Davide Lucantoni – Mem, nota di Claudia Mirrione

Davide Lucantoni - MemDavide Lucantoni – Mem  – Nota critica di Claudia Mirrione

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Davide Lucantoni nasce a Sant’Omero (TE) nel 1992 e ha già pubblicato con Arcipelago Itaca Eccesso di Forma (2018), mentre di quest’anno è la sua seconda raccolta di poesie Mem (pubblicata sempre per i tipi di Arcipelago Itaca) su cui, in questa nota, vorrei soffermarmi proponendo un percorso di lettura. Premetto che non conoscevo Davide Lucantoni, complice la giovane età e l’ancora esigua produzione poetica contemporanea, ma, tra le diverse sillogi poetiche di cui mi sto occupando in questo momento, mi ha colpito soprattutto il titolo. Mem. Mentre leggevo le pagine della raccolta, mi chiedevo in cosa fossi incappata. E, progressivamente, ho realizzato di trovarmi di fronte ad una micro-catabasi, ad una descensio ad inferos formato tascabile, ma con dei tratti, del tutto originali, che cercherò di mettere in luce.

Lucantoni, privatamente, mi scrive: “l’idea della raccolta mi è venuta a un funerale, in pratica passeggiavo per il cimitero e mi sono trovato davanti questa lapide su cui era scritto in epigrafe “sarai per sempre vivo nei nostri cuori”. Tutta la raccolta credo abbia luogo in questo equivoco della prospettiva da cui si legge (vedi: L’uomo personificato I – p.20, cf. infra). Mem, appunto, è la lettera dell’alfabeto ebraico che sta per “Il luogo”, e che nella carta XIII dei tarocchi (vedi: XIII. La morte – p.64) la morte scrive in terra con la falce. Nella raccolta ho cercato di sviluppare le suggestioni e le implicazioni di questi elementi. Quindi direi che il luogo è il libro, il quale entrando in analogia con la lapide è anche il punto di arrivo del viaggio compiuto dai vari personaggi della raccolta (e anche il punto di arrivo del nostro viaggio), infatti mi sembra che non ci sia mai un vero spostamento nelle poesie sul camminare e sul procedere. Quello che sperano è di restare vivi nei nostri cuori, oppure noi lettori speriamo di poter vivere in loro, questo è l’equivoco, e dipende da dove ti trovi quando leggi l’iscrizione (dentro la tomba, davanti, a casa tua leggendo l’iscrizione dal mio libro?)”.

L’uomo personificato I

«Sarai per sempre vivo nei nostri cuori –

mi dice il frontespizio di una lapide.

Ma lo dice poi a me, e chi, il morto

i parenti del morto, a me o a lui

e ora, qui, lo dicono loro lui o io

e a chi»

Queste riflessioni dell’autore mi permettono di sviscerare alcune caratteristiche della raccolta. Anzitutto, abbiamo capito che mem è “il luogo”, ma il luogo è sia la morte sia il libro, entrambi rimandano ad una lapide la cui iscrizione è interpretabile in tantissimi modi ed essi generano un equivoco plurimo e intercorsivo. “Sarai per sempre vivo nei nostri cuori”. Se ci pensiamo, davanti ad una lapide vera e propria, ci si può chiedere: chi è che parla? Le risposte possono essere molteplici (se si aggiunge anche il pluralis maiestatis): la lapide, il defunto, gli eventuali lettori, i parenti del defunto e, di fatto, alcune situazioni potrebbero naturalmente apparire paradossali (i parenti del defunto potrebbero rivolgersi al viandante casuale, ad esempio): il messaggio è effettivamente aperto e interpretabile nelle più svariate maniere. Se, invece, facciamo coincidere il luogo-lapide con il libro – che di morte effettivamente parla – e lo intendiamo come termine di un viaggio dei vari personaggi che compongono la raccolta (ma è anche termine del viaggio del lettore che la raccolta la sta leggendo), quindi come “il luogo” per eccellenza, anche lì risalta l’equivoco. “Sarai per sempre vivo nei nostri cuori”. Chi è che parla? Parlano le pagine del libro (e poi a chi? Al lettore o ad uno dei personaggi del libro)? Parlano i lettori che – vivendo – mantengono in vita le storie di ognuno dei personaggi della raccolta? Oppure, paradossalmente, parlano i personaggi che animano il libro e che tengono in vita, nei loro cuori, il lettore? Capite bene che domande gemmano spontanee da domande, ma talvolta domande contengono pure al loro interno altre domande, in una moltiplicazione, certo non esponenziale, ma sicuramente notevole e per certi versi anche concentrica. Vorrei sottolineare però che l’equivoco e l’apertura a diverse interpretazioni, lungi dall’essere un segno distintivo del componimento sopra citato, è invece – come vedremo – cifra costitutiva dell’intera raccolta, Leitmotiv costante e sottostante.

