Torno a parlare di Elia Malagò, che conosco da un decennio (v. QUI), nell’occasione dell’uscita di un libro a cui ho collaborato. Si tratta di Secolo donna 2019 – Almanacco di poesia italiana, giunto alla sua terza edizione (le prime due erano dedicate a Giovanna Sicari e Paola Malavasi), a cura di Bonifacio Vincenzi (edizioni Macabor, 2019, pagg.318). Secondo la formula di questa pubblicazione il volume è un collettaneo che presenta nella prima sezione il poeta a cui è dedicato, quest’anno appunto Elia Malagò, con “testimonianze critiche” di Anna Maria Farabbi, Giacomo Cerrai, Renzo Franzini, Luigi Manzi, Mario Artioli, Francesco Bartoli, Antonio Prete, nonché una cospicua antologia poetica dell’autrice. Le successive sezioni riguardano un ricordo di Margherita Guidacci, con uno scritto di Mario Luzi; tre piccole antologie poetiche (nord, centro, sud) di autrici italiane contemporanee conosciute o meno, con note critiche di vari autori; una ulteriore antologia, con note critiche, di autrici nate negli anni novanta; una sezione dedicata a tre poete scomparse (Bener, Maleti, Occhipinti); chiude una presentazione di testi di autrici straniere (QUI la quarta di copertina).
Pubblico qui di seguito il mio articolo, con una piccola selezione di testi tratti dallo stesso volume.
A proposito di Elia
Conosco Elia da un po’, seppure da quella distanza con cui ci affliggono i mezzi moderni. Almeno dal 2010, quando pubblicai sul mio blog un trafiletto e alcune poesie tratte da Pita Pitela (1982) e Soprav(v)ento (1996). Lo feci perché non ricordavo di averla mai letta, certo per mia ignoranza, e ritenevo che versi così buoni meritassero di essere ricordati. Oltre tre anni più tardi mi giunse, tra i commenti a quel trafiletto, il seguente: “caro Giacomo, so di essere fuori tempo massimo. e forse per questo mi sento libera di dirti che ci sono, e che leggerti mi ha fatto piacere. di più: compagnia. Non credo la poesia possa molto altro, e non è poco. L’ umana compagnia sta tutta qui da sempre. dobbiamo solo riprendere le parole e la loro lezione: la resilienza. ciau e grazie. Elia Malagò”. Poche semplici parole che mi piacquero molto per la loro immediatezza, la loro gentilezza non dovuta, ma anche perché, come poi capii, contenevano parecchio della sua poetica. Per quanto autrice, oltre ai citati, di una serie ben più ampia di volumi (poesia e narrativa oltre a scritti di saggistica e critica) è certo nella lirica che Elia si è maggiormente riconosciuta, ha espresso di più la sua idea di lingua, le sue ascendenze emozionali e culturali. Ed è di questa forma del suo essere artista che vorrei cercare di individuare, in questo poco spazio, alcuni caratteri.
La prima evidenza nella poetica di Elia, specie in libri come i citati e Golena, è di certo il richiamo forte e presente ad un territorio concreto, quella specie di plat pays sulle rive del Po tra Ferrara e Mantova che è il suo, che è reale ed ha insieme, come ho scritto altrove, un senso tropico, traslato, un significato esteso che travalica quello puramente oggettuale, ovvero luogo dell’anima e canovaccio di storie, terra di continuità e radici però senza strapaese e senza mitologie, ma semmai abitato da lares attuali, da un “adesso“ persistente che lo preserva. Come la golena, che è terreno conteso tra acqua e uomini (e titolo di una sua opera), il territorio di Malagò è una specie di cassa di espansione in cui l’esistenza e i suoi accidenti possano esondare, trovando le loro ragioni, la voce, un “pianto disseminato” dell’anima. E serbatoio, scatola di ricordi, ordito di narrazioni, “patrimonio di tradizione e verità” (così come disse parlando della sua famiglia in una intervista nel libro di M. Bettarini e S. Batisti “Chi è il poeta”, 1980), anche quando non espressamente evocato. E tuttavia, come dicevo, il territorio non è il mito custodito pregno di nostalgia ricorsiva, come nei racconti dei vecchi. L’intelligenza di Elia sa che è (può essere) anche “fondale” (un altro titolo), con le molteplicità che quella parola implica: sfondo di una scena e mimesi di realtà contro cui platonicamente si riverbera l’ombra di chi scrive; luogo di sedimenti che spetta alla poesia selezionare, rendere “segni”; ma anche luogo da cui risalire.
