MiròMatisse: al di là delle immagini – nota di E. Castagnoli

MiròMatisse: al di là delle immagini (al Museo Matisse di Nizza)Henri Matisse, 1933, e Joan Miró, 1935

Al Museo Matisse di Nizza, curiosando in vacanza sulla costa azzurra tra le varie attrattive dell’assolata cittadina francese ci si imbatte nel museo dedicato a una delle figure più influenti della pittura moderna europea, Henri Matisse generalmente associato all’avanguardia del fauvismo che trascorse e realizzò qui gran parte della sua vita e della sua pittura. All’ingresso nella hall principale su un’enorme parete del museo appare vibrante di colore la riproduzione su larga scale di una serie di motivi decorativi, per lo più fiori, arabeschi e altre forme geometriche semplicissime e vivide nei diversi colori primari che si snodano in una semplicità disarmante _ quasi nel gioco di un bambino_ ritagliati dai tratti blu di una cornice astratta tipica dei “papiers decoupés” degli anni ‘40. Sul lato opposto della parete in una piccola tela rettangolare lo slancio e la creatività della composizione surrealista di Mirò riempita di segni e forme libere nello spazio. Tale il tema al centro della mostra Mirò-Matisse: la relazione, il dialogo, l’influenza reciproca o meglio la sovrapposizione creativa e proficua tra due artisti appartenenti a due generazioni diverse nonché solitamente associati ad avanguardie distanti quanto il fauvismo e il surrealismo che tangenzialmente incrociano i loro percorsi in rari frangenti nel corso di una vita. Forse solo due costanti a far dialogare i loro distanti universi: l’immersione nel colore e la necessità di andare al di là dell’immagine come imitazione o pura astrazione in una critica serrata della tradizione pittorica occidentale.

“MiròMatisse, oltre le immagini”, visitabile fino alla fine di settembre al Museo Matisse di Nizza indaga proprio a dispetto della distanza biografica di 25 anni e delle scelte stilistiche che separano largamente i due artisti le zone di influenza e di ammirazione reciproca nonché il legame personale che si instaura tra i due maestri attraverso la mediazione del figlio Pierre Matisse, gallerista di Mirò a New York. Due i momenti decisivi di reciproca influenza messi in evidenza dal percorso in cui le opere dei due artisti appaiono in qualche modo confrontarsi in un faccia a faccia sottile e inevitabile; dalla fine degli anni ‘10 all’inizio degli anni ‘40 la lezione del fauvismo si ripercuote in Mirò soprattutto come l’ immersione emotiva e violenta nel colore per produrre una rottura netta con la tradizione. Dall’altro lato, le tele di Mirò dalla fine degli anni ‘30 esercitano in Matisse un impatto ineguagliabile per la loro unicità e forza trasgressiva divenendo punto di svolta al solco del suo stile ormai assodato. Nella parte conclusiva del percorso, infine, nella grande hall al secondo piano assistiamo proprio a questo confronto diretto e finale tra alcune grandi opere dei due pittori partendo dal presupposto comune di tendere “ al di là dell’immagine”: ciò che Mirò definisce “l’assassinio della pittura” riflesso nell’ “estetica decorativa” di Matisse.

Matisse, “Interno in rosso veneziano”, (1946)

Quella di Matisse è tipicamente una pittura della luce, del lato luminoso dell’essere umano che ricerca questa armonia di composizione dove nessuna linea o tonalità colorata si potrebbe escludere senza che venga meno l’unità d’insieme. Nella sua fase più matura tale estetica decorativa si riassume in un’algebra perfetta di linee essenziali dove ogni cosa trova un proprio posto perché definita nel suo dover essere, quasi si volesse ordinare il caos nella creazione. 

Non la riproduzione della natura ma la “semplificazione delle idee nella plasticità delle forme” secondo le parole di Matisse. Attraverso i mezzi più semplici il pittore deve poter esprimere,“oltre la realtà data, tutta la sua visione interiore.” 

Se il colore non è fenomeno puramente esteriore ma contribuisce a esprimere la luce, non solo quella fisica ma anche quella interiore che illumina l’oggetto nella percezione dell’artista, dipingere nei grandi “interni” matissiani degli anni ’40 è sentire la portata sensibile dell’ oggetto e, insieme, essere immediatamente dentro il colore. Utilizzare questo potere emotivo, il potere di liberare e ampliare le convenzioni espressive d’un epoca aprendo la via a uno spazio plastico autonomo, quello dell’arte moderna, dove disegno, colore puro e linea, gli strumenti matissiani per eccellenza, non sono più al servizio d’una realtà fenomenica ma, essi stessi, al centro della pittura: mezzo e misura sostanziale per rapportarsi alla sua interna realtà attraverso la forma. Inseguendo questa intuizione, Interno rosso di Matisse nasce come un’emergenza di colore dove poi cominciano a fluttuare degli oggetti in composizione libera: un tavolinetto sinuoso, un vaso di fiori al di sopra, un bicchiere al suo centro, un piedistallo, un’anfora gialla, un quadro di linee nere e dense sul retro. E la linea scorre fluida, sicura, intuitiva emergendo dal fondo in un segno dalla semplicità disarmante, in una giustezza, infine, ineluttabile. 

