Hitler”. Tutto il resto, ci ricorda Micol De Pas, se non entra in questa relazione è assolutamente prescindibile: “Quello che guardano i miei occhi, / riguardano me sola” tuttavia quando sceglie di aprirsi all’altro “Tu solo condividi con me/ ogni cosa/che il mio cuore ha sentito”.

Mentre leggevo la raccolta mi sono imbattuto sulle pagine web di joimag.it, di cui Micol è collaboratrice, e in particolar modo su un omaggio al premio Nobel Toni Morrison. In questo articolo si elogia il discorso che la Morrison tenne dal pulpito dell’accademia di Svezia e che, a mio avviso, dice molto sulle poesie raccolte nella silloge. Prendiamo per esempio questo passaggio: “La lingua non può “definire con precisione” la schiavitù, il genocidio, la guerra. Né dovrebbe struggersi per l’arroganza di essere capace di farlo. La sua forza, la sua felicità sta nell’arrivare verso l’inesprimibile”. Successivamente prendiamo in analisi questi versi di Micol: “[…]io sono affascinata/dalla scrittura scientifica:/trasforma i fatti in assiomi,/in verità incontrovertibili[…]Ma è l’errore,/ermafrodita,/che genera pensiero”. Il linguaggio, pur essendo lo strumento per eccellenza votato alla ricerca di senso è, paradossalmente, il meno adatto. Eppure da questa mancanza si divarica l’unica esperienza di libertà che possiamo fare al di fuori del suo sterile, ridondante e trito concetto. Compreso il limite e la sua possibilità allora il linguaggio, in particolar modo il linguaggio in versi, si offre come un contenitore infinitamente capiente.

L’occasione della sua parola, quella che è tale per Micol, genera un’ampia gamma di luoghi della vita: la malattia del padre; l’amore in senso lato; il sogno; la quotidianità; l’ironia sulle certezza; la leggerezza; la disperazione abissale; l’insensatezza. Luoghi di partenza per una riflessione sulla condizione umana che è, in egual misura, impossibile da definire e pretesto per saggiare l’inesprimibile. Ancora sulla scia di Tony Morrison: “Il lavoro della parola è sublime[…] perché è produttivo; questo significa che assicura la nostra differenza, la nostra umana differenza – il modo nel quale noi siamo, diversi da altre persone viventi. Noi moriamo. Questo può essere il significato della vita. Ma noi creiamo un linguaggio. Questo può essere la misura delle nostre vite.”

La misura di Quello che sappiamo di noi potrebbe essere, in conclusione, la consapevolezza fragile della nostra scintillante e irriducibile diversità.

 

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La madre

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Mostro con forza i segni di quella che chiamano debolezza

in una ciocca bianca di capelli sul viso

Sono fiera di invecchiare,

non bramo una giovinezza passata:

mi onora avere vissuto

A mia madre non piace,

si rammarica nel vedermi canuta:

le ricorda i suoi anni

come uno specchio spietatamente sincero

Il gioco di psiche è riuscito una volta di più

e lei non vuole

non può

entrare nello specchio.

 

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Testimone

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Si appoggia su piccoli stivaletti neri

dal grosso tacco sgraziato

a ogni passo

rimbomba la morte

a ogni passo

traballa l’angoscia

Il suo viso

inespressivo

è solo dolorante

come il rumore lento

dei suoi passi nel cortile

Ha visto la morte

nella sua casa

quella che la ospiterà tra poco

al termine del suo cammino

Ha visto sua figlia impiccata nel bagno di casa

e forse quegli stivaletti neri

erano i suoi,

di una ragazza

troppo pesante

per la leggerezza del vivere.

 

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L’eco

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Il mio nome di figlia risuona

con un’eco se mio padre mi chiama

Quel suono composto da 5 lettere

fa il giro della stanza

rimbalza sui muri

per ripetersi allungato nella vocale centrale

Il mio essere figlia si riappropria del passato

in un fuori sincrono spiazzante

che nello iato

dell’eco

crea una pausa letale

in cui ricade la storia

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la mia

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la sua

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la nostra

 

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Abissi

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Quali profondità abissali pensi di raggiungere

senza bombole o pesi?

E quanto tempo pensi di resistere laggiù?

La leggerezza vanifica ogni tentativo

di verticalità:

necessita di peso

per assecondare la gravità

Se trovi la cintura adeguata

e alleni il respiro a sufficienza,

allora potrai raggiungere

il mare nero

Allora potrai incontrare il buio

in cui mostrare te stesso

che sai trovare luce

che sai farti luce

Svestiti, si va nudi in profondità

Indossa la cintura di pesi,

contrasta la leggerezza del sale,

respira, impara a meditare

Immergiti

Continua a scendere

scendere

scendere

scendere

Resta più che puoi

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Il resto, verrà da sé

compresa la risalita

lenta, bellissima, ristoratrice

 

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1.Oxford Languages

2.Carlo Daniele su Wolfgang Pauli in “Obiettivi e Motivazione: Psiche e Natura”, carlodaniele.it/psiche-e-natura/

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