Carlo Tosetti – La crepa madre – Pietre Vive Editore, 2020
Trovo sempre curiosi i libri in cui l’autore in qualche modo mette le mani avanti – o in fondo al libro, come in questo caso. Magari con un “Ammonimento” come il seguente:
D’accordo. Inutile cercare di convincere l’autore che sarebbe come mettere in guardia sul linguaggio medesimo, sulla sua capacità eidetica anche al di là delle intenzioni di chi scrive. E del resto, oltre a questo, il lavoro di Tosetti già si presenta, fin dalla prime righe, come un singolare prosimetro narrativo, nel quale l’occasione è un fatto vero o veritiero avvenuto in un luogo vero (o – narrativamente – veritiero), là dove – cito dall’ Avviso che apre il libro – “le vicende narrate sono intreccio di fantasia e convinzioni attecchite nel substrato dei miei ricordi”. Ecco qua, con qualche piccola contraddizione. In altre parole, se non è metafora è, in certa misura, mito. La mitostoria di una crepa “viva” che nel tempo attraversa una casa, una città, un territorio (siamo dalle parti di Erba, vicino al Lago di Como), sembra tornare indietro sui propri passi, in un certo senso “guarire”, imparentata alla lontana ma con qualche significato con una brutta ferita che l’autore si è procurato da ragazzo e che in qualche modo li apparenta. La crepa, che poi appunto miticamente diventerà la Crepa, ovvero qualcosa con una sua propria identità, manifesterà il suo essere in un’estate con un frastuono dalla casa di fronte, quella dei vicini: “trovammo uno squarcio tremendo nel muro: partiva dal primo piano e irrompeva di sotto, nella spaziosa sala da pranzo”. Da questo evento parte la storia, della Crepa e della Casa (anch’essa mito – in buona misura e per proprietà transitiva – in quanto ospitante l’evento). Tra Storia e folklore (la Casa che è antica, la Crepa che ripara i suoi danni nelle notti di luna, entrambe destinatarie di inutili esorcismi, la Crepa che rumoreggia ma non fa danni, si muove per la Casa, la Crepa che si attiva col malumore degli abitanti della Casa, che rumoreggia, che è viva, “dotata di una sua petrosa e peculiare sensibilità”, che terrorizza i nuovi proprietari ecc.) la storia, intesa come narrazione, si dipana. Il tentativo di mettere mano ad una ristrutturazione della Casa che la ospita scatena una reazione della Crepa che guadagna l’esterno, come in fuga, attraversa il paese risparmiando le case e la Chiesa ma non condutture, tubi, fogne, fili elettrici, si inoltra in campagna fino a giungere a pochi metri dal lago, dove si arresta, recede un po’, “dopo uno sbuffo da locomotiva esausta”. La Crepa, ci dice l’autore, è qualcosa di vivo e ancestrale collegato alla vita, perché fin dalla creazione del mondo è ciò che ha unito, più che separare, sigillando la crosta. La ricostruzione del paese e la riparazione dei danni relegano in seguito la Crepa madre nell’oblio, per tutti ma non per l’autore, memore di una misteriosa parentela tra di essa e la brutta ferita al ginocchio della sua infanzia, convinto del simbolo, la “forma” che essa rappresenta delle infinite ramificazioni della vita. Così col tempo alla fine chi racconta ritrova la Crepa, sicuro ormai che essa “è la manifestazione di una forza, una volontà necessaria, il motore di ogni taglio, segno, struttura”, la ritrova e la riconduce come un docile animale, ripercorrendo a ritroso il vecchio cammino, riscrivendo le vecchie ferite, alla sua antica dimora. Forse un movimento geologico, forse una manifestazione di una natura non necessariamente deterministica, ma comunque qualcosa non avulsa dall’uomo, che come ogni aspetto del mondo agisce il suo riflesso con esso.
