Riccardo Delfino – Il sorriso adolescente dei morti

Riccardo Delfino – Il sorriso adolescente dei morti – RPLibri 2021
Ah, i libri d’esordio! Ce li immaginiamo sempre come qualcosa che emerge da un supposto deserto preesistente, stiamo lì a spulciarli alla ricerca di certezze e promesse, di un qualche segnale di svolta, magari di un innovativo sguardo sulla realtà, per poi forse uscirne delusi nelle nostre aspettative. Un approccio ingiusto, diciamolo. Però qualche spunto di riflessione generale possiamo cavarne.
Questa di Delfino è un’opera prima che più non si potrebbe. Uscito in settembre, scritto da un giovane millennial (è nato nel 2000),  studente romano di filosofia, questo libro fa del suo autore un absolute beginner, ma non proprio un principiante. Nel senso che, come tutti, proviene da qualche  buona lettura o dalla scuola, fin dove la scuola, quando va bene, è solita arrivare. In effetti è proprio Antonio Bux, nella nota introduttiva, a rilevare per primo da una parte “una nota lievemente crepuscolare”, dall’altra “una colloquialità quasi sacrale e dai toni decadentisti”, con l’aggiunta – annoto io – di qualche piccolo recupero stilistico, come certe – ma non molte e peraltro pertinenti – rime o endecasillabi leopardiani (“la vita / è poca cosa, e non conosce cura”). In altre parole il primo Novecento. Be’, Bux ha ragione, e fin qui diciamo che Delfino rientra a pieno titolo in una generazione (o in un’età) non ancora abbastanza “crudele” da far fuori una certa idea di poesia, o meglio una certa idea di come la poesia si fa espressione. Non è solo una questione di stile, naturalmente, anzi da quel punto di vista Delfino ha senz’altro delle carte, almeno quelle che il suo vivere oggi, in questo tipo di contemporaneità che costringe a una certa lineare immediatezza, gli fornisce. Cosa che si concretizza non solo nella brevità efficace dei testi (anche in questo D. ha molti fratelli nella sua generazione), ma anche nel fatto che quei testi tendono a proporsi come frammenti “aperti” e in qualche modo contigui, ovverosia suggeriscono una riflessione e insieme tentano di dare l’idea di un cursus vitae, di un susseguirsi di giorni che l’autore tiene sotto osservazione e che pur essendo “momenti” hanno la loro giustezza esistenziale, o se vogliamo una loro “esemplarità”, soprattutto se in relazione a un tema. 
Il tema principale della raccolta è la morte. E il “sorriso adolescente dei morti” potrebbe essere quello di Gabriele Galloni, scomparso troppo giovane, primo autore in questa stessa collana con In che luce cadranno (ma vedi anche QUI). Naturalmente la morte è tra gli universali della poesia, un topos che può assurgere a una sua originalità solo se lo si permea con un sentire o un epos o una riflessione ontologica o ancora con qualcosa che (purtroppo) è stato esperito, non con una giovanile paura anticipatoria, o perfino, come vagamente proprio in Galloni, con una qual componente narcisistica di chi con un universale flirta. Confesso infatti che mi induce qualche perplessità, di un ventenne, questa contemplatio mortis che qui serpeggia, che forse potremmo capire, noi che abbiamo una certa età, come metafora di una imminenza che riguarda non solo gli uomini ma tutta la natura. Oppure, certo (ed è l’ipotesi di Bux), si potrebbe trattare di una morte “solo tacitamente osservata, non desiderata, bensì un’attesa pressoché innocente di offrirsi casti alla liturgia della vita”, come di chi sa o si sente che “essere adolescenti equivale lo stesso a sparire”. Ipotesi interessante, ma che equivarrebbe a quella un po’ romantica di chi, non avendo ancora esperito in pieno la vita, salta poeticamente alle conclusioni come un veloce fuoco che brucia. È l’elegia anticipata, il nostos di un viaggio ancora da fare, e tuttavia non si può non rilevarne un certo fascino. Certo, è inevitabile, in questo osservare, qualche eccesso di pathos, come in un paio di testi,  quelli più lunghi, che sarebbe stato meglio espungere dalla raccolta,  (“intanto, io, imbiancherò / nella tua ombra: / e i miei placidi occhi / ingrigiranno il triste mondo che mi insegnasti ad amare”). Ma, al di là delle ipotesi riguardo al tema, quella che vorrei assumere è proprio appunto  – in questa raccolta – l’idea della morte (che non dimentichiamo in questi testi si accompagna a un “nulla” più volte ripetuto) come imago di un sentimento di non corrispondenza col mondo, o d’inadeguatezza alla “liturgia della vita” di cui parla Bux (e che di questi tempi non è solo esistenziale, ma anche politica e sociale). Quello che ne deriva è una visione sì tragica, come dice il curatore, ma anche di un pessimismo un po’ nichilista, che certo ha le sue ragioni, le sue ferite che l’autore teme che la vita non possa cancellare (brevi accenni in brevi testi ne sono indizio: “la mia nascita fu opera di un male orfano di padre”, “sono nato sotto la liturgia di una morte indicibile”, “esistevamo nella luce del nulla”, “siamo già luce estinta”, ecc.), uno stagno oscuro in cui anche i rari momenti d’amore naufragano in una aspettativa inquietante. Di questo pensiero,  peraltro sostenuto da una scrittura che in sé ha già, rispetto ai modi e ai temi, una sua maturità che si suppone non possa che migliorare col tempo, dobbiamo come lettori prendere atto, annotandolo con qualche dispiacere come ulteriore segno di un’epoca opaca. Da cui i giovani (e chi altri?) devono lottare per uscire. (g. cerrai)

