L’udito cronico: il poeta siate voi che parlate, di Pietro Roversi
“L’udito cronico” di Cristina Annino apparve nel 1984 nell’antologia “Nuovi poeti italiani 3” (Einaudi) con un’astuta introduzione di Walter Siti [1]. Quest’anno è stato pubblicato per la prima volta in volume autonomo, grazie alla scelta ispirata di Roberto Russo e Antonio Bux a Graphe [2]. Il titolo è servito anche per l’antologia delle traduzioni di Adria Bernardi dall’italiano all’inglese dei testi del poeta 1977-2012 [3].
Letto oggi, nel contesto di più di cinquant’anni di poesia di questo autore, il libro è una felice occasione per partire all’esplorazione e al godimento dei libri precedenti e dei successivi. In particolare, muove dai modi colloquiali de “Il cane dei miracoli” (Bastogi, Foggia, 1980) e getta le basi naturali della grande suppurazione/deflagrazione dell’io maturo e del suo zenit ipertrofico e sopra le righe che fu “Madrid” (Corpo 10, Milano, 1987).
I testi mappano modi dell’ascolto che stanno tra quello dell’introspezione:
Non so; ma forse, per quanto
bravo sono e per come
mi giro esatto su me stesso, sopra,
sotto, dentro
il continente, in mare; anche
se rido astutamente. Io
non ho la chiave. (Hamsun)
a quello delle figure familiari (il padre morto, la madre vedova, la sorella Paola, la suocera (Vu):
Poiché dobbiamo metterle al muro
e fucilarle, un giorno o l’altro, le nostre
braccia anteriori; prima ascoltarle
come i rumori di un bar. (Album di famiglia)
a quello della folla (conoscenti, amici spagnoli e non, ma anche sconosciuti):
È salito sul tram col suo udito
cosmico; il bianco timbro
del viso ha fatto un crac orrendo
allorché s’è piegato. (Come una città, Titro)
fino alla ricezione del messaggio del mondo, dell’universo:
Ogni rumore del mondo
lo tiene nel rosso timpano delle
orecchie; lo decifra e rende dalle nere
labbra come un robot
la cartolina di risposta. (Il cane dei miracoli)
A quest’età e con i tempi che corrono,
io siedo al bordo dell’orecchio
universale. (Caos)
In “Una visita in fabbrica”, il poemetto di Vittorio Sereni pubblicato per la prima volta sul «Menabò», numero 4 del 1961 (direttori Elio Vittorini e Italo Calvino), il poeta in visita a una fabbrica sente uno degli operai che cita Leopardi: “e di me si spendea la miglior parte” [4]. L’udito cronico è anch’esso secondo me destinato a diventare un classico che citeremo. Un’analisi testuale de “La casa del folle” – uno dei suoi testi più limpidi e commoventi – appare già in un sito di educazione alla letteratura in rete [5]. Si intravede qui un esempio di come la poesia contemporanea di grande forza possa irrompere nei programmi di scuola perlomeno in quanto contenuto, se non come il punto di accesso al quotidiano che io auspico (in aggiunta alle canzoni, si veda oltre).
Purtroppo, tra le molte domande che i programmi scolastici non consentono di porre o affrontare a chi insegni o apprenda lingua o letteratura in classe, ci sono queste: per chi è scritta la poesia? Chi la legge? La mancata opportunità di discutere l’economia e la politica della poesia in classe non solo allontana molti studenti dalla sua scrittura (ed ecco una conseguenza socialmente dannosa di questa lacuna del programma scolastico – Sereni docet) ma scoraggia anche la sua lettura. Insomma, contro la poesia – che in linea di principio è contagiosa – il vaccino si inocula a scuola: con quel che si studia, con quel che non, e soprattutto senza gli spazi per esaminare le decisioni sul canone, e i motivi per cui si includono alcuni autori/tipi di testo e se ne escludono altri.
