Letizia Polini – Subsidenza

Letizia Polini – SubsidenzaPuntoacapo, 2024

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Opera vincitrice di Bologna in Lettere 2024, sezione Opere inedite, questo libro di Letizia Polini rientra nella categoria delle raccolte poetiche problematiche, poco “confortevoli”, nel senso che ti danno sempre da pensare più di quanto ti confermino in qualche logora aspettativa da lettore. È quello che dovrebbe fare la poesia, spostare, magari di poco, un limite o, come dico sempre, darti un’idea dell’aria che tira.

Un libro dalla rigorosa struttura, un percorso con poche deviazioni, un’idea di fondo forte e convinta che parte da un’immagine principale, una visione “geologica” dell’esistenza e dell’io (il nucleo drammatico dell’opera, per quanto astratto e un po’ sine causa manifesta, è questo), una surmetafora che principia con il concetto del titolo, la subsidenza, fenomeno che consiste nel lento e progressivo sprofondamento del terreno, per via antropica o naturale, per cause interne o esterne. Una sorta di proemio, cinque sezioni, alcune “tregue”, alcune “intrusioni” (altro termine geologico), qualche “fossile” scandiscono una inusuale mise en abyme, non tanto narratologica quanto intrametaforica, intersoggettiva e multilivello. Il punto di partenza, come ricorda l’amico Daniele Poletti nella sostanziosa prefazione, è il corpo, corpo rappresentato “che parte da una condizione più estrema, in senso nichilistico, quella dell’annientamento causato dalla gravità. Che poi sia una “gravità” declinabile come denuncia politica o esistenziale o entrambe le cose, starà al lettore deciderlo”. Va bene, accetto il legato. Intanto, condizione più estrema rispetto a che cosa? Come acchitto ideale mi paiono giusti i richiami, sempre del prefatore, sia al Bernard Noël dei clamorosi – anche perché era il 1956/8 – Extraits du corps, dove la carne è “la carne del mondo”, il suo prolungamento come dice mi pare Merleau-Ponty e il corpo, secondo Noël, è “l’imbuto interno” che introietta, distrugge, soffre e produce scorie, metafora e “correlativo oggettivo, di pura marca modernista, di quelle figure dell’ansia che presiedono al senso di finitudine dell’uomo contemporaneo” (Poletti); sia rispetto, negli anni Sessanta, al corpo antagonista “con[tro] le modalità di rappresentazione del soggetto nella nostra tradizione poetica” (sempre Poletti), ovvero come spostamento dell’io in una posizione decentrata e recessiva (ma potremmo ricordare, tra gli esempi, il corpo feroce di Bataille e quello come doloroso campo di battaglia della poesia femminista e post – ma certo si parla di un’altra generazione). Naturalmente non si tratta di stabilire confronti o paralleli, essendo che ogni opera, poi, è prodotto del tempo e del talento individuale e perciò bisogna unicuique suum tribuere.

A cominciare appunto dalla volontà tutt’altro che scontata di battere strade stilistiche e formali meno consuete, superando quei limiti categoriali che certo, come giusto nota Poletti, sono anche i limiti (e le polemiche) delle generazioni precedenti. Qui, come in pochi altri libri che ho avuto modo di leggere di recente, la forma, la lingua, la costruzione del verso, tutto è radicalmente funzionale ad una materia poetica già di per sé chiaramente delineata, che è lirica quando è necessario che lo sia, collassata sintatticamente quando è necessario che lo sia, lessicalmente eterogenea quando serve e via dicendo. Certo, il corpo è l’io, l’io è il corpo o qualsiasi crollo lo simboleggi, ciascuno dei due è epifenomeno dell’altro, suo sostanziale alias. La visione minerale, materica, chimica della realtà esistenziale è anche quella degli esseri che siamo. In essa, se la psiche è presente il trascendente è espulso. Senza mai dimenticare però, lo ripeto, che questo accostamento geologico è metaforico e insieme “fratello”, segno di una “subsidenza”, un decadimento che ci accomuna (“ogni giorno perdi 70000 cellule e non lo sai”) in un sentimento quasi leopardiano della natura. E senza dimenticare (e Polini non lo dimentica) quanto rischio di tautologia ci sia nel corpo allorquando l’io ne parla, come uno specchio, e viceversa che rischio di straniamento, come se la propria descrizione fosse affidata ad un ghost writer.

