Enrico Cerquiglini – Avvisaglie

Enrico Cerquiglini - Avvisaglie - Bertoni Editore, 2023Enrico Cerquiglini – AvvisaglieBertoni Editore, 2023

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Alcuni testi tratti dall’ultima raccolta di Enrico Cerquiglini, a quindici anni dall’auto prodotto Fine attività (damnatio memoriae), che all’epoca doveva essere una specie di addio alle armi poetiche. Addio che corrispondeva forse ad una perdita di speranze nei confronti della poesia come strumento di lotta e critica, di recupero e di salvaguardia. Perché leggendo Cerquiglini, anche quando tratteggia un semplice quadro nostalgico di quella provincia geografica e dell’anima che abita, anche quando ci sembra di imbatterci in qualche tratto di ingenuità (nel senso più etimologico e onesto del termine), ci si rende conto che l’esigenza primaria di Enrico, nella sua poesia, è quella di salvare il salvabile in un mondo che non promette, anzi mantiene, niente di buono. L’area tematica di Cerquiglini è l’elemento principe da prendere in considerazione, più dello stile o della sua lingua, entrambi in un certo senso sussidiari alla prima. Si tratta del mondo che lo circonda, non quello ampio e generico, ma quello della campagna umbra, delle umanità ancora superstiti, della natura paritaria ed equanime, delle radici ancora generative, dell’ambiente sociale non del tutto estinto, del lavoro, del borgo come dimensione umana. Lo dico subito, Franco Arminio non c’entra niente. Il “paesologo” di Bisaccia appare come un venditore di matrioske, di contenitori di contenitori, non necessariamente “pieni” di qualche significato rivelante. L’esposizione del banale – o dell’ovvio e perciò inutile – inevitabilmente reca con sé la contraddizione della poesia. Anche Cerquiglini non “rivela” alcunché, se non – come si conviene al buon poeta – qualcosa che in fondo già sappiamo e che è meglio per noi non dimenticare, là dove (ed è questa la differenza) il farlo comporterebbe una diminutio di noi e una sconfitta dell’uomo. Questa specie di memento morale (o forse di avvisaglia) è preponderante rispetto a certe preoccupazioni che riguardino lo stile o il linguaggio, la prosodia o il metro, insomma è sempre più importante il cosa del come, giacché l’unica cosa da sperimentare è una memoria non volatile ma per così dire “restaurativa” , una memoria come imperativo morale e debito. E una certa “rabbia” sociale verso iniquità piccole e grandi che è anch’essa una memoria da alimentare come una lotta. Senza però niente di apodittico, senza atteggiamenti da guru de noantri.

Questo orientamento complessivo direi che è civile e politico, senza i preconcetti che a volte accompagnano questi aggettivi, e lo è anche quando Enrico sembra riavvolgere il nastro, indulgere alla nostalgia del tempo che fu, dell’infanzia, di un antan villoniano. Certo, molta poesia è fatta di queste proiezioni all’indietro, di questi “ritorni a casa”, ma almeno Cerquiglini li nutre dell’idea di un “possibile” quasi ideologico (e perciò politico), di una speranza, della necessità di rallentare, di ripensare il tempo, sia come concetto generale e storico sia come elemento entro il quale l’uomo dà o non dà un senso alla propria esistenza. Non è quindi un caso che il libro sia diviso in tre sezioni principali intitolate Tempo immobile, Il tempo dell’uomo e Oltre il tempo (più un’ultima, Dodici distici) che in sostanza costituiscono un arco ideale tra il ricordo immutabile, quindi il passato, e un avvenire tanto inconoscibile quanto, da certi segnali, poco rassicurante. Se la memoria da una parte, ci dice Cerquiglini, andrebbe abolita per ritrovare con l’oblio “quell’innocenza / che serve / per tornare – convinti / fanciulli – a rinnovati / crimini da dimenticare”, c’è qualcosa in apparenza di immutabile anche nei mali che Enrico denuncia specie nell’ultima sezione citata, la distruzione del lavoro, l’inerzia o la corruzione della politica, la guerra come strumento del capitale, il saccheggio della natura, mali ricorsivi se non in costante peggioramento. E tuttavia il fatto stesso di farne oggetto poetico è una rottura del silenzio, una presa di posizione che il poeta si sente in dovere di assumere, non temendo, talvolta, di costruire qualche invettiva un po’ massimalista, come certe cose che rimandano a una stagione poetico-politica novecentesca (“il Potere non si nutre di pane / o altri quotidiani alimenti / il Potere si nutre di se stesso”). Per Cerquiglini in poesia eventuali attriti tra etica ed estetica non esistono, tutto deve concorrere, e così è, a una verità, a una parola onesta e comprensibile. Senza questa “nostalgia della nostalgia del futuro”, come scrive in un bel verso, la poesia di Enrico non avrebbe il suo motore principale, come la convinzione che questo futuro, come la fortuna per i Romani, è una vox media. Che sia buono o cattivo, tutto dipende dagli uomini, e forse dalla poesia. (g. cerrai)

