
La poesia, se male esercitata, diventa un dispositivo che si riproduce, anche nel senso di un suo piccolo potere extrapoetico, come strumento cioè per instaurare un hortus conclusus, un canone, una via facile, un modus autotelico di scrivere. Per Guglielmin è essenziale mantenere la coscienza etica dei limiti e delle contraddizioni (“si porta fuori un peso, con la parola”, e però “nemmeno scrivere guarisce”), della necessità di sporcarsi le mani, “amare quel buio infetto, rifondare”, “mettere le mani nel verminaio”, superare il refrain:
Da usare con parsimonia
disturbato, acido, salso.
e un tu, se fa da recettore.
io sento, io vedo, io penso.
mettere la mano nel verminaio
aprire i pori, dimenticare.
o superare la Retorica dei contenuti, cioè altri dispositivi:
Retorica dei contenuti
o l’Armata rossa o la rossa e viva
femmina in amore, vanti insomma
una militanza politica o un affetto fausto,
singolare, e chiedi realismo alla parola,
mimetismo. E se non funziona
fai leva sulla morte della poesia o sul fatto
che non ci sono più i lettori di una volta
i beati costruttori dell’impegno.
E tuttavia scrivere significa scrivere, ovvero significa distinguere (è il titolo di uno dei brani, che in finale dice: “parlare rompe gli indugi e mette a repentaglio la vita. parlare espone al pericolo. parla il poeta, pensa”). Significa quindi, per Guglielmin, fare i conti, regolandoli, anche con quello che chiama il Dispositivo Deleuze, una scrittura rizomatosa che però va strettamente controllata, sottoposta al vaglio del vivere, perché altrimenti si rischia, con certi automatismi o con le sirene verbali, di creare un golem, “un orco senza organi”, l’informe:
Dispositivo Deleuze
collutorio per papille e inchiostro ossia scrivere
in debito d’ossimoro (o d’aria o soggetto) nel bulbo dell’evento
sperperario quando la talpa-tenebra percorre tutti i buchi
e fa la parola presta, molto: non c’è ospedale o lente non c’è
olezzo o stridore che soccorra, ma dissenso vero o dispersione
per moto involontario: scegliere al bivio un senso provvisorio,
crederci, oppure tornare all’infinita diversione
ossia vivere, appunto.
Non dissimile è il discorso sui dispositivi della salute, intesa in senso ampio, come abbiamo detto. Al centro mi pare esserci un corpo fàtico, che almeno chiede comunicazione, al di là delle convenzioni, delle dissimulazioni dell’ordine a cui certi dispositivi sono preposti, anche come corpo “abitato”, come dicevo prima, vedi ad esempio in Griglie di valutazione, ove il Prof. Guglielmin scrive di un corpo-studente a cui il dispositivo scuola – immettendolo in una griglia, uno schema – “spezza il corpo e la mente”. Oppure (e qui torna la “cura”) con lui si può fare ben altro: “prendi la mano da’ spazio alla sua mano, fa’ una pausa, poi, e lascialo parlare, siediti al banco, impara”. Perché, bisogna rendersene conto, “una fetta di mondo, conta, là fuori, / si dà una forma, la vuole e ti vuole / uguale” (in Conformismo). Ciò vale anche per il corpo-mente, “si porta fuori un peso, con la parola” (in Terapia, e qui mi è parso d’intravedere qualcosa di lacaniano), ciò vale per il corpo “binario” sede di affetti, di slanci lirici, di amore, di rinascita e insieme di impulsi ormonali, flussi endogeni, processi atavici e animali che Stefano chiama nome per nome, risemantizza in una breve serie di poesie che ho chiamato “chimiche”, come ad esempio:
Ossitocina
che sia il meglio dello spirito umano, e invece, non è che l’unione
dell’ossitocina col feromone, una questione d’olfatto, l’inibizione
del demone limbico, prefrontale: l’amore, come il senno di Orlando,
sale, è un liquore sottile e molle che esala, una cura spray che si inala.
La si inietta con una pompa d’infusione, graduando la pressione.
Prima però serve una prostaglandina dentro la vagina, il misopròstolo
per esempio, e un catetere: si prepara la pista d’atterraggio all’apostolo
che plana senza ippogrifo. Così l’amore è tutto terrestre, pedestre.
Tuttavia quello di Guglielmin non è un gioco, a parte quello sapiente di rime e assonanze diffuse nei versi lunghissimi, né di contrasti né di altro, e neppure si tratta di mettere in mora una tradizione perenne nella quale il corpo è una sede essenzialmente affettiva. Si tratta, modernamente, di rendersi conto che anch’esso, a suo modo, è un dispositivo e proprio per questo fragile, prezioso ma esposto a diversi poteri anche manipolabili (uno dei quali, attualissimo, è quello del desiderio, del piacere, dell’induzione del bisogno: esemplare in questo senso la lunga poesia Incanto). Che fare, allora? Il poeta, abbiamo visto pensa, prende atto, scrive, tenta il rovesciamento del poetico, anzi ripoetizza l’impoetico (che davvero non esiste). Poi magari, alla fine della storia, come in Pasolini si siede all’ombra di una nuvola:
Buddhismo Zen
vedendo, nella gran nuvola che passa,
la gran nuvola che passa e le due virgole,
una in testa e l’altra in coda. Stare seduti
sullo scarto tra il corsivo e il tondo.
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