Per quanto abbia ancora ragione Poletti quando afferma “come la ‘subsidenza’ sia da interpretare essenzialmente come una figura del tempo”, la lettura di questo libro mi offre anche l’interessante impressione, non antitetica a quella, di un divenire storico, anzi di una Storia non necessariamente conclusa, personale solo per quanto possa esserlo quell’io corpo di cui dicevo e tuttavia proprio storicamente attuale. In parte questa impressione è dovuta sia ad un io (quando appare) niente affatto autotelico, anzi diciamo vox universalis, sia all’uso costante di un tempo verbale presente che non è l’eterno presente, asfittico e lutulento, di cui spesso mi lamento nelle mie note perché affligge non poca poesia attuale, ma è proprio quello della narrazione storica. E anche perché il corpo (e l’io) sembra infitto (proprio come una roccia intrusiva) in un divenire “naturale” che ne amplifica la portata, ne allunga in un certo senso la vita. Questa inclusione è rappresentata proprio dalla dialettica dei testi e all’interno dei testi dalla dialettica delle parti. La prima riguarda la significativa alternanza tra testi “scientifici” o pseudo tali, brani lirici, le “tregue” che rimandano a una ordinarietà quotidiana e “reale” e insieme i “fossili” intesi come realistiche scorie o épaves del vissuto (basti pensare a quanti termini domestici incontriamo), e così via; la seconda che è costituita da “una [progressiva] disgregazione del tessuto testuale” (ancora l’ottimo Poletti), da fratture (appunto) del discorso, da formattazioni alveolate come fossero spinte da una gassosa forza endogena, con versi spesso stratificati da ampie interlinee e spesso semanticamente autonomi e altro ancora. Se è vero che questo approccio alla scrittura – anche “visivo” – appartiene già se non proprio ad una tradizione certo a un modello, un template circolante da un po’ nella poesia nostrana più o meno tanto per capirci di ricerca, è tuttavia indiscutibile che Polini, nella dinamica tra materia, forma, stile e linguaggio sia riuscita valorosamente a costruire una preziosa, quasi tellurica, tensione interna al libro, quel “senso di sospensione continua” (Poletti) tanto raro oggigiorno da essere quasi anomalo in un libro di poesia.

In questa tensione alla fine non manca uno spiraglio, una prospettiva non nihilista, forse una rivolta. Come si legge negli ultimi versi di Subsidenza, contenuti nella sezione finale Seppellimento e diagenesi, “ciò che è sepolto profondamente subisce modificazioni più forti / ciò che è sepolto trasforma”. Nulla, alla fine, si distrugge. (g. cerrai)

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da 0. Separazione

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la prima a crollare è la colonna

si sistema a pezzi nel torace

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i frammenti dimostrano

il disordine nascosto.

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la mente percepirà ancora un intero. l’intero diventerà

immaginario sparirà meglio.

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[quando una forma di casa di corpo crolla

fuoriesce un quasi vivente che forse

diffonderà ad ampio raggio].

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[è auspicabile che questo essere si consegni a ciò che teme per

                  constatare se accade].

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da 1. Alterazione ed erosione

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la bambina si allena ogni giorno

piega le gambe trenta volte per scappare

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impara alterazioni somatiche [si esercita a dominarle

prima di nascere].

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la madre ha quegli umori fluttuanti

quelli che legano tutto

ad oscillazioni onnipotenti

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la madre – se sta per crollare – immortala la figlia

si aggrappa a lei [così reale].

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la figlia – se viene immortalata –

si sdoppia per sembrare reale: una combacia

con ogni movimento dell’ambiente

l’altra inchioda in testa certe voci [le salva

dal rumore della casa] e poi si cuce gli arti

per non disfarsi

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abbraccia le divisioni anche se odia. tutto

può ancora svuotarsi ancora

frantumarsi.

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[una notte il rosso è diventato inaccettabile

una notte il rosso il pericolo da cui]

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da 2. Trasporto

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quando ho visto una forma nuova   ho cercato di

scomporla

provenienza crescita mutazioni

vedi qualche irregolarità?

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dalla pelle scavi fin dentro l’encefalo   ogni giorno perdi

70.000 cellule e non lo sai     però menti

rimpiazzi ogni vuoto in tempi brevi

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in questo slancio [dicono di rinnovamento] l’errore è

lasciarsi infettare da certe presenze

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        [stadio 2 di espansione]

soldatini e sentinella devono essere   estirpati

prima dell’avanzata

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Come vorresti battezzarlo questo essere?

Ti va bene chiamarlo Tumorino?

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si direbbe sintomo o mostro ancestrale

si insinua nell’amore fino a godere

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da 3. Deposizione

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4^ Tregua

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ricomincia dall’ultimo giro di lavatrice   allunga una mano

tira i vestiti le salme due volatili segnano la mattina aperta

davanti [non crede davvero cerca solo di cogliere un punto

lontano] resta dentro il respiro più ampio tende le pieghe

fissa dei punti ripone ogni cosa al solito posto registra

con un gesto l’ultimo segno

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da Intrusioni

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Granito

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[Intrusiva e

resistente ad ambienti corrosivi

coesa e

dura

scarsa tendenza ad assorbire].

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ha luci

selvatiche

sopra le

guance

eppure non

riconosce

.

cerca di

non stare nel

mondo

.

un piccolo

sole le nasce

in faccia ogni

notte strappa

palpebre

prossime

.

attende

il blu

per spandere

gli occhi

per non

torturare

l’inizio

cosparso

di fine in

un pugno

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da 4. Seppellimento e diagenesi

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eppure un giorno tutto il mondo finisce nello stomaco.

loro analizzano il dolore bucando quattro punti.

tremano le particelle.

anche il sangue indietreggia.

si dimena poi si sperde. dileguata ogni volontà è nucleo originale.

codice azzurro vuol dire che non stai per morire.

finalmente manca tutto tranne il corpo.

disincaglia l’aria dalla gola

abbraccia tibie

sovrappone mani

combacia ginocchia e pancia

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