Paolo Cosci, intervista e inediti a cura di Francesca Marica

Paolo CosciEPPURE LA BESTIA È RIFLESSIVA, L’ISTINTO NON C’ENTRA.

SORELLE STELLE e LA MODULAZIONE DELL’URLO. UN RAGIONARE PER FRAMMENTI.

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INTERVISTA AL POETA PAOLO COSCI

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A CURA DI FRANCESCA MARICA

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1. Sorelle stelle uscito per Effigie nel 2019, rappresenta il tuo esordio poetico. Possiamo definirlo un esordio maturo e consapevole e forse, proprio in virtù di tale maturità e consapevolezza, il libro ha una matrice identitaria molto chiara e forte. Sin dalle prime pagine emerge nitidamente quella che il caro Francesco Brancati in postfazione definisce «una forte fiducia riposta nelle possibilità comunicative e etiche concesse alla parola». E, aggiungo io, concesse alla poesia, inevitabilmente. Iniziamo dunque con una domanda semplice: Che cos’è per te la poesia, Paolo? Cosa rappresenta? Il poeta assume per davvero su di sé il ruolo di manipolatore del fantasma, come sosteneva Adriano Spatola?

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Sorelle stelle è un libro scritto nel corso di una decina d’anni, ho iniziato a scriverlo a 20 anni. È stato pubblicato che ne avevo 35. È quindi un libro stratificato: il grado di consapevolezza è andato via via maturando. Ho aspettato qualche anno prima di proporlo, rivedendolo compulsivamente per tre o quattro anni almeno, e solo dopo che mi era parso di avere chiaro cosa significasse per me scrivere poesia. Ho vissuto spesso uno strano senso di colpa, pubblicare l’ennesimo libro di poesia in mezzo a numerosissimi altri. Mi sono deciso soltanto quando mi è parso fosse (almeno per me) necessario. Credo che ogni libro importante nasca da una necessità che lo regoli, da un’urgenza della scrittura svincolata da qualunque teoresi dominante. Non è semplice scrivere nero su bianco cosa sia per me la poesia. In una lettera presente nel mio prossimo libro, La modulazione dell’urlo, scrivo che la poesia è contraddizione; credo sia una definizione accettabile perché assomma insieme molte definizioni parziali. È nella contraddizione che possiamo tentare di capire la complessità del mondo e dunque scriverne in poesia. Sono però consapevole di quale sia il ruolo oggi della poesia nella società, un ruolo quasi insignificante. Ciò non toglie che sia possibile influenzare il singolo, stordirlo con la parola poetica che è sempre una parola di verità quando è vera poesia. Non penso alla poesia come a una dimensione rivelatrice né credo possa ridursi a semplice testimonianza o ad una miscela psichedelica di linguaggio. Per me significa indagare a fondo le realtà del mondo e le potenzialità del linguaggio, significa sintetizzare queste due dimensioni: linguaggio e umanità, con tutto ciò che un simile connubio implica.

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2. Rimanendo ancora focalizzati su Sorelle Stelle, aggiungo una riflessione: ogni libro è anche la somma delle sue parti.

Se si assume come valida questa premessa, non si può non prestare attenzione a come queste parti sono organizzate nell’architettura complessiva dell’oggetto/libro. Mi colpisce l’epigrafe che hai scelto in esordio (Dall’abbondanza del cuore la bocca parla, Matteo 12,34) e i versi immediatamente successivi contenuti nel Preludio (Milioni di anni decine di epoche fin qui/ parola mia che non invecchia/ sono pronto). Mi sembrano scelte capaci di veicolare un messaggio che ti appartiene intimamente come autore. Che cosa vogliono svelarci queste scelte? Cosa vuoi consentire loro di mostrare? Cosa ci raccontano della tua poetica? Che cosa ci raccontano di te?

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Quando ho scritto Sorelle stelle esigevo un’aderenza assoluta tra la mia vita interiore e ciò che scrivevo, volevo che ogni verso riflettesse la mia voce. Tuttavia il libro è attraversato da un sentimento di bontà e di perdono verso sé, ma mai d’esaltazione della buona condotta o della bontà come valore in sé. Ciò avrebbe generato un libro inutile di buona moralità; è invece la contraddizione ad interessarmi, l’emersione del bene e del male che è in noi, della connessione tra le cose del mondo: per questo le stelle sono sorelle.

