Viola Amarelli – Altamira, inediti

(Pratico una poesia sciamanica, a volte chiaramente,

a volte oscura; del resto, per le sciamane i confini sono per natura confusi)

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Non è un caso che Amarelli premetta al suo lavoro (Altamira, inedito) un esergo di questo tenore. È consapevolezza di sé, poiché tutta o quasi la sua poesia è permeata da un senso (o un desiderio) di “rivelazione”, a partire almeno da Notizie dalla Pizia, che passa attraverso il linguaggio o la lettura delle “nudecrude cose”, come titola una delle sue raccolte migliori (v. QUI ma anche QUI).

Altamira è manifestazione di segni, primeva concrezione di significati trasmissibili, luogo in cui bueyes pintados emergono dall’ombra millenaria di una grotta per dirci qualcosa di noi e soprattutto qualcosa di interpretabile, sì, e tuttavia interpretabile senza certezze. È, in altre parole, come una metafora della parte oscura del linguaggio, che si evolve, decade, cambia e però continua a contenere in sé qualcosa di árkaios, un nocciolo duro che intriga scavare. E che, tra le altre cose, è parte della natura stessa dell’arte.

Amarelli sembra esercitare sulla grotta di Altamira una operazione ecfrastica, una rilettura e riscrittura di un sentimento che aleggia sulle pareti di roccia, e una riflessione sul tempo seguente. In realtà descrive gli albori di una presa di coscienza umana ancora attuale, che comincia quando si capisce, con un graffio o un glifo, che la rappresentazione del vero non è solo comunicazione, chi disegna sulla roccia è anche artista e di più (” l’ha fatto, esulta, / ora è uno sciamano / qualsiasi cosa sia colui che crea”). E in fondo di quell’atto primitivo non importa tanto incasellarlo in recinti tutti moderni, non conta che sia magia, “ipotesi sciamanica”, “totem strutturalista”, “generatore onirico” o qualsiasi altra interpretazione. Importa che sia “con la creazione, gioia che continua”. La stessa gioia della piccola figlia dello scopritore di Altamira, che grida “guarda papà! buoi dipinti!”. Importa del pari che la forma o la rappresentazione del reale conquisti una sua libertà, libertà da interpretazioni o meglio da intermediazioni “sacerdotali” o rituali, abbia una sua verità. Importa che la creazione sia anche visione per chi scrive, una rivelazione per chi legge. Può essere che quello che vale per una grotta dipinta valga anche per la poesia? Non lo so, forse Viola, che sicuramente in quell’antico gesto di creazione si ritrova, prova a dircelo, tra le righe, con una scrittura che mi pare però più esplicita della solita, meno, diciamo così, “pitica”. Certo questa raccolta un valore metaforico, un suo senso essenziale ce l’ha, ed è certo che senza un po’ di scavo, di luce gettata negli anfratti, di ricerca sotto la superficie, non vale la pena neanche di mettersi a scrivere. (g.c.)

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Dentro perché c’è un fuori

muori perché sei vivo

s’esce da dentro e s’entra

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il liminale – tunnel pareti cave

tutto come un fondale, dentro

un suo sopra e un sotto

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e roccia e pietra e strati

calcarei di escrescenze

forme di chiaroscuro – buio di ombre mobili –

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procede per immagini, sono già li presenti

forme di ogni assenza

immagina figure, scopri la tua di

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linea e quelle altrui di curva, rifugio e suggestioni

a pura protezione, dentro un mondo diverso

tocca ora, inventa – la mente è aperta.

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Chiama la caccia, e l’anima del mondo, dacci il midollo

proteggi noi e la roccia nei tempi per i tempi,

molti gli uri e i cervi e i cavalli

mani da dove chi, premi

e intanto tu soffia nel tubo d’ossa stretto

aerografo

fiato di polveri che vanno ad addensarsi, distendi, con le dita

e con le foglie

ma prima graffia, incidi, striscia, raschia

i tratti, i muscoli e le pance, femmine e maschi

e l’ombra che scolora e sa

chi dove, segni che noi sappiamo

anche nel buio, sangue e midollo nostro

e dei fratelli, quelli che nella corsa insieme

noi e loro, tutti e ciascuno segno

e cibo e fiato, inclusi questi corpi e queste mani

quello che ci è dato e tramandiamo.

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Ex-voto e invocazioni

prima e dopo

per molte troppe lune, la vena della pietra

scabra, la madre senza tempo,

il tempo è un soffio: alza quella torcia!

Occorre stare attenti e non tremare

occorre nell’ingresso una danza

chi cura e chi disegna e chi impara.

Andiamo a caccia, clementi siano i venti

qui li fisso, impara, poi tocca a te

attento ai rigonfi e ai risvolti, copri e scalpella.

Chi ha fatto gli animali

chi le mani

cosa siamo se siamo, mangia e

impara.

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Crepe, fessure, gonfiori tumefatti

nella pietra

vuoti e pieni

il fuoco tra le mani unica luce

trascorre tra le rocce

un giro di pietrisco pare coda

la stria di un masso simula una zampa,

pare, apofenie

forse tracce di bestie un tempo accovacciate

nella grotta, enorme bocca,

allunga con la fiamma un muso in ombra,

il suo si immagina

l’ha fatto, esulta,

ora è uno sciamano

qualsiasi cosa sia colui che crea.

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