Le parti in versi, di solito 12, dal canto loro sviluppano, in ciascuno dei nove capitoli, la storia come presentata prima, secondo una tessitura, anche a tratti divertente, di atipici settenari ad accento variabile, più spesso ottonari, con rime, rime interne, assonanze ecc., che danno ai testi in versi un andamento ottocentesco tra Carducci e Monti, qualcosa di cadenzato e cantilenante che smorza, se mai ce n’è, epos o dramma a favore di una ballata un po’ da cantastorie. Una soluzione stilistica che, proprio per la scelta metrica particolare, avrebbe potuto introdurre, come spesso è avvenuto nell’uso storico, qualche accento ironico, magari giocando su un lessico desueto. Oppure avrebbe potuto lavorare sulla leggenda personale. Voglio dire, la Crepa torna a posto ma il rapporto tra essa e l’autore personaggio interno è limitato alla fine, per una soluzione che non appare maturata – come epos appunto – nel corso della narrazione stessa. Che cosa è successo nel frattempo a quella liaison tra Crepa e autore, a quel potere che evidentemente intercorre tra loro? Ecco, è questo forse il punto più interessante del libro rimasto in sospeso. (g. cerrai)
VII – La crepa madre
In pochi giorni il paese si attivò per la ricostruzione. Al punto di arresto della Crepa vennero piazzati degli apparecchi per monitorare i movimenti del sottosuolo, rilevando una calma innaturale.
Ci volle la testimonianza di un pastore per comprendere la vera Natura della Crepa. Egli, infatti, la vide correre lungo la campagna, da un punto di vista privilegiato dall’alto di una collina. Testimoniò che la Crepa avanzava lungo i prati, lasciandosi alle spalle un infinito crepaccio e divorando le macchie di alberi che incontrava. Disse, inoltre, che il «disastro» si arrestò a ridosso del lago e, immediatamente, l’acqua iniziò a zampillare nel canale appena aperto. Ci fu un sussulto, la Crepa indietreggiò di duecento metri circa, risanando perfettamente il terreno e il manto erboso, come se mai fosse passata. Poi tutto si fermò. La Crepa aveva risparmiato il lago.
I dati scientifici raccolti, compendiati dalla testimonianza del pastore, aiutarono a capire; in Natura, il ruolo della Crepa non è distruggere, bensì saldare. La Crepa, nella notte dei tempi, aveva sigillato la crosta terrestre, permettendo lo sviluppo della Vita. Coincidenza incredibile, ma logica deduzione, fu capire che gli uomini –
ignari di tutto – costruirono la Casa proprio sopra il punto di arresto della Crepa. Da quel giorno venne chiamata Crepa Madre.
Il paese fu ricostruito; le condutture e le strade ripristinate. Il parco ebbe un nuovo tempio e bianche ghiaie nei viali. Tutto tornò nel la più desolante quotidianità. Ci si dimenticò della Crepa in quanto Madre, rammentando unicamente i danni causati dalla sua fuga.
1 Ancora scemava il tremore dello scioccante smangiare, che la biochimica indusse alle genti, ardite formiche, un fremito folle, la scossa – sorge nei covi sventrati – e pesti seppure, sull’ali nuove di sogni e speranze, spontaneo nacque sincero cantiere, perfetto spedale; con gli strumenti dei campi s’andò a ricucire un paese.3 Tale Tavecchi, pastore, novella la luce fornì a disvelarne natura – opposti gl’intenti al comune dedurre ragion sufficiente – in quanto proprio al passaggio della lesione portava a pascere quieto il bestiame e dalla collina si vide prodursi il canale irreale, il treno senza vapore: la Crepa cocciuta tritare.
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2 A metri duecento soltanto dal lago, senza fiatare un anno intero s’attese: tanti apparecchi piazzati, tutti con prismi puntuti. Aghi che tracciano sismi ronzarono dati che proprio davvero la Crepa cessò. Nulla più accadde, dopo rivenne il vero riposo; i movimenti nemmeno già consueti del suolo.4 Disse: «i prati squartava, d’ontani e robinie bocconi, retta, tremenda, fino toccava il placido lido, tanto che l’acqua lesta, che per natura s’infiltra, in grande vivo zampillo zuppava la gola, aperta sì da sé stessa, udendo lo scroscio, dolore del lago, allor si richiuse la Crepa e lenta, perfetta, cucì.»
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