Ancora mi chiedi dove ho riposto
la mia tenerezza, madre.
Si è frantumata quando hai smesso
di deflettere questa pena e il tuo
carico si è fatto mio e lì è restato
inesauribile dentro la carne.

E dove ti ho cercata
se non in ogni altro amore.

Lì dove ti insinuavi e inoculavi
vita, restano labbra corrose
e l’infelice estratto delle tue sembianze.

Non fu ultimo il tuo travaglio:
bacia in silenzio le guance di Niobe.

***

Sarà Natale da due minuti.
Divaricherai le labbra nel vetro
siderale che ci separa.
Di come la morte avrà saputo
simularci, non farai parola.
Fisserai la mia pena per sottrarti
al tormento. E di me farai fine,
smaltimento.

***

Guarda tra le viole come si baciano
quei due ragazzi: perdendosi,
e quasi non lo sanno – di esistere,
ti dico, di certo non lo sanno -.
Già so di loro che giocati dalla vita
si giocano alla perdita, che non sanno
tra le bocche calde, quale rione
porti dritto al felice vuoto del letto.

***

Sento il dramma della vita
nell’entroterra di ogni vena.
Non splende in me altro sentore,
mi anima l’insonne resistenza
di un inganno, non l’amore,
solo il nulla che albergo
e l’affanno; quanto basta
per non farmi ammutinare.

***

Quelli che restano

Quelli che restano
bruciano nella bulimica
urgenza
                                           dell’altrove.

***

Era ottobre che la luce
si lasciava oltraggiare
dalla triste stagione.
E noi poco amati,
cresciuti d’ignavia come
cose di poco valore.
E sotto l’anfiteatro della
dea fortuna, l’inerzia
del cielo; le sagome brevi
del nostro vangelo,
attecchirsi alla notte
per non fare gelo.

***

Poco si adempie in questo
mio corpo magro costato
impoverito ai suoi bordi
un tratto disumano incede
le righe adolescenti il fianco
ritrae la sua curva – la creatura
increata si abbraccia per crearsi –
sul cuore sul diaframma sui capelli
castani sul limine della disgrazia
che non si muoia domani.

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