Luogo e linguaggio sono radicati insieme, nella poesia di Elia. Cosa non scontata, per quanto lei appartenga ad un areale in cui la lingua dialettale è ampiamente letteraria (es. Guerra, Baldini, più a Sud Rentocchini). Tuttavia in Malagò la direttrice non è quella, il suo linguaggio in cui si affaccia (e reinventa) talvolta il dialetto non è né “lingua ingenua” (Contini) né – per così dire – semplice nostos, ritorno alle origini. O non solo. Il linguaggio in Elia non è mero strumento, per prima cosa è fondamento, la sonora nuance dialettale è certo segno di legame con una sua koiné, ma porta con sé, tra altre cose, almeno due concetti fondamentali: resilienza e manomissione. Il primo termine, da alcuni spesso frainteso e inflazionato, riguarda proprio quel che Elia mi scrisse: “riprendere le parole e la loro lezione”. Implica, come negli ecosistemi, un ruolo attivo, una capacità non solo di resistere ma soprattutto di recuperare, restaurare. Mettendo mano alla lingua, anche a quella “cancellata” (ne parliamo più avanti). Scrive Elia: “Metto mano a parole così antiche da non esistere quasi più. (…)La manomissione è ridare l’innocenza alla parola, lo spessore e il colore e l’ombra che le è stata rubata per togliere l’innocenza a ciascuno di noi, dal momento che siamo le parole che abbiamo” (da Incauta solitudine, Passigli 2010). E questo non è fare archeologia, ma cercare una lingua esatta, di parole, nomi, suoni, emozioni. Al punto di rigenerare una sua radicalità, accogliere refusi, produrre invenzioni/restauro di parole dai molti echi, recuperare “antichi lallalli spersi nel deserto”, capaci non di descrivere ad es. il pianto ma di far risuonare a dovere il linguaggio del pianto in lei. Certo, vengono in mente i lapsus di Rosselli, il suo scontro di lingue, i suoi “corti circuiti semantici”, le sue contrepèteries (Giudici), oppure il petèl di Zanzotto, la lingua vergine dei bimbi che tuttavia non salva (”la poesia non è in nessuna lingua, in nessun luogo”, scrive sconsolato in Filò). Ma Elia tenta di andare oltre, di giungere a quella lingua cancellata, rimossa a cui accennavo. È lalange, titolo di un suo lavoro (ora sparso in Calende, Manni 2018) e “refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla”. Il riferimento chiaro è a Lacan, al suo concetto (non chiarissimo) di lingua preverbale, prefamiliare, abitata dal corpo e con cui il corpo parla. Ma non si tratta di esplorare l’inconscio, di regredire, di sperimentare. Quel “refuso della memoria” ci svela che la poesia ha già agito su quella ipotesi, l’ha addolcita, il lapsus freudiano (che nella scrittura può essere ricercato, “coltivato”, “lallato”) si prende la sua rivincita sulla tecnica lacaniana: ad Elia non interessa una lingua metapoetica, concettuale o funzionale, ma quella di cui possa carpire l’ “etimo” implicito, l’aderenza primeva alle cose, la vena anticanonica, forse “blasfema”. Quindi, ancora, resiliente. Semplicemente Elia “sa” che questa lingua c’è, è specifica della poesia, “dobbiamo solo riprendere le parole”. L’esempio su cui mi sono soffermato riguarda in realtà tutto il suo lavoro, perché basta leggere i suoi libri (passando ad esempio da Di un’impossibile maturità, 1975, a Maree, 1986, a Golena, 2014, al citato Calende) per rendersi conto che il suo linguaggio è in continuo divenire. Ma questo avviene non per sperimentazione ma per cura. È un concetto materno, elettivo, artigianale, appunto un “mettere mano” a “le parole, come l’acqua / e i sassi e i pioppi al vento”. Cura che, come la lingua, coinvolge e traspare dal particolare sguardo, intimamente femminile, che Elia rivolge sempre sulle cose, sui luoghi, su quella natura, ed anche sui dolori e i misteri personali e collettivi che celano. Visione profonda, disposta ad un metaforico “annegamento”, un’altra idea che si rinviene nella poesia di Elia e che è immagine di una discesa verticale nel suo materiale poetico, fