Dopo la serata di presentazione a Livorno (28 agosto 2022, presso il Caffè letterario Le Cicale Operose) di Tutta la terra che ci resta (Vydia ed. 2022), raccolgo qui qualche appunto di lettura, qualcosa che forse ho detto o forse ho tralasciato di dire nel dialogo con Silvia Rosa:
Come talvolta ho scritto, l’arte, compresa la poesia, ha tanto più senso quanto più riesce a fornire al fruitore, oltre che un’esperienza, anche un’idea dell’aria che tira, di come va il mondo, di come evolve la realtà, magari anche quella personale, percepita da chi crea. Tutta la terra che ci resta è un libro ambizioso, che nasce da una riflessione e da un’angoscia, da un sentimento del tempo e dalla prefigurazione – di una parte almeno – della complessità che ci circonda. Che in questo caso è quella dell’umano (odierno e quindi in qualche modo già diverso e in divenire) di fronte alla contaminazione tecnologica, alla mutazione di cui in qualche misura siamo complici e insieme vittime, alla velocità con la quale il mutamento si determina, anche in relazione alla lentezza adattiva del corpo. Realtà su cui Silvia riflette poeticamente, costruendo un’opera racconto che è anche viaggio, attraversamento, percorso/indagine e forse, soprattutto, transizione, come vedremo, verso uno stato.
L’atmosfera in cui la poetica di Silvia, nello specifico, è calata è quella di un paesaggio urbano o meno, qualcosa di non necessariamente vivibile, ma in cui certo siamo stati, forse torneremo. Il paesaggio, o meglio l’ambiente, è “narrativo” nel senso di una prefigurazione, di una percezione “storica”, nella Storia. Come il resto dell’opera, cerca di interpretare una realtà attuale, che sembra desertica e solitaria anche allorquando vi si riscontrano figure, anche quando si inciampa in oggetti che appaiono insieme consueti e alieni; e insieme preconizzata, distopica e tuttavia imminente.
In questo paesaggio – anche quello testuale – impera “una scala di grigi / senza più toni caldi e orientamento”, la dominanza di sfumature di un non colore, un “plumbeo” su cui anche la luce non riflette adeguatamente e che vira fino al nero, al buio. I colori sono elemento primario della simbologia di questo libro e sono a mio avviso espressione insieme del luogo e dell’anima, sembrano corrispondere ad un’ombra esistenziale e insieme storica, dell’attuale, dell’oggi e di tutto quello che ha portato all’oggi, una sorta di dimissione dell’uomo e della donna, di dismissione di una parte dell’umano. La povertà della tavolozza dei colori rimanda direttamente, nel primo testo che funge da proemio, ad una “anestesia cromatica”, ad una bidimensionalità da fotocopia che fa pensare, ma forse è un azzardo, a quell’uomo monodimensionale di cui parlava Marcuse (e di sicuro nel 1964 certe problematiche erano del tutto inimmaginabili). Eppure, come vedremo, il nero non è necessariamente un simbolo di estinzione, una caduta nel nulla. Del pari le sinestesie (orme di odori, odore cinereo, il respiro degli occhi, ecc.), il petricore, il tangibile che sembra smaterializzarsi in certi crepuscoli (la luce, in questi versi, ha molta importanza, come la notte) dove si perdono, tra gli altri, “quelli che se ne vanno, di spalle”, quelli che “non sentono i nostri richiami / a voltarsi, a rientrare”, tutti questi elementi, dicevo, concorrono a dipingere un distanziamento, un raffreddamento delle relazioni, la solitudine, la rappresentazione di un mare magnum complesso davanti al quale, sconcertati, siamo tra il viandante di Friedrich e la figura mesta e inquieta di Böcklin, anch’essa di spalle, che si avvia al suo destino. Tuttavia, è bene dirlo, non c’è niente di romantico o semplicemente simbolista in questi versi. Rosa assume su di