La poesia posta ad apertura, Milioni di anni, ha in effetti uno scopo programmatico e, credo, coerentemente con il resto del libro, pone l’io lirico in una posizione di confronto e di scontro col mondo. Sono l’uomo e le sue contraddizioni: la luce e il torbido che è in ognuno di noi. Niente di nuovo, insomma, è un tema vecchio come il mondo ma non è poi così scontato.

Molta letteratura recente depura se stessa facendosi portatrice di valori o si limita alla registrazione dei fatti assumendo la distanza emotiva come valore. Ma la letteratura, la poesia non hanno nulla da insegnare se non una visone altra dell’uomo e del mondo, una visione moltiplicata del mondo. È nella riflessione sul male e sul bene come entità compenetranti che si ha una definizione vicina della realtà.

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3. A proposito dell’io. La questione dell’io in poesia è una questione aperta e molto dibattuta. Per molti poeti e critici, l’elemento autobiografico non dovrebbe mai trovare ingresso nella narrazione se non in una forma riorganizzata e sublimata; secondo altri rappresenterebbe invece un elemento imprescindibile di ogni dire e fare poetico. Sempre Francesco Brancati in postfazione scrive in proposito di una tua scelta poetica libera da un uso soggettivo dei ricordi che si sviluppa e prende forma direttamente sulla pagina. Segue poi un paragone con Valerio Magrelli di Ora serrata retinae. Ti ci ritrovi? A me viene da pensare a Derrida quando, citando Hegel, in Il faut bien manger, scrive che l’io, è l’unico elemento capace di trattenere in sé la sua propria contraddizione. Se si decide di rinunciare all’io in poesia, come può questa rinuncia essere consciamente agita e con quali costi? Quali contraddizioni rischiano di non essere risolte, rinunciandoci? Tu ci hai rinunciato?

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Ne La modulazione dell’urlo scrivo per brevi flash dell’io e dell’elemento autobiografico, perlopiù in tono polemico. Ma la mia polemica è anche più estesa: non tollero nessuna forma di restrizione precostituita; nessuna teoria che anticipi la pratica, l’effettiva scrittura del testo poetico. Credo semplicemente occorra sorvegliare l’ingerenza del proprio io, limitare i danni. La nostra esclusiva esperienza è incredibilmente parziale eppure la sola capace di trattenere in sé la sua propria contraddizione. Siamo insomma noi il primo riflesso delle storture, delle contraddizioni del mondo e dunque siamo un ottimo punto di partenza per comprendere il mondo e la sua complessità. Con questo non voglio dire che occorra sempre partire da se stessi ma escludere l’elemento autobiografico a prescindere mi pare ridicolo. Comunque la si voglia vedere l’atto poetico è sempre un atto narcisistico, occorre capire a quale grado. Certo nego la presenza di un io assertivo e rivelatore: come dicevo la nostra visione resta pur sempre una visione parziale e deficitaria ma rifiuto drasticamente una eliminazione preventiva dell’io lirico tout court.

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4. Alberto Asor Rosa in L’ultimo paradosso ci fa osservare che scrivere rappresenta un atto di responsabilità morale. Scrivere bene, ci dice il critico, significa scrivere in modo   secco, conciso, essenziale ma al tempo stesso complesso, profondo, difficile. Sei d’accordo? Quanto, e con quali forme, la complessità e la profondità possono coniugarsi con i concetti di secco, conciso ed essenziale? Come questo avviene all’interno di Sorelle stelle?

