Fernando Della Posta – Diario dell’approdo

Fernando Della Posta - Diario dell'approdo - Arcipelago Itaca, 2024Fernando Della Posta – Diario dell’approdoArcipelago Itaca, 2024

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Fernando Della Posta indica la Luna e guarda la terra, o almeno il suolo che calca. Intitola le sezioni del suo libro con toponimi di regioni lunari e sembra che voglia proporsi come un Astolfo alla ricerca di un senso che – oggi – ci appare sfuggente, oppure di un senno che però non è detto sia possibile trovare altrove da qui, da questa complicata realtà. Hic manebimus, volenti o nolenti, il resto è aspirazione. Teniamo presente questo, per intanto, e teniamo presente però anche chi avvertiva della difficoltà di trovare risposte se le domande non siano ben formulate. Una tra le tante: “dove andiamo?”. Si tratta qui di un percorso o di piccoli tragitti o frammenti di essi in cui però – scrive Fernando – “l’approdo è tutti i giorni”, cosa che equivale a dire, con Ungaretti, che “qui la meta è partire”, cioè coltivare, magari per sempre, il desiderio e il bisogno di quell’altrove, che poi si sostanzia, alla fine, in un ritorno a casa, un nostos. Il primo passo, per Fernando e molti altri suoi coetanei, è misurare una metaforica stanza e il suo perimetro, un luogo in fondo concluso che può essere ovunque, perché se la realtà è complicata e confusa lo è, nel mondo e nella mente, in egual misura a New York come a Roma o a Pontecorvo (FR). Tanto che la dedica è riservata “a tutti i fuori spazio e i fuori tempo”, a cui forse bisogna aggiungere i “fuori luogo”. E tuttavia da quel luogo, fisico o dell’anima, non si può scappare, è anche in fondo una questione di identità. È vero che c’è sempre una partenza, avviene ogni giorno, ogni mattina nel decidere se scendere dal letto, come ci dice il testo di apertura, e dell’approdo si è già detto. Così questo libro potrebbe essere, forse non volendo, un voyage autour de sa chambre, proprio nel senso che si è detto. L’orizzonte, con i suoi limiti, è quello, anche quando si parla di una città o di un’isola, di una data o di una via, cioè di qualcosa che potrebbe essere oggettivamente preciso. Tanto che “sempre si approda / alla posizione periferica”, ovvero in un luogo (fisico o dell’anima, ripeto) ristretto, o in cui comunque ci si sente spettatori, defilati e neanche tanto influenti. Si tratta, per metonimia, della condizione umana, di un canto dell’uomo errante dell’Occidente? Certamente di questo, e allora la risposta alla domanda “dove andiamo?” potrebbe essere “in nessun posto”, stante che in questo mondo non c’è più niente da scoprire; ma potrebbe trattarsi anche della necessità di reperire, autour de la chambre, le “cose”, i segni tangibili di un posto in cui realmente siamo esistiti. Ricordi e suggestioni e singolarità, ma anche metafore “concrete” (o convinzioni un po’ aforistiche e assertive, o ovvie, e perfino tratteggi al limite del bozzetto), sono “cose” come bitte a cui legare le cime all’approdo. Nei mari lunari allora Fernando, adottando un approccio linguisticamente ellittico (e per lo più lirico) cerca reperti per trarne conclusioni di cui per ossimoro non v’è certezza, ma che hanno il confortante pregio o di rompere la superficie, “la divisione surreale dello stagno”, di spingersi “fino al reale” (obbiettivo però ben più ambizioso della realtà, cosa diversa); oppure, nel momento in cui quel reale si creda di afferrare, di illuderci che quella scheggia abbia un senso (per il poeta, in quanto titolare di uno sguardo “speciale”, e insieme per l’uomo comune: Ogni uomo è prima di tutto il poeta, / il poeta che ci muore tra le braccia, / dopo che c’è salito in grembo, non visto). Che nella poesia di Della Posta ci sia questo intento per così dire universalistico lo indica, tra altre cose, l’uso frequente di un soggetto plurale (noi, ci ecc..) che non è il consueto mascheramento dell’io poetico, ma che cerca appunto di disegnare una communitas umana, esistenziale, fornendo quasi un indirizzo filosofico, un’idea di mondo. Non sempre ci riesce, perché quando affiora una sorta di “convinzione” autoriale che asserisce una visione personale delle cose, il risultato appare per converso meno convincente, più predittivo. Tanto che, a mio avviso, le cose migliori sono forse quelle meno “pensate” e pensose. E poco importa, dal punto di vista di diatribe che lasciano il tempo che trovano, se ne traspare un certo lirismo, in cui però la scrittura di Fernando, sempre di rilievo, riesce a dare il meglio di sé. Siamo in ogni caso in un alveo ben delimitato, in cui si ritrovano echi montaliani, perfino petrarcheschi, in cui la buona scrittura spesso è più significativa di ciò che vuole rappresentare, più precisa di quanto vuole descrivere, il terreno cioè di una ormai tradizionale cura della parola come cura di una visione viceversa incerta, a volte simbolistica, del mondo. (g. cerrai)