In Interno rosso, la potenza del rosso va a riempire gli spazi vuoti, come la traccia degli oggetti decorativi nella composizione. E, d’un tratto, nel grande interno rosso, la visione si anima, diviene vivente. Gli oggetti come forme in ebollizione, molluschi fluttuanti in un vaso di pesci rossi, guizzano in quel bagno invasivo di colore. Infine si riflettono nell’arancio d’ un quadro al fondo della tela in un implicito riferimento autoriflessivo all’atto della pittura. 

Mirò Costellazioni”, (serie, 1940)

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Le immagini di Mirò oltre all’apparenza astratta rinviano sempre a un sostrato materico originario, come bagnassero in una sorta di ordito visivo e magnetico le cui radici affondano nell’inconscio, nel sogno o nella visione intuitiva della natura. Tale, la trasmutazione simbolica della realtà nei paesaggi di Mirò. Nel gennaio del 1940, nel suo isolamento a Varengeville sur Mer, dove aveva preso in affitto una casa per sfuggire agli orrori del regime franchista, l’artista trova rifugio nella pittura dando avvio a ciclo delle Costellazioni. 

“A quest’epoca – racconta in seguito – ero molto depresso. Credevo che la vittoria dei nazisti fosse inevitabile (…) ed ebbi l’idea di esprimere quest’angoscia tracciando segni e forme sulla sabbia, in modo che le onde li trascinassero via istantaneamente creando sagome e arabeschi nell’aria come fumo di sigaretta, che poi sarebbero saliti in alto avrebbero accarezzato le stelle (…)”

Le tele parlano ai sensi e all’immaginazione evocando libere associazioni di pensiero ma, anche per chi le guarda,la tessitura di un vero e proprio ordito visivo. La pittura diviene soprattutto negli ultimi decenni della sua produzione una forma di scrittura universale, onnipresente che riassorbe tutto e ogni cosa e la trasforma, la metaforizza in un alfabeto di segni lievi, delicati ora minutamente tracciati come fossero linee di china, ora densi e corposi simili a macchie o pennellate di colore. Le forme naturali appaiono sempre immerse in un movimento intrinseco come assistessimo a una danza di corpi che si muovono in un campo ritmico proprio.

Come Mirò afferma: “l’opera è come una creazione plastica assoluta ed essenziale, con la sua personale, intrinseca poesia. Perché solo la poesia può interpretare la realtà e la natura” e, forse ancora, salvare il mondo. Le forme danno vita ad altre forme nello spazio vivente della tela, costantemente mutando rispetto a loro stesse . Diventano tracce, una tessitura primigenia di corpi, ora terrestri ora celesti, fino a dare vita a una realtà di segni e simboli universali. Nello spazio poetico di Mirò, d’una semplicità assoluta, è sufficiente riempire o svuotare, aggiungere o togliere gradazioni colorate al vocabolario essenziale della sua tela. Perché, in fondo la pittura in Mirò è intuizione inconscia, impulso dentro il colore e la linea fino a riempire gli spazi in campi magnetici che seguono leggi ritmiche insieme universali e proprie.

 

Visioni a confronto

Matisse, “Vista su Notre-Dame” (1914), Mirò “Testa di contadino catalano” (1925)

Le due tele a confronto sono due interpretazioni di un medesimo spazio immerso nella vibrazione poetica del blu: uno stesso orizzonte teso verso qualcosa di invisibile al di là dell’immagine. Le due visioni di Mirò (a dx) e Matisse (a sx) portate da uno slancio oltre la materia appaiono convergere in qualche modo qui, favolose e irreali, seppur provenienti da decenni e presupposti diversi nelle loro poetiche. Geometrica, epurata l’architettura di Notre-Dame in Matisse finisce per essere sintetizzata da un’unica superficie; uno squarcio sul muro della cattedrale riassorbe tutta la visione in quell’unico punto di fuga prospettica verso una linea di surrealtà oltre la rappresentazione . Ed è proprio in tale spazio di surrealtà che bagna la tela di Mirò partendo dall’idea di assassinare la pittura per trovarsi in un al di là che tuttavia non è mai completamente astratto ma fatto di tutta la materia del colore e l’intensità di una trama di segni universali. Punto di fuga surrealista dato dallo strascico di una cometa: una pennellata di rosso , il passaggio verso un’altra realtà.

La tela-superficie di Mirò é un percorso-tracciato sul reticolo-cosmo, una linea che conduce verso un salto nel vuoto: metafisico luminoso segnato da un punto arancio lucente. (Elisa Castagnoli)

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