Ragione in più per cui – dato che la cultura è importante dentro e fuori la scuola – libri come questo andrebbero portati in tasca e tirati fuori all’occorrenza: io lo considero un grande tascabile permanente. Non lo dico per sminuirlo, al contrario. Lo dico come quando dico che la mia più grande ambizione è quella di scrivere testi per canzoni. Visto che il populismo spopola in politica, perché non in poesia? In ogni caso, da quando scoprii L’udito cronico una quindicina d’anni fa, l’ho riletto così spesso che sono arrivato a saperne a memoria alcuni versi: li usavo dapprima privatamente come antidoto alla sofferenza personale, per esempio:
“Che veleno per vene tòrte!” (Hamsun)
“Ho mal di denti e mi duole la vista;
Dio mio, marcisco sul mio piede come un cactus;
e spino, spino, il cane che mi viene
vicino, si muove a zampe in su, allarmato.” (Allarme dell’artista)
“L’intimo non mi va, e il lirico
mi spaventa.” (Conferenziere con sciatica)
Poi cosa è successo, che una volta imparàtili, questi versi o pezzi di verso mi sovvengono durante la giornata a volte quando sono in compagnia d’altri e ho iniziato a citarli spacciàndoli per linguaggio mio, nel quotidiano. Ed è qui che ho scoperto come questa poesia che spesso a un primo ascolto pare distorta da rumore intrinseco o offuscata da disturbi profondi della comunicazione, parla direttamente alla gente – come le canzonette – e non c’è bisogno di spiegazione. Posso usarla per comunicare ironia:
“Le poesie d’amore le do
in appalto ai droghieri.” (L’udito cronico)
O nevrosi:
“Piove, e mi scarica addosso la lingua
di pescecane; i suoi dolori non sono
spirituali. C’è gente
che si sdraia negli altri
uccidendoli di parole: VU ed io
siamo una sagoma riconoscibile
da dietro. Siamo l’essere e la morte.” (L’essere e la morte)
Oppure noia:
“Credo
a tutto; a quest’età si è un cimitero
abbastanza paziente.” (Caos)
O ribellione:
“Io
non entro in biblioteche senza
ridere, e un’adunata di gente
mi dà il vomito.“ (Conferenziere con sciatica).
Chi ascolta si stupisce ma capisce. Potrei andare avanti con altri esempi, ma quel che importa è che anche voi proviate: alla fin fine ognuno qui può scegliere il principio attivo della propria medicazione nelle dosi necessarie. Udito terapeutico!
Se poi vogliamo chiederci da dove arrivi la suprema efficacia comunicativa di questi testi, io penso da due caratteristiche singolari della loro forma. Una è che – all’interno di discorsi devastanti nella loro velocissima e fiduciosa alterità, dentro frasi che distruggono il senso comune e lasciano a metà tra lo spiazzato e il nauseato – affiorano (o forse dovrei dire affondano) gemme di chiarezza, frutti maturi di pregnanza. Ricordarle e usarle nelle circostanze quotidiane è allora l’equivalente del riattaccare la cornetta dopo la conversazione su una linea che va e viene: con la consolazione che nonostante le condizioni non ottimali, sufficiente informazione ci ha raggiunto e sapremo cosa farne. Insomma sono testi con dentro memorabili versi e/o pezzetti di verso. La loro intermittenza non ne indebolisce la potenza.
La seconda forza di questi testi è che sono sorgenti di nuove figure retoriche, e ogni figura retorica è stata creata da qualcuno a un certo punto (se ci si pensa bene naturalmente dev’essere così di ogni parola). La vertigine associata a questo pensiero è un altro esempio di quella che si prova leggendo il libro, come ogni libro di Annino. Ovvero: siamo avvezzi ai detti correnti, quelli che qualcuno una volta disse o scrisse per la prima volta e altri udirono o lessero e poi riusarono; ma è raro esser testimoni di linguaggio alla sua nascita. Tutti assieme in questo libro questi frammenti di italiano inusitato non paiono subito tali: perché un nuovo detto ancora incondiviso è come un gettone il cui valore non si sappia, o se preferite una moneta straniera che non si possa spendere nel proprio paese, dobbiamo andare a cambiarla in banca. Se però avessimo il coraggio di trasferirle per così dire dal libro al parlato, molte di queste metafore ad esempio potrebbero fare da ossatura a discorsi coi quali cui potremo affrontare la sofferenza, la noia o la metafisica o la cosmologia con parole contemporanee e adatte ai tempi in cui viviamo:
Premettendo
ch’è sempre doloroso impalare
l’anima in un discorso, scrivere
un diario, lettere, versare
iride nella tinozza di un colloquio. (Caos)
“Il poeta sei tu che leggi” diceva una scritta che vidi su un muro a Roma nel maggio del 2014 quando incontrai Cristina Annino di persona per la prima volta, dopo lo scambio di 5 anni di lettere. Oggi a me sembra di poter dire ai lettori di questo libro “il poeta siate voi che parlate”. Riscatto supremo di uno degli autoritratti di Cristina in questo libro:
Io non temo la morte; lo dico così,
né la vita. Sono
pieno di troppa gente (Mario di Gradisca)
Riferimenti in rete
[1] https://www.ebay.it/itm/285487788635
[2] https://www.graphe.it/scheda-libro/cristina-annino/ludito-cronico-9788893722025-619449.html
[3] https://adriabernardi.com/books/chronic-hearing.php
[5] https://www.letteratour.it/analisi/A02_anninoCristina_casa_del_folle.asp
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