La catabasi, tuttavia, ha bisogno di protagonisti e questi protagonisti che incontriamo nel nostro viaggio sono i mal nati (Il portavoce II, cf. infra) espressione che non si può non ricondurre a Dante (“dirà ne lo inferno: O mal nati, io vidi la speranza de’ beati”, cf.Vita nuova XIX, et alibi). I mal nati sono, quindi, i dannati della descensio di Lucantoni e il poeta ce ne racconta le pene in cinque sezioni, per l’esattezza, ognuna di esse scandita da cinque gruppi di tre versi che, nel complesso, compongono una poesia di Wallace Stevens dal titolo Lebensweisheitspielerei (composto tedesco poco traducibile, ma più o meno corrisponderebbe a “sciocchezzuole di saggezza di vita”). Eccola (in traduzione):

Lebensweisheitspielerei

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Sempre più debole, il sole brilla

Nel pomeriggio. Gli orgogliosi e i forti

Sono partiti.

Coloro che rimangono sono gli incompiuti,

I finalmente umani,

Nativi di una sfera diminuita.

La loro indigenza è un’indigenza

Che è indigenza della luce,

Un pallore stellare sospeso a fili.

A poco a poco la povertà

Dello spazio autunnale diviene

Uno sguardo, qualche stenta parola.

Ogni persona ci tocca completamente

Con ciò che è, così com’è,

Nella spenta grandezza della dissoluzione.

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I mal nati di Lucantoni sono quindi gli incompiuti, i finalmente umani, gli indigenti di luce. Viaggiare tra i mal nati di Lucantoni è come imboccare un tunnel tinto di perso e di sanguigno in cui ci imbattiamo in personaggi che vediamo tutti i giorni: c’è chi si sforza di fare il morto pur di galleggiare o chi “affonda / anche solo mettendo il naso fuori di casa” (in E questa è l’acqua), chi “dopo aver attraversato / l’equivalente di un deserto / per farsi terra bruciata / con tutti i chilometri che contiene, / scende dal tapis roulant” (L’uomo personificato II), chi incontra altre vite di sfuggita in contatti privi di senso (“Gli altri sono fermi in fila e aspettano / voi una vita o l’un due tre / stella del semaforo oltre il quale / ce ne andremo insieme ognuno / per la propria strada, passando / come quello che ci passa per la mente / o così, come dalle parole ai fatti”, L’uomo personificato III). Ma soprattutto c’è chi ha problemi di identità e annaspa per rintracciare se stesso tra equivoci (ecco che ritornano) ed ambiguità. A questo tema è dedicato un gruppo di poesie: Camerino I, Camerino II, Camerino III. Il tema dello specchio e dell’identità era stato già toccato nella precedente raccolta (cf. Ti ho spiegato la mia vita indicando una vetrina) e qui, il camerino è descritto come il luogo in cui le identità si alternano, in cui l’invelamento (il chiudere banalmente la tenda dello spogliatoio) va di pari passo con l’azione contraria, con il disvelarsi e il rannicchiarsi entro sé (Camerino I) e chi entra “guarda l’apparso dritto negli occhi, / dove c’è solo quello che vede // e trova che siccome è piatta, la vita / che gli sta davanti, / in fondo non faccia una piega”. Nei camerini, questi giochi di specchi verbali equivocanti ed equivocabili si ripetono, come vediamo in Camerino III: “L’apparso si specchia nella carne, / nelle ossa ricoperte dall’intimo. // Non si guarda dentro né indietro / ma prova una camicia, a mettersi nei suoi panni” (le ossa sono ricoperte dall’intimo: l’intimo cos’è? L’intimità disvelata oppure la biancheria intima?). Come vediamo, nei Camerini prende forma un ribaltamento continuo tra interno ed esterno, tra il vestirsi e lo svestirsi che Lucantoni riconnette in un altro dei suoi componimenti (XV. Il Diavolo, cf. infra) allo smacco, d’ascendenza biblica, del trovarsi nudi e del provarne vergogna: ritrovare se stessi ed esserne consapevoli, ma risultarne confusi per la paradossale perdita dell’identità di facciata, quella che si ha nel mondo, quando si è con i vestiti addosso.

