Alessandro Silva – Tre poesie, più nota critica.

Alessandro Silva è stato finalista nella sezione C (poesie singole inedite) dell’edizione 2019 del Premio Bologna in Lettere. Pubblico qui, insieme alle poesie presentate, la nota critica che come membro di giuria mi sono incaricato di scrivere per l’occasione. Alessandro Silva è già presente su questo blog con la recensione del suo libro del 2018 L’adatto vocabolario di ogni specie (v. QUI).

Di Alessandro Silva lessi la sua opera prima, L’adatto vocabolario di ogni specie. Parla del dramma dell’Ilva di Taranto, c’è in copertina un operaio col suo caschetto, racconta della morte da lavoro. Ne ricavai a quel tempo un pacato ottimismo nei confronti di una poesia più che civile politica, non viziata da certa retorica, anzi sostenuta, anche nella scrittura, da impegno e sensibilità, con la leggerezza giusta per una materia dura.
Le poesie che si sono distinte in questa edizione del premio sono invece di diversa natura. L’attenzione è come tornata a casa, forse con qualche stanchezza nei confronti della crudeltà del mondo. Alessandro sembra tornato in un ambiente domestico, a una relazione con le cose, ancorché oscure, più ravvicinata, forse più confidente; ma per scoprire che c’è una crudeltà anche lì, un sentore di morte, di ossa che dolgono nelle articolazioni, di fiori che inceneriscono e dove il tempo è “un prima voltato all’alba di spalle”. Per scoprire soprattutto (o rammentarsi) che lo stigma del poeta è grattare la superficie di quelle cose, la loro evidenza esterna, che il compito insomma di chi scrive è rovesciare il sasso, andare oltre una evidenza oggettuale, nominare il poco di concreto che c’è in questa realtà, aggirarlo e raggirarlo con le parole, anche con qualche arditezza metaforica, andare oltre. In effetti i nomi delle cose (l’inverno, il profumo di caffè, un fiore, le cicale, le lenzuola, una poltrona) sono pure localizzazioni in un luogo e in un tempo. Chi scrive è lì, anzi è già lì, in quella collocazione, dove non risiede nessun particolare genius loci (e quindi in fondo nessuna nostalgia), nessun nume tutelare che ci sollevi dall’essere un uomo “esposto”, un individuo non dissimile da quelli che andavano in fabbrica, forse più sensibile, forse con problemi un po’ diversi, ma ugualmente emblematico. Quindi ciò che ho definito un ritorno a casa non è quel che si dice un ripiegamento, o un ripensamento. Semplicemente Silva, per quanto lo sguardo possa sembrare più angusto, ridotto a una stanza o poco oltre, ha qui ampliato il suo orizzonte proprio parlando delle sue prossimità, di ricordi di un passato recente (non c’è in effetti futuro in questi testi). E’ una maniera di interrogarsi anche su cose labili, ovvero di cose che lasciano “un solo crepitio di ghiaia su orme”, una persistenza seppur minima ma che funge da elemento evocatore, che vive il tempo di un testo, come un’effimera, ma che comunque lascia una traccia, come uno stormo in cielo, una traiettoria possibile. Di interrogarsi soprattutto sul perché il pensiero poetante agisca così, sulla relazione intima tra agnizione di qualcosa fino ad allora ignoto e poesia fatta e finita. Ecco, come lettore mi è parso di percepire tutto questo, anche nel lasso di tre poesie, e credo di averlo fatto semplicemente leggendo, senza star lì a pensare troppo a come funzionassero gli ingranaggi della scrittura di Alessandro. E questo per una volta mi è parso cosa buona e giusta.   (Giacomo Cerrai)

Dalla punta dello stormo.

Quel tempo con le mani anziane, a maggio, e
tu che appari nel lettino di tomba
consueta carezza del pomeriggio.

La nostra madre accoccolata in cima
alla nube fragrante di un caffè
ed io a stipare cose oscure

in qualche piega dolente di crepe
nel corpo unto di secco da un inverno.
La mano, i sassi suoi articolari,
commossa. (Fanno mille polveri).

La cenere di un fiore di forsizia
diviene buco di fiamma còlta
al gambo del tramonto. Tu mandaci
richiami dalla punta dello stormo

prima che il cielo si rabbui
e la tua ombra cerchi ancora
di fare santa, accanto a Lui.

 

La tana delle martore.

Il foro contratto di tana
             delle martore è d’ogni creatura
             un pulsare rubato ai bimbi leprotti.

Ci sono morsi di tepore
sulla pelle assopita. Il fresco è
inchiodato alle tende, il corpo
mortale anche e solo esibisce
affetto a una morte da febbre
di luce.
Così sono le ore
destate tra i nomi delle cicale
con ozio e ferocia di zampe
afferrate alla nera grazia
dei rifugi di sete, nelle cortecce.
Il vero è tutt’altro: la lingua
trebbia il grano secco nel corpo
di terra. Ci scopriamo venire da
un prima voltato all’alba di spalle.

Il piegato dolce delle lenzuola.
                  Fragrante costola di fresco dove
                  poso il respiro di lepre bambino.

 

Una faccenda di morte.

[…] Cammini
come chi non si stacca
dalla porta di casa.

Cesare Pavese

Sopra un tessuto di poltrona, rose
cucite e cattive perdono petali
come labbra di addio: cose secche
a cadere al di sopra della vita e
la ceramica d’ossa del pavimento.

La parete è un magro buco con forma
di silenzio.

Trema un’erba di campo che feconda
la neve in un succo di sangue scottato
come i giorni trascorsi da quel Cristo.
La bocca succhiata di gelo, ruvida
quanto basta: chi ti tolse la pelle

lasciò un solo crepitìo su ghiaia
di orme.

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