Francesco Lorusso Mauro Pierno, Tra i tempi tecnici – Ed. Spagine, Associazione Culturale Fondo Verri, Lecce, 2021
Un libro a quattro mani di Francesco Lorusso (già su Imperfetta Ellisse QUI e QUI) e Mauro Pierno, con una erudita e ponderosa postfazione di Antonino Contiliano che purtroppo non aiuta molto la lettura. Ma vediamo di cavarcela da soli.
Diciamo intanto qualcosa sullo scrivere a quattro mani. Come affermano gli autori: “si voleva smontare il concetto della creatività come operazione individuale e solitaria e, contemporaneamente, indagare quali fossero i fattori che entrano in campo fra due “poeti” e colleghi di un medesimo luogo di lavoro”. È una interessante prospettiva, anzi una dichiarazione d’intenti che ci offre per ora un paio di suggerimenti, ovvero il cosa e il come. Il tema intanto, che sembra essere quello già caro al Lorusso di L’ufficio del personale (v. secondo link qui sopra), cioè appunto l’ambiente lavorativo. Ovvero il luogo in cui – lo sappiamo – lo spazio è limitato e il tempo viceversa sembra infinito e dove i due poeti, in un certo senso, coabitano per quel tempo che si è detto e per quel tanto che basta, direi, per – creativamente – assomigliarsi. E poi, di conseguenza, come secondo punto la messa in opera concettuale di questa scrittura che è in teoria indistinguibile (vedremo poi se si tratta di un pregio o di un difetto), ma che in realtà (e mi scuso con Pierno, di cui non ho letto niente) nella sua tessitura mi ricorda parecchio il Lorusso di Maceria (v. primo link qui sopra). Ma non c’è motivo di dubitare che la scrittura a quattro mani si sia effettivamente concretizzata in questo libro, che cioè esso sia in qualche modo la realizzazione di quell’auspicato superamento della “creatività come operazione individuale e solitaria”, superamento peraltro nell’arte sperimentato diverse altre volte (basti pensare a collettivi come Gutai o Fluxus). Non c’è motivo di dubitare, ripeto, ma certo, stante la dichiarazione di cui sopra, una verifica (altro termine che ha ampia cittadinanza in arte, e che peraltro gli autori citano) non sarebbe superflua. Che intendo dire?
Parlo dei “fattori che entrano in campo tra (corsivo mio) due poeti”, come affermano gli autori. Quali fattori? Non lo sappiamo, nel senso che non possiamo saperlo, non è dato a chi legge saperlo, giacché il superamento dell’operazione creativa solitaria e individuale entra in collisione e annulla proprio quel tra, ovvero ciò che intercorre tra due volontà poetiche. Cioè delle due l’una, come suol dirsi. In altre parole, quello che avrebbe potuto essere un elemento d’interesse (infatti viene indicato come “indagine”) viene concettualmente sacrificato alla costruzione di un unicum che non era necessario giustificare a priori. Quel che contava infatti alla fine è il libro, che accoglie in sé (o distrugge) ogni buona intenzione, senza sconti. Tuttavia bisogna prendere atto del progetto (l’idea, il concetto) di prima istanza di questo lavoro. Inutile dire che forse sarebbe stato più interessante – al di là della post-post-rimbaudiana idea del “noi” (o della “persona-non-persona” o dell’ “io-non-io”) che è (o diventa) qualcuno d’altro, su cui si dilunga Contiliano – un confronto stilistico e dialogico, una specie di duello di concetti, esperienze ecc. che emergesse dal testo, se volete un “contrasto” (termine che ci rimanda direttamente alle origini della poesia italiana), poiché parlare di “noi” mi pare sia una superfetazione, una giustificazione valoriale ex post di qualcosa che è noto solo agli autori. Quello che resta agli atti infatti è ancora una dichiarazione, ovvero un testo sul testo, nella quale gli autori ci dicono che “l’esperimento, oramai avviato, risulta ancora in itinere, in una fusione di linguaggi e di pronunce tra due colleghi, due amici, due poeti, che intendono lasciare trasparire dalla «loro versificazione simbiotica un confronto all’osso della comunicazione, riduttivamente poetico, politico: quel politico aristotelico di partecipazione anche al vivere sociale»”. E anche di questo, naturalmente, non c’è motivo di dubitare. E ancora: “la verifica è dunque ancora in corso”. Ecco, appunto. (1)