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Si può dare una definizione tanto sicura della scrittura? Non so neanche cosa possa significare, oggi, dare un senso morale alla propria scrittura, specialmente attraverso una scrittura secca, coincisa che sia in grado di veicolare un messaggio morale importante. Non ho pretese di questo tipo, non credo di aver fatto niente di tutto questo con Sorelle stelle: ciò che conta è una testimonianza autentica, una testimonianza che ci trascenda, che ci moltiplichi in cui sia possibile identificarsi. Se un atto morale esiste è solo verso se stessi e verso il proprio libro: non dobbiamo aggiungere nulla più del necessario, nulla che non racconti nulla, niente che non testimoni niente (non conta se sia moralmente accettabile o deprecabile). Senza cercare la novità ad ogni costo ma rielaborare idee eterne da testimoni del proprio tempo. L’interesse per la scienza, per esempio, che è presente nel mio primo libro è, credo, figlia del nostro tempo. Solo nell’ultimo anno sono usciti diversi libri di poesia che hanno uno stretto legame con le scienze. Domandarsi, tentare di studiare, di capire la teoria dei quanti, per esempio, o riflettere sul rapporto tra spazio e tempo significa per me affidarsi ad una dimensione cui tutti apparteniamo: è insieme rivelare il vero e trascenderlo, fare delle scienze una metafisica, insomma. Credo che uno dei libri di poesia di questi anni capace di coniugare la complessità e la profondità ad una scrittura secca ed essenziale, sia Pitture nere su carta di Mario Benedetti. Un libro di straordinaria complessità e bellezza.

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5. Il tema della violenza, che Anton Čechov contrappone al silenzio nelle diverse e ipotetiche risposte che il fornisce alle sollecitazioni dei singoli individui, percorre in filigrana l’intero libro. Mi riferisco sempre a Sorelle stelle. Lo percorre ma si accompagna sempre a una dolcezza diffusa. In un nostro carteggio privato di qualche mese fa, citando Marina Cvetaeva, ti avevo scritto che questo tuo è un libro di spine piantate nelle ossa. Forse la sezione in cui questa compresenza di violenza e dolcezza è più evidente è La donna e la bestia. Sembrerebbe che, soprattutto in quella sezione, il tuo desiderio di libertà espressiva si realizzi attraverso un sovvertimento dei legami del linguaggio. Penso a Georges Bataille, a cui ti accosto per un momento. In che modo il tema della violenza si collega a quello del tempo, alla sua rincorsa folle, all’usura e alla furia che inevitabilmente il tempo trascina dietro di ?

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All’inizio della sezione scrivo che la parola accelera come la materia. C’è una specie di analogia in questo. Anche se occupa la sezione centrale, La donna e la bestia è l’ultima sezione che ho scritto, a differenza delle altre l’ho scritta in poco più di una settimana, in un momento di particolare tensione nervosa, ero estremamente teso e insofferente e la donna e la bestia è il risultato di quella tensione.

È una scrittura più immediata e meno sorvegliata, non c’è costruzione, se non nella disposizione dei singoli testi, è una scrittura più rapida e forse meno rigorosa. La donna e la bestia si mostrano di volta in volta partecipi o del tutto indifferenti al dolore, alla violenza e alla dolcezza del mondo e interpretano i movimenti del cosmo da una prospettiva complementare. Dopotutto i nostri occhi osservano una meraviglia difficile da descrivere, che è di fatto frutto di esplosioni, aggregazioni violente, lotta interna degli elementi basici di cui siamo costituiti; le stelle, le galassie sono enormi entità cannibali; insomma, tutto al di là della nostra atmosfera è regolato da un principio di violenza, distruzione e rinascita. Ho cercato di declinare questo tema in alcuni momenti del mio primo libro e in maniera più estesa ne La modulazione dell’urlo.

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6. Sorelle stelle si conclude con la sezione Conclusioni provvisorie. E giunti a questo punto, non possiamo non fare un cenno alla tua prossima pubblicazione. In che modo quelle conclusioni anticipano il tuo nuovo lavoro, La modulazione dell’urlo? Quali di quelle conclusioni ritroveremo nel nuovo libro? Puoi anticiparci qualcosa?