sé una sorta di responsabilità autoriale, quella di parlare non tanto e non solo per sé stessa. Mi pare ci siano almeno due elementi in questo senso, il primo dei quali riguarda la dissimulazione di qualsiasi istanza di tipo personale, l’io poetico non presente (ma ovviamente c’è, sub specie auctoris), l’adozione di un noi collettivo a cui l’autrice si associa; e poi una sorta di connotazione extragenere (ma senza dismettere quella fine sensibilità che si riscontra in altri suoi lavori) come se Silvia appunto si facesse voce dell’umano in toto, o il post umano, come vedremo, un’umanità alla prese con un cambiamento epocale. La bidimensionalità, il distanziamento, il raffreddamento dei rapporti, ma anche l’innesto dell’inorganico (digitale o analogico che sia) in noi e nella nostra cultura (mi viene in mente Il sex-appeal dell’inorganico di Mario Perniola) sono insieme causa e conseguenza compartecipi dell’indistricabile commistione dell’uomo e della donna con la tecnologia di vario livello, del sempre più fitto interfacciarsi con macchine o con quei media che Paul Virilio chiama “simulatori di prossimità”. Il tecnologico, ci dice Silvia, trova terreno nell’ “architettura difettosa dei corpi”, fisica o mentale che sia. E trova una sua iconica metaforizzazione, e anche qui un suo innesto, all’interno della lingua poetica di Silvia. Il tecnologico, qualcosa che si teme e insieme si richiama, è anche elemento descrittivo, nominale (secondo forme usuali nella sperimentazione, il colore 6020 invece che verde cromo, il PE-HD invece di plastica, ecc.), o come elemento neolinguistico (selfie, hashtag, megapixel, ecc.) e del pari una sorta di correlativo, insieme a riferimenti a cose e oggetti (alberi, la strada, pioggia, la città, “un sito archeologico”, “rovine di fasti mediocri”) reali e totemici, sono cioè riferimenti “certi” a cui lo sguardo, il racconto, chi scrive, chi legge, si aggrappano; e anche però simulacri, come certe biblioteche abbandonate che si vedono nei film post apocalittici: ci sono, sono presenze attuali e insieme relitti, però innestati, anche qui, in noi (”oggetti in disuso / ci raccontano”).
Su tutto quanto il tempo sembra scorrere ma non scorre perché è già qui, appiattito, come afferma Rosa in un’intervista, “lungo l’asse temporale di un eterno presente”, sentimento che permea tutta la poesia contemporanea e non solo, il presente fagocitato dai social media (”il presente è continuamente invaso dal presente”, dice Edgar Morin); è pertanto omologato, indifferenziato e il futuro è già qui, “il futuro / che attende i giusti e gli ingiusti, identico”.
In questo territorio grigio ma non del tutto opaco vaga uno sguardo quasi cibernetico, definito di volta in volta metallico, curvo, mischiato a fari LED, rabdomantico, anatomico, residuo, vischioso, flash di zirconi, strabico; con una vista sempre sostanzialmente decentrata, tranne all’inizio e alla fine del libro, quando Rosa chiama in causa il lettore o un ipotetico Altro (”guarda!”), ma aumentata da occhi-monitor, per “osservare in uno schermo HD il simulacro / delle nostre esistenze”, e tuttavia anche inutile (”i globi oculari rimpallano contro il monitor”, “gli occhi ci tradiscono”), e come se non bastasse “il distacco tra cornea e presente”, a rappresentare la difficoltà di afferrare il complesso, e l’occhio umano che tende a diventare “un ingranaggio larvale, frastagliato”. Restano in sospeso molte domande inevase, espresse in almeno una decina di testi, spesso introdotte dall’avverbio ‘dove’, come riferite ad un luogo, forse ideale, forse di agognato ritorno, certo diverso dal non-luogo postmoderno (o transumano, postumano, ibridato), certo uno degli spazi-talismano di cui parla Silvia.