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Primo giorno

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Segni di malattie credute,

contratte, nelle ore notturne.

Di mattina prendere paese,

dimenticare quel piccolo acciacco

palese, che affatica la masticazione.

Procedere a tentoni, per prove ed errori,

distinguere il giaciglio dal pavimento.

Regolare, rintuzzare la fiammella,

tarare il gesto sulla trama del congegno.

Rimboccarsi le coperte.

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Scambio di caratteri

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Gli oggetti che abitiamo non si evolvono

con noi. Sospesi ci guardano cambiare

domandando se la loro inadempienza

sarà macero capace dell’oblio. Insoddisfatti

si spengono all’interno come magmi,

all’esterno come cuoio marezzato.

Nella loro muta senescenza si ravvisa

la nostra progressiva obsolescenza.

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Approssimazione di Alicudi

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Mentre esplode nell’abbraccio

questa pienezza di luce,

dall’isola sullo spazio indiviso

di mare e di cielo taccio

linee, irradiato il mio sentire.

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Muore l’estate nel suo stesso fuoco

di brace. Si scuce e si scuoce nelle tinte

più calde di un autunno più probo.

Perduta ogni già intrattenuta ebbrezza

di vita, si tende alla vita con mire

più astute e precise. Sopravvive

chi vince sfide sommesse di bruchi,

su cenci di morti sotto maglie di felci.

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Conti che non tornano

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Se ogni uomo viene da un luogo diverso

da quello in cui lo troviamo stanziato

con capanno mobilio e sepoltura

da così tanto tempo che diventa

difficile contare allora autoctono

indica soltanto che il suo arrivare

in salvo in quelle terre va cercato

in ere certamente più lontane:

un nomadismo dilatato e vasto

fin dall’inizio tanto dibattuto

del grandioso spiegamento galattico.

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Estivo malessere d’ogni singolo

viottolo del borgo, tregue irrisorie

solo sotto boscaglie di platano

accenni alle ombre in fuga.

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Difficile sacrificare a un’ara

malinconica, ogni nostro superfluo

intendimento, per aprire nuovi occhi

su spesso intuiti, perduti orizzonti;

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su panorami di maggesi accesi

in luogo di retabli marcescenti,

levigati uncini di cenere e ossa,

punteruoli fermi a un passo dal cielo.

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Genova

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L’allucinazione che qui sorprende

è che, un tempo, i caseggiati siano stati

tante vaste greggi di antiche antilopi

che un giorno accorsero a guardare,

entusiasmate, il grande stagno

saturo di sale.

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E ferme stettero come il sogno d’una

bellezza inaspettata, assiepate

sui monti verso i moli e le calette,

la Lanterna, la volta inazzurrata.

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