Quello degli equivoci è un gioco sostenuto da una logica combinatoria che trova il suo fulcro nel rimando alle carte dei tarocchi (non si può non pensare al Calvino di matrice strutturalista), ma che in realtà, come il Gioco del mondo o Rayuela di Cortázar prevede diversi e alternativi percorsi di lettura contrassegnati dai numeri romani (L’uomo personificato V p. 9, L’uomo personificato I p. 20, L’uomo personificato IV p. 25, L’uomo personificato III p. 40). Scrive Roberto Corsi che ha dedicato al libro un’ottima nota critica: “Invischiati come siamo nell’epoca dei meme, o memi, non è forse superfluo richiamare l’attenzione (l’A. scioglie il dubbio solo nel finale del libro) sul riferimento immediato, che è piuttosto la lettera mem, M dell’alfabeto ebraico. Consonante emme che nella cabalistica corrisponde al numero 40 (e le poesie della raccolta mi sembrano in effetti non 46 ma proprio 40, considerando quelle “asteriscate” come parti di un micropoema, o movimenti di una suite, se preferite). (…) se alcune poesie sono “a tema libero”, molte altre portano titoli ripetuti (Camerino, Comparse, L’uomo personificato, Portavoce, Segreteria) che si distinguono solo dal numero romano che li accompagna. Alcuni titoli viaggiano in ordine (Camerino I-II-III), altri a ritroso, altri senza un ordine; a un paio manca curiosamente l’episodio II. A ciò si aggiungono nove poesie dedicate ad altrettanti arcani maggiori dei tarocchi”. Come vediamo, quindi, la struttura portante che sostiene la raccolta ha delle falle, degli anelli che non tengono, segno che non tutti i conti alla fine tornano: è l’incompletezza intrinseca della raccolta che all’incompiuto (l’uomo incompiuto, il protagonista della raccolta stessa), in definitiva, sembra rimandare. Queste incompiute e ambivalenti architetture sono dispiegate attraverso una poesia tenue che, servendosi di un verso libero d’orientamento prevalentemente paratattico e discorsivo e in cui aleggia una certa sospensività (strategici gli enjambement in questo senso), fa della plurivocità e dell’ambiguità delle interpretazioni uno dei suoi capisaldi. In primo luogo, punta sulla polisemia delle espressioni (“Non è un fulmine a infuocare la stanza, / ma il faro che preme sui muri per darci alla luce”, Il portavoce II, corsivo mio) e sulla polisemia delle frasi (“Non si guarda dentro né indietro ma / prova una camicia, a mettersi nei suoi panni”, cf. Camerino III: chi o che cosa si mette nei panni di chi o che cosa?), ma soprattutto fa un uso, non frequentissimo, ma di certo sapiente e nettamente calzante dell’anfibolia o anfibologia del singolo termine che è la figura retorica dell’equivoco per eccellenza (e che avevamo già visto nell’uso del doppio significato della parola “intimo”). Citiamo ancora una volta Camerino I: “guarda l’apparso dritto negli occhi, / dove c’è solo quello che vede // e trova che siccome è piatta, la vita / che gli sta davanti, / in fondo non faccia una piega”. La vita è il girovita o l’esistenza, o entrambi? Insomma: i conti tornano oppure no? (claudia mirrione)

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Il Portavoce II

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Non è un fulmine a infuocare la stanza,

ma il faro che preme sui muri per darci alla luce.

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E non è, non è una fabbrica questa, piuttosto

l’esposizione universale dei mal nati

che non possono capire il sole.

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Malriposti, come cose dell’altro mondo,

sotto un telo di tubi ramati e luci empiriche;

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sotto un cielo di luci calde che

si dicono calde se cadono bene,

si abbinano alla pelle.

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Camerino III

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L’apparso si specchia nella carne,

nelle ossa ricoperte dall’intimo.

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Non si guarda dentro né indietro

ma prova una camicia, a mettersi nei suoi panni.

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Nessuna rotazione, gira sul posto e

si addentra nel riflesso dell’uscita battendo

un passo dopo l’altro dove cade il suono

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a cui si attiene come al suono

del suo respiro che si allontana

mentre lui si lascia andare

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XV. Il Diavolo

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Dio offrì loro dei vestiti fatti

di ogni cosa che non provasse imbarazzo,

concesse al corpo di internarsi nel vestiario

e al vestiario di uscirne incarnato.

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Il serpente invece propose loro di considerare

la cute come un abito somatico,

di svestirsi a oltranza, per poi

mettersi nei panni del loro corpo disabitato.

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Del resto, disse, per fregare la morte

non basta somigliare al proprio cadavere.

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