Non so se c’è un sentimento di speranza in tutto questo, forse c’è consapevolezza, forse acquiescenza, e certo non c’è rabbia, come in molta poesia attuale, di fronte all’ineluttabile. Tuttavia è evidente il percorso, personale e non solo stilistico, di Silvia, che costruisce un suo particolare opus nigrum, un alchemico viaggio segnalato da diversi indizi nel corpo del libro, dove si parla espressamente della “qualità del nero”, della Nigredo, di una forse raggiungibile “zolla dell’aurora”, di consumazione, morte e rinascita (in testi diversi), di numeri come il cinque, di simboli come l’aquila e il drago, di essenza alchemica, di torbido humus, e così via. La Nigredo come morte per fuoco simbolica, in cui “la progressione del grigio è compiuta”, e a cui succede, con un po’ di ottimismo, una ricostituzione sotto altra forma. Forse migliore, più adatta, chi può dirlo. (g.cerrai)
da Prima della pioggia
È quel gesto che resta sospeso a metà,
la dirittura d’arrivo di un progetto
per un niente mancata, il filo di capelli
appeso come un sonaglio reattivo
al primo dente del pettine,
la velatura di madreperla che omette
le evidenze familiari del corpo, precisamente
è questa la dolenza che lasciano in sorte
quelli che se ne vanno, di spalle:
si avventurano dentro un budello argenteo
di zinco e fosfeni, fino a un risucchio lattiginoso
di luce, non sentono i nostri richiami
a voltarsi, a rientrare, oltre le soglie
di vetroresina da cui li osserviamo
perdere consistenza, diventare ricordi.
Dove ritrovare le loro orme di odori,
le ragioni della distanza, i loro commiati?
da Un tono più vivo
Certe mattine la città lancia un missile
di megapixel, i display allora si popolano
di istantanee in vari formati, per celebrare
l’epica della calca: quel rituale per cui andiamo
in collisione, convulsi, nel fermo immagine
– un imbuto – fino alla saturazione cromatica zero
dei corpi, alla ressa: i viaggi asfittici
sotto il manto stradale, alla ricerca di coincidenze
improbabili, la metropolitana come una talpa
di ferri che raschia il magma centripeto
della terra, e noi sopra a cavalcarla, in piedi,
gli appositi sostegni premuti contro il costato.
Nella concitazione dei social i millemila
selfie testimoniano sincroni il quotidiano
dei nostri hashtag, mentre a noi manca il fiato,
fuori dall’inquadratura, senza filtri speciali
per ravvivare il colore dell’incarnato,
renderlo quanto basta un tono più vivo
da Ma dove trovare riparo
Non eravamo pronti al dinamismo borderline
delle stagioni, a curvare gli sguardi
in una torsione, avvitandoli, fino a divaricare
il cristallino in congetture di salvazione.
Uno switch ha diretto le nostre giornate
in agglomerati di lontananze, un inverno
genuflesso alle abitudini e poi la collisione,
il cielo bisestile, il triangolo equilatero
della paura, ogni passaggio interrotto.
È stato l’avamposto delle gemme, in meno
di un nanosecondo, di taglio, a suggerire che
nonostante il distacco tra cornea e presente,
eravamo arrivati a una piazzola di sosta,
10/10 e 59 diottrie dopo, presi a guardare
di nuovo all’intorno le foglie emergenti,
tra un’antenna di fiori e una biocella
di compostaggio, il riavvio del sistema
trasmutato casualmente in una rinascita
da Dove finisce la terra
Non è chiaro se dopo nebbie fossili
e giorni di Nigredo, se dopo tutti
gli abbandoni in cui ci siamo persi,
arriveremo alla zolla dell’aurora
o al margine radioso d’un suburbio
con blocchi di edifici in successione,
una schiera di giganti cenerini
che roteano l’occhio dei balconi
verso l’antenna 5G puntata a Est
L’impasto di paure nello stomaco
e gli sguardi strabici, un’infinita nausea
a orientare i nostri passi ondivaghi:
sapessimo trovare una stazione
di servizio, almeno, dove mettere
a sedere ciò che resta del presente,
dargli un alibi per colazione,
mentre cerchiamo di inviare
a chi è rimasto indietro le coordinate
esatte della nostra posizione
(siamo a 74 centimetri circa
da qualsiasi morte capiti in sorte)
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