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Quando ho concluso Sorelle stelle ero convinto che fosse soltanto la prima parte di un libro più grande che andavo scrivendo, poi mi sono reso conto che le cose stavano diversamente: La modulazione dell’urlo è piuttosto un controcanto al mio primo libro. Un momento in cui chiarisco quale direzione stesse prendendo la mia poesia. Nelle Conclusioni provvisorie il tema è in fondo metapoetico. Il tu cui si fa riferimento è essenzialmente la poesia stessa. Nel momento in cui ho scritto l’ultima poesia credevo veramente di insistere sul ruolo della poesia, della parola poetica sullo sfondo inafferrabile dell’universo intero ma poi si è costretti (credo) a seguire il vento, ad orientare la propria scrittura verso quello cui la vita ci porta. Probabilmente anche la frenesia del momento, aver concluso finalmente il libro, mi ha reso poco lucido: diciamo che l’ambizione superava di gran lunga le mie capacità e la mia forza.

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7. La modulazione dell’urlo è un libro essenzialmente epistolare. Ma non solo. Ci sono pagine di pensiero, riflessioni, note a margine e ciò che costituisce enigma, o sembra costituire enigma – per dirla alla Merleau Ponty – è il legame delle parti, ciò che sta tra loro, quello che non si vede. Che sia la profondità a costituire quell’enigma? In un nostro carteggio privato, commentando il titolo, ti scrivevo che il sostantivo urlo mi aveva fatto pensare intuitivamente al desiderio in Jaques Lacan; in uno dei suoi seminari Lacan osserva: da cosa nasce il desiderio? Da un urlo, dallo scarto tra bisogno e domanda. Profondità e desiderio, dunque. Come si combinano questi due elementi all’interno de La modulazione dell’urlo?

Possono costituire una buona bussola di orientamento?

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In fondo La modulazione dell’urlo è un libro performativo: le parti che lo compongono sono tra loro difformi ma la spinta è una sola.

È un libro che rinuncia alla prudenza, che anzi odia la prudenza come forma repressiva dell’invenzione; un libro che mette o cerca di mettere tutto quanto in gioco: la propria vita, la propria poetica, le proprie certezze. Il rischio è quello sì di rincorrere una profondità senza fine, un significato che sveli l’assenza di significato; alla fine resta il libro appunto come forma estrema dell’enigma.

Non sono semplici giustapposizioni ma declinazioni differenti di un unico urlo, che non accetta, che desidera in modo spropositato, che non si risparmia in nulla, insomma. Il desiderio, dopotutto, è mosso dalla necessità e la necessità da una mancanza; quale sia questa mancanza non è sempre facile dirlo: capita che alcuni libri sondino da una poesia all’altra questa necessità, questa mancanza; qualcosa di simile è accaduto anche nella prima parte di Sorelle stelle. Qualcosa di simile accade ne La modulazione dell’urlo. Ho sondato finché ho potuto, censurandomi in certi casi consapevolmente, boicottandomi in certi altri senza rendermene conto, sondando e coniugando profondità e desiderio. Profondità e desiderio sono già di per sé concetti connessi, lo sono in assoluto, lo sono certamente nel mio caso e in questo ultimo libro. Sono concetti legati dalla pulsione. Credo, tutto sommato, che i miei due libri siano anche (e non solo) una sorta di sublimazione di pulsioni profonde. Molte delle mie poesie emergono da queste zone e certi grumi linguistici, certi versi rappresi sono frutto di movimenti non del tutto compresi, indecifrabili, sono la traccia, appunto, di certe zone complesse da definire, da perimetrare. La spinta alla scrittura viene da lì, viene molto spesso da lì; difficilmente finora ciò che ho scritto in versi è il frutto solo testimoniale di un evento esterno, c’è sempre un connubio tra il mondo fuori e la vita interiore, per così dire, quando non addirittura una scrittura in versi che ignora completamente il mondo fuori di sé. A me interessa la natura umana con le sue zone d’ombra, mi interessa esfoliare l’uomo da ogni costruzione sociale determinata, per averlo nudo in sé, nella sua natura più intima e più autentica e dunque spesso più terribile o inaspettata.

