Stefano Lorefice – Passeggeri solitari

Stefano Lorefice – Passeggeri solitariEdizioni La Gru, 2023Stefano Lorefice - Passeggeri solitari - Edizioni La Gru, 2023.

A circa dodici anni dalla pubblicazione (v. QUI) di Frontenotte (Transeuropa, 2011) Lorefice torna a scrivere poesia e mi manda questo Passeggeri solitari, per lui, come mi scrive, “un libro denso”. Dodici anni sono parecchi, un lasso di tempo che per un autore vuol dire una forte riflessione o un forte disillusione. Entrambe le cose possono portare a un ripensare il proprio lavoro e, volendo, a notevoli esiti poetici. Ma, di un autore di cui si è già parlato, difficile non andare a rileggere quanto si è scritto a suo tempo. Frontenotte e prima di esso L’esperienza della pioggia (Campanotto 2006) avevano a mio avviso evidenziato alcuni elementi di interesse, con una possibile proiezione al futuro:

a.una “presenza” dell’autore, anche nel senso barthesiano del termine, che si esplicava sia nella scrittura che nell’altro linguaggio caro a Stefano, la fotografia (v. soprattutto QUI), e che permetteva una sinergia tutta a favore “della osservazione sociale disincantata e insieme dolente, della constatazione della progressiva riduzione dell’uomo a nullità identitaria isolata, della stramatura di un tessuto per lo più urbano in cui l’indifferenza dei più è temperata per quanto possibile dall’occhio (e dalla voce) cosciente dell’autore, che in qualche modo la interpreta”
b.come scrivevo, “un’altra certificazione di presenza, la presenza dell’indeterminato, dell’irrappresentabile anche politicamente, della massa anonima senza peso per “i lupi / dell’unica democrazia / che conosciamo”, che stava nelle ombre delle foto così come negli spazi vuoti della scrittura
c.(mi cito ancora) “il suo stile, scarno, disincantato, senza patetismi, con un corredo lessicale quasi giornalistico, poca prosodia e abbastanza prosa, con una aritmicità che segnala bene il disincanto, la disillusione, l’impotenza con cui l’autore registra gli eventi, le casualità, soprattutto quando le casualità sono i relitti di una realtà urbana che ormai non ha più niente di eccezionale, ma appartiene semplicemente ai nostri tempi”. Si individuava anche un tema per così dire politico, in un embrione di coscienza di un mutamento, un esondare della realtà verso una “periferia centrale” che coinvolge tutti, a cominciare dall’autore, nei fenomeni della realtà contemporanea
d.c’era anche un “luogo”, identificato, urbano o meno, perfino confortevole nella sua realtà anche brutta ma vera, un luogo anche “interno” come lo era il corpo ne L’esperienza della pioggia. Un luogo non parcellizzato, sebbene spalmato sugli sketches costituiti dai singoli testi, dagli oggetti, gli eventi, i personaggi incrociati in quello che poteva sembrare un vagabondare per città, luoghi casuali, incroci di vite
e.parlavo anche, infine, di “linguaggio vicino alla velocità del pensiero e, insieme, oggetto di consumo come i colori per un pittore, che contiene in sè la pennellata, lo scarto poetico”.