Mi sono dilungato un po’ sulle criticità dell’aspetto diciamo tecnico e concettuale di questa raccolta perché non eludibile, a mio avviso, in qualunque discorso sulla poesia contemporanea, sempre più attenta a porsi come atto creativo “progettato”, come insieme organico o perfino come “installazione” letteraria, più che come semplice collazione di testi. Ma queste considerazioni non vogliono essere ultronee, ovvero eccedenti, rispetto ad altri meriti intrinseci di questa raccolta, che ci sono. A cominciare dalla contemporaneità delle tematiche, quelle che dicevamo del lavoro inteso anche – come spazio – non solo quale luogo fisico ma anche di coesistenza di dinamiche; e – come tempo – serie di eventi, trascorrere delle ore, succedersi d’interstizi, scollamenti di cause ed effetti, tempi morti nello svolgersi delle procedure, forse quel “tra i tempi tecnici” che suggerisce il titolo. Non a caso ho parlato d’interstizi, di inceppamenti della macchina autoregolata, perché forse proprio in quelli si svolgono “tutte le vite imprecise / sempre piene di porte infinite”, o forse in qualche “muto intertempo di attesa”. È inevitabile la domanda in quale “tra” (ancora una volta), in quale intertempo si svolga la vita “vera”, qualsiasi essa sia. Ed è probabilmente questo il tema essenziale del libro, incluso un altro interstizio, un’altra divaricazione, quella tra lavoro e casa, tra differenti contatti umani, forse tra affetti o stati emotivi. Soprattutto, io credo, tra vita regolata da “pedisseque istruzioni”, come recita il titolo della prima delle due sezioni, nella quale in qualche modo ci si sente ambiguamente “rassicurato bene a una scrivania” o dove “Il lavoro comune / straccia il nostro senso di colpa” e dall’altra parte quella regolata da una diversa ordinarietà o dal caso, su quale delle due, o entrambe, insomma si consuma una leopardiana “età migliore”, fosse anche corroborata dal “conforto vivo dei buoni doveri”. Se le parole non mentono, in tutto il libro, diviso com’è tra istruzioni pedisseque e (l’altra sezione, migliore) “Alcune pratiche accessorie” (ma mi pare non eludibili), gli autori affrontano la descrizione di un mondo tecnicamente coatto, con pochi scarti o digressioni concessi in quegli interstizi, appunto, tra istruzioni e pratiche. Voglio dire, se l’impressione del mondo è che sia totalizzante, anche un ritorno ad Itaca (citata in un testo), che supponiamo sia la casa, assume una sfumatura claustrofobica. In effetti gli autori sono efficaci nel dare un senso di chiusura, nella relativa brevità dei testi, e nel ricreare una oscura estetica da una materia che potremmo pensare antilirica, e che tuttavia aspira a certi slanci, ha tratti melanconici, tende a quei “perimetri inviolati dell’immaginazione” ove però, pessimisticamente, “luccicano strati di pratiche ormai negate”. Che fare allora? Questa poesia, se vogliamo, è fatta anche di questo dilemma, se registrare uno stato dell’esistenza, indagarlo, cantarlo, farne qualcosa di “civile” (e qui rimando alla dichiarazione citata sopra) o scavare quei metaforici strati, ricercarvi, in quel luccicare, una qualche speranza senza farne un “calco” (interessante parola che ricorre). Se come tutti i dilemmi è costituito, per definizione, da due soluzioni a un problema entrambe non soddisfacenti o inconcludenti, ha però il pregio di essere attuale e contemporaneo, di parlare di un uomo per così dire “snaturato”, che vive in un ambiente (fisico e mentale) indefinito, che percorre corridoi di edifici anonimi, che abita uno “spazio non più appartenuto”, un uomo indefinito anche come personaggio, oscuro, forse inaridito, un marcusiano uomo ad una dimensione (0 senza qualità). E la poesia, questa poesia, ne è in qualche misura informata e formata: nel tono “freddo” che la sottende c’è qualcosa di inesorabilmente irrelato, non per difetto poetico ma perché è inevitabile, perché anch’essa, come altre di cui ho parlato in passato, appartiene ad un mondo complesso eppur ristretto di cui denuncia la mancanza di coordinate di orientamento, di punti di prospettiva. Forse di futuro. (g. cerrai)
da Pedisseque istruzioni
8.