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TRE ESTRATTI DA LA MODULAZIONE DELL’URLO

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Livorno, 3 ottobre 2013

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Caro Dario,

sono molto felice per te, riprendere gli studi ti farà bene, e poi Bologna è una città bellissima. Quando comincerai? Avrai la possibilità di frequentare qualche corso oppure farai tutto per conto tuo? Vederci a Bologna anche solo il tempo di un panino sarebbe strepitoso… Comunque tra quattro mesi parleremo almeno un po’. Livorno non ti sorprenderà, non è diversa da come l’hai lasciata tu; io al solito lavoro ancora nella scuola di cui ti parlai, ho un buon orario, ho del tempo libero e la possibilità di leggere molto. Ho conosciuto Antonio Moresco il mese scorso, prima a Castiglioncello, poi alla Feltrinelli qua a Livorno (la Gaia è diventata Feltrinelli più o meno un anno fa). Ha presentato il suo ultimo libro, un romanzo breve: La lucina, è un racconto intimo, incredibilmente delicato, autentico, e credo sia un primo canale per conoscere l’opera di questo scrittore grandioso. Il libro ha avuto un successo di pubblico notevole e adesso Moresco non è più lo scrittore sotterraneo di cui ti avevo parlato. E poi, finalmente, Ferrari ha pubblicato il suo nuovo libro La morte moglie. Stupendo! La cifra stilistica è identica, intima, è priva di retorica, priva di qualunque forma autoreferenziale, priva di eloquenza poetica. Nell’ultima lettera che hai ricevuto ti ho scritto del mio libro, forse ho esagerato, non credo si possa definire libro un insieme eterogeneo di frammenti, di tentativi – alcuni dignitosi – di poesie; certo nel complesso è molto ambizioso: voglio che sia un grande libro di poesia, non l’ennesimo capitoletto di libriccini che la nostra industria editoriale sforna da una settimana all’altra. Se deve essere, che sia importante, necessario, che assorba in sé le voci della tradizione più alta…

…Ho ripreso a vogare dopo oltre due anni, sono in condizioni fisiche schifose, mi riprenderò pian piano. Leonardo cresce, è sempre più bello.

Ti abbraccio forte.

Rispondimi appena puoi.

Paolo

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Livorno, primi dicembre 2013

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Non so esprimere la gratitudine per le belle parole che mi hai scritto. Le tue intuizioni sono davvero incredibili. È impressionante quanto un lettore possa dilatare il significato di un testo: le buone osservazioni aggiungono nuova linfa e lo rendono vivo, letteralmente. Chissà che fine faranno quelle poesie.

Ho ripreso tra le mani la tua lettera di maggio e, per quanto ne fossi meno entusiasta, ci sono alcuni spunti su cui vale la pena riflettere. L’impressione che quei testi siano stati scritti da una persona col triplo dei miei anni non è nuova. Qualcun altro mi ha detto qualcosa di simile. La spiegazione non è semplice, cercherò tuttavia di essere più chiaro possibile.

L’epoca in cui viviamo depaupera, in certi casi annulla, il valore delle parole. La poesia rende di nuovo gravida di senso ogni parola. Qua non si tratta di giocare con le parole, innamorarsene, rendere giustizia a tutte le possibilità che la parola offre. Ma restituirle il peso specifico originario. Quindi è necessario e spontaneo un riempimento che sconfini oltre l’uso, oltre la sintassi dominante. Ogni poesia deve essere gravida dei millenni, vivere e prevedere le tonnellate di materia e di dolore e di gioia, future. Deve avere in sé una patina e una freschezza sciabordate. Tutto questo comporta dolore e fatica. E se in parte trapela dalle cose che hai letto, meglio! Ti scrivo di seguito qualche verso semplice ma efficace, che chiarirà ulteriormente: “Un viaggio a perdita d’occhio / tra le fessure d’epoche troppo trascorse / a una latitudine stabilita / io vecchio racconta”.

Un abbraccio.

Paolo

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In un poeta la pulsione creativa è mossa dalla necessità; a questo urlo originario occorre dare un ordine, domarlo nello spazio morto della pagina bianca. Distribuire le parole significa dare loro ritmo, occorre pertanto modularle e considerare lo spazio bianco assenza di suono e quindi pausa naturale per la modulazione del suono successivo, della parola successiva. L’impaginazione di una poesia è importantissima, lo spazio bianco agisce in questo senso, modula il ritmo visivamente e sonoramente.

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