In questi dodici anni, temo, qualcosa si è perso per strada. A cominciare proprio dal linguaggio. Mi pare infatti che quella velocità che avevo notato, e che là corrispondeva o tendeva a mimare l’impressione fotografica, ovvero l’ingresso nell’occhio di una realtà scheggiata in parole, in questo ultimo libro sia parecchio rallentata. Perché? Innanzi tutto, io credo, proprio per la ricerca di quella densità di cui forse parla Stefano, che tra l’altro corrisponde quasi sempre alla (o usa l’escamotage della) brevità dei testi (una sorta di compressione), una densità linguistica, diciamo, conseguita però con una accanita sottrazione, un riduzionismo che eliminando connotazioni, denotazioni, attributi ha di fatto minimizzato l’immagine, in questo caso testuale. A questo in parte concorre l’andamento prosastico di molti componimenti, che coincide certo con un approccio narrativo alla materia di Lorefice, ma che per sua natura rinuncia a tutti gli artifici retorici, metaforici, polisemici della poesia. L’immediatezza, in altre parole, si traduce in diversi casi in un appiattimento stilistico e estetico, in una realtà monodimensionale. Il dato linguistico, in questa sorta di understatement, è inevitabile che incida anche sull’immagine evocata di cui il lettore dovrebbe fruire. Sembra quasi che la focale di Stefano si sia di fatto accorciata, anche quando guarda alle sue montagne, o forse è una specie di un voluto eremitaggio mentale che si riflette nella sua poesia, un piétiner sur place, segnare il passo. “Fuori piove – dice – non c’è taglio netto delle ombre nei fotogrammi; nelle 36 pose è svanita ogni complessità”. E’ un’ammissione o una dichiarazione di poetica? Una rinuncia o un convincimento? Oppure un traguardo, quello di una semplicità in questo caso della forma e di ciò che essa contiene? Ma la semplicità non è semplice, tutt’altro. La riduzione del linguaggio all’ordinario, insieme alla scelta – come vedremo – di registrare momenti o eventi che sembrano casuali, non esemplari, non simbolici, incontrati ma non trasfigurati, non interpretati (cosa che invece fa, lo sappiamo, anche un fotografo), induce in chi legge un certo – come dire – scompaginamento (uso questo termine libresco non del tutto a caso), cioè la sensazione di un’organizzazione aleatoria della raccolta. Eppure le intenzioni di Stefano sono chiare, a leggere la quarta di copertina, probabilmente di suo pugno: “questo è un cammino lento, incessante e preciso incentrato sul lavoro di limatura del linguaggio e delle pause. Lo sguardo evolve, la scrittura allunga il passo su sentieri e piccole vie fuori mano, fissando sui fogli bianchi fotografie iconiche di vita osservata e vissuta”. Intenzioni che posso capire, al di là del loro conseguimento, sul piano della forma o del significante se preferite e anche forse sul piano di una visione filosofica della vita. Ma mi pare di vedere poco di questo allungare del passo e dell’iconicità (ovvero l’esemplarità poetica, è questo il punto) dei brani di vita o di paesaggio che si incontrano (v. i testi sotto trascritti). Segnare il passo, dicevo poc’anzi. I passeggeri solitari di Lorefice infatti non sembrano andare in nessun posto, come pure le “figure umane assortite” (è il titolo di una sezione), congelate in irrelati istanti di esistenza, il paesaggio (nella sezione “Istruzioni naturali per paesaggio, valli sospese ed altre faccende alpine”) è un fondale di ombre con figure. Le cose migliori, ancorché volutamente sottotono, sono forse nella sezione “Utili conversazioni notturne”, dove c’è un “tu” con cui interagire, un rapporto amoroso, un’altra persona che almeno abita (sempre per brevi sprazzi) un luogo poetico comunque desolato.

Minimalismo? Direi di no, credo che siamo sempre nell’ambito del “frammentismo culturalmente dominante”, per citare un critico del valore di Giovanni Tesio. Ma l’ambizione di Lorefice, al di là – ripeto – dei risultati, è forse un’altra? L’ultimativa implosione del linguaggio, una foto bianca (o nera), una “neutralità linguistica” (Barthes), una “assenza ideale di stile” (sempre Barthes)? Obbiettivi rispettabili, perfino affascinanti. Conseguibili? Può darsi, ma il lavoro è lungo, la poesia un terreno difficile e il risultato non è garantito.(g. cerrai)

 

da Figure urbane assortite

É andato nelle malestrade
ed in quelle bufere
ha perso un poco il passo,
lungo case diroccate,
messaggi mai inviati
e ciò che non conta posato sul piatto.
Un viandante senza corteo;
le periferie lo hanno cambiato
e pure l’ombra misura il silenzio:
una nebbia senza mestiere,
una striatura,
un vicolo,
un passato.