Dal primo giorno sono fisso in questa stanza
rassicurato bene a una scrivania antiriflesso
e fermo senza sfilarmi di dosso più le scarpe
evado ansie protetto da istruzioni e sciarpe
fossile pestato di dati grafici discendenti
non colgo all’occhio il morbo che mi rende orbo.
14.
Non hai più il vuoto che ti appartiene
ma la luce gonfia di una vita nuova
quel sottile canto che si fa sorriso
e per tutto il corpo ti accompagna grave.
Nuove frequenze come sorprese
nei labirinti delle pareti spoglie
ripiegano versi e ingrossano seni
trascrivendo anche due anche ingorde.
18.
Questa presunta soglia di attenzione
che si propaga fluido ed amministrazione
è colloquio, un balsamo, acuto senso.
Parole sante che pronunciamo a vanvera.
La salvazione pure nelle parole tecniche,
e nelle strane illuminazioni.
Eppure a luce spenta la gioia è intensa.
Riflesso sole nella parola stanza.
23.
Sono quelle cartelle collocate male
che torcono il braccio alle giacche
come la polvere dai trofei conservati
sono lame di sutura in questo sbotto
tanto comodo di torpore fuori busta
dove stimi con i timbri il valore falso
la marcatura senza rilievo dei giorni
messi a fremere al gelo della cantina
dove fermasti il tuo spirito nel fuoco.
24.
Hai richiesto con verbale regolare
l’orario ridotto ai pochi sorsi brevi
sul ripiego pigro di due giunture labili
sussurranti al sottofondo dei mattini
tutte le loro incombenze cedute
fra i biscotti integrali rimasti freschi
per la prima consolazione quotidiana
che non dona deroghe ai tuoi giorni ordinati.
da Alcune pratiche accessorie
10.
E senza appigli poi,
copia e incolla,
che la rotondità si fa sensibile
un peso tanto grave
in uno scorrimento
senza soluzione di continuità,
con rimbalzi grafici a picco.
Particelle nell’ottovolante che in attesa
si concentrano in consumati dati statistici
e poi schizzano incontrollati. Pure
gli operatori sbagliano svanendo.
13.
Non dice nulla al nome della paura
quella sostanza che nelle vertebre
avverte il sibilo libero sulle presenze,
poi spinge a fondo e in curva stride
lungo la tangente del corridoio l’ombra
assale immobile quella visione affissa
insieme alle linee guida da non seguire
lì dove l’ufficio li sfiora nel personale,
accarezzandolo all’osso.
14.
La festa obliqua dei nostri sorrisi
anche nei camminamenti storti,
di procedure non bene articolate,
di sguardi strabici a finestre chiuse.
Fuori un sole tipico anche invernale.
Di polvere umida ed odorosa.
Ti parlo ovunque nei fremiti della presenza,
le mani ed il corpo sempre ben appuntati.
17.
L’ufficio abbandonato ad una evacuazione prova
mentre nel cortile si colma una cornice semplice.
Così restano giù nel caseggiato infondo ai corpi
quelle immagini inquadrate con la instabilità
o sotto gli incarti burocratici dei cassetti fondi.
18.
Adesso il cielo cenere che chiude la stagione
a noi ci porta matite senza punta sul pianale
il profilo battente della soglia senza addobbi
una solitudine silenziosa fissa sullo schienale
e il percepire i rumori cittadini fuori campo
dalla stanza che ora si ritrova vuota e stanca
tra le sedie con gli spettri dentro i drappi spenti.
(1) È tuttavia interessante notare a margine che, viceversa, nei testi del libro questo “noi” è raro (1 occorrenza più 9 varianti pronominali) e diventa spesso un classicissimo “tu” impersonale poetico, nelle sue diverse articolazioni (27 occorrenze in tutto, più diverse forme verbali in seconda persona), mentre l’io spunta solo in un paio di poesie.
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