 

da Tempo immobile

16
le strade abbandonate
che attraversano campi
sui passi antichi di pastori
nel canto dei mietitori
straziati da sole e sudore

le strade senza uscita
che si sciolgono in campi
di medica e trifoglio
o in dirupi marnosi
sferzati dal vento:

questi sono i sentieri
dove l’anima si cheta
sui verdi pensieri
di pioppi rinati e olmi

 

18
vanno – in questo chiarore
che anticipa l’estate
con inganni ben noti –
vanno correndo auto e sogni
dietro fate morgane
dietro mete sempre più lontane
dietro desideri in saldo

e mentre guardi — reso
guardingo da mille
insidie sospese in aria —
improvviso ti sorprende
ti sospende ti porta con sé
il ronzante profumo
dei grappoli dei lillà

 

31
dove sono finite le giornate dell’infanzia
quelle che si aprivano con l’irruzione
del sole tra le lenzuola
e si dipanavano immense
tra i colori riarsi dell’estate
e le improvvise esplosioni
di medica nella guazza estiva?

ora la vampata di un cerino
illumina le cose
e già bruciano le dita
nel rossore del tramonto
– rapido estremo bagliore

da Il tempo dell’uomo

9
La morte non è nel non potere più
comunicare ma nel non potere più essere
compresi (P.P.Pasolini)

la morte – e tu lo sai Pier Paolo –
non conclude nulla è il dopo
(e non intendo l’aldilà)
che finisce per essere il luogo
dell’incomprensione del raggiro
del centone che nasce nelle alchimie
di agenti della menzogna
diventata sistema
ed eccoti caro Pier Paolo
usato cadavere per abiure
per giustificare infamie
che nella tua dura dolcezza
ardevano nei versi
poi intatto resta l’odio
per la tua persona per il modo
di guardare senza censure
un universo diventato orrendo
in cui vecchio ciarpame
si univa a nuovi inusitati crimini
non torna il passato
i nuovi schiavi e i vecchi
hanno gli stessi occhi di servi
timorosi e devoti a nuovi dèi
e lasciano in terra antiche
bandiere per seguire insegne
vuote che ratte vorticano
per strade sempre più buie
segnate da tediose risate
un corpo massacrato
– mistero di un’Italia nera
che fa strazio di un poeta
nel fango di novembre –
finisce per render scure
anche le parole che segnano
un nuovo anno di assenza
un nuovo anno di strazio
e di linciaggio

 

14
la guerra l’ultima guerra la presente
guerra e l’ulteriore guerra
per dominare domare la terra
per creare per distruggere
l’opera che si conclude in fango
di animata discussione
la guerra l’ultima guerra la presente
guerra e l’ulteriore guerra

 

40
tremolio di isole nella foschia
erano il nostro orizzonte
tra agavi e fiori gialli
seduti con una birra in mano
su uno scoglio in un silenzio
rotto a tratti da frasi brevi
da dubbi in parte ammessi

non so cosa vedessi
tra foschia mare ed isole
forse tuo padre invecchiato
all’improvviso di vent’anni
forse la donna sirena
che t’incantava con la voce
per trascinarti negli abissi

l’estate poi ci prese con le risa
e l’allegria sabbiosa

in un letto d’ospedale
rividi le ombre di allora
nei tuoi occhi c’era la foschia
e s’intuivano isole remote
nel biancore delle pareti

da Oltre il tempo

1
ti chiamarono proletario
unico tuo possesso erano i figli
e quella forza lavoro che trasforma
la materia informe in ricchezza
per tasche non tue
poi fosti operaio un passo
avanti in cui opera e salario
finivano per darti dignità di classe
e nella scala delle gerarchie
di fabbrica ti dicevano maestranza
più al plurale per togliere
ogni tentazione di vita individuale
ora sei costo lavoro da abbattere
nemmeno più possessore di prole
una semplice voce contabile
nella colonna delle spese
flessibile precaria insignificante

 

4
sulle umbre colline d’argento
sulle olive che mani meccaniche
tirano a terra
sul volo dell’ultima rondine
sui colori delle foglie languenti
sulle chiome fluenti
sul mercato dozzinale
è sceso improvviso
il silenzio elettorale

 

23
del caos — dispersione sociale —
nel caos — escrescenza sociale —
si muove l’immobilità
frangiflutti di calcestruzzo
in questa parodia d’allegria
che stringe e ricostringe
nel medesimo recinto

(rompete le catene
abbattete gli idoli
coltivate idee e rivolte
rompete l’ordine del caos
e…)

se vedrete un germoglio
— anche uno solo —
nulla sarà stato invano

 

 

 

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