(Le malestrade)

 

Nel piccolo caffè di periferia la luce filtrava attraverso le ampie vetrate, si
scomponeva su tavoli e sedie puliti e rassettati per la chiusura in orario.
Nessun presente, solo il silenzio interrotto dal sibilare dell’allarme. Come
in una vecchia fotografìa ingiallita dal tempo, in penombra si notava
appena un filo di vapore dalla macchina del caffè. Gli ignoti malfattori si
erano introdotti alle tre del mattino, nessun furto, nessun danno; solo due
caffè ristretti senza zucchero. Poco da aggiungere, poco da obiettare.

(… dal dispaccio mattinale)

 

Non si spiega come il destino lo abbia fatto capitare in quel luogo alle
cinque del mattino, con le mani su di un barile vuoto, ma acceso di fuoco
per il freddo; nessuna giustificazione, forse un treno che passerà da
aspettare o un angelo custode che lo ha dimenticato. A guardarlo bene si
scorgono tutti i passi e tutte le sciagure, ma c’è dignità nel suo stare in
piedi, oppure è fame da placare.

In fin dei conti la caduta e la risalita sono tutte nella sua pancia vuota.

Si occupa di furterelli, niente di che.
In stazione non c’è nessun altro e finita la stazione c’è solo campagna e
qualche cane randagio.

(… por diaul)

 

Un caldo afoso, la ragazza posava stupita davanti al fotografo, di tanto in
tanto qualche passante. Una vecchina si fermò ad osservare in piena luce la
giovane: i capelli sul biondo, gli occhi resi quasi color oro. “Prego Signora,
passi pure… disse il fotografo. “Mi scusi sa, mi son fermata a guardare la
scena… che bel musetto.” rispose la vecchina, procedendo verso casa con la
sua sportina color azzurro anni ‘60.

 

da Utili conversazioni notturne

Nello scatto si può notare il senso sconfinato della pianura ungherese, una
malinconica trabant da cortina di ferro emerge sul lato destro
dell’immagine. In prospettiva centrale un vecchietto dirige trasognato su
di un carro, verso chissà quale villaggio. Ho ritrovato i negativi di quel
periodo, c’è pure una foto di noi due: la sera in cui andammo a vedere
“Jesus Christ Superstar” a Miskolc. Era d’inverno, nevischiava.
Mille minuscole luci lungo le strade ed un gusto pieno di Mitteleuropa.
(Negativo 15)

 

da Istruzioni naturali per paesaggio…

… dopo una certa quota la vegetazione dirada, finiscono boschi e piste per
tagliare il fuoco; cominciano territori sferzati dal vento. A volte si scorgono
piccole comunità umane che salgono in silenzio, con rispetto. File indiane
lungo crinali, che le bestie del luogo osservano con sommesso bisbigliare: si
spiega ai cuccioli che a valle ce n’è una marea di quei bipedi farlocchi.

 

da Ipotesi sul ritorno

A comando non ho mai scritto neanche la lista della spesa; in realtà vorrei,
con una sintassi da slalom speciale, snocciolare pasta, latte, acqua, olio,
pollastro, frutta di stagione e fragole. Poi, finisco come l’apripista a
Kitzbuhel, quello che per primo scende come un’intera generazione lungo
la Streif… che arriva in fondo, esulta e devono pure rifare il tracciato: le
ultime tre porte le ha incastrate fra i denti.
Blatera pure un “Ciao Mamma!” in mondovisione.

 

Sposta oggetti, borbotta, verifica la scadenza… lancia sguardi alle spalle ed
attende il mattino presto, quando nessuno può scoprirla. Raccoglie tutto
in sacchi, rovista ancora, sistema le mensole. C’è dello zucchero, ci sono
delle uova, tutto andato in malora. Sistema pensieri sbilenchi, anni
masticati, ritorni improvvisati. Le fotografìe di un tempo erano tutte nella
mensola accanto al frigorifero; era già strano allora, ma ancora più strano è
non ritrovarle al loro posto. Prima o poi salteranno fuori, da qualche
angolo, da qualche nascondiglio che la mamma non ricorda più esistere.
Prima o poi le mattine avranno qualcuno a ricordarle, ora c’è un gatto che
dorme, un pesce rosso che nemmeno sa lui il perché. Un biglietto del treno
che sale da Roma per tornare a casa da Sud a Nord, piegato e sgualcito nel
cassetto delle bollette.

(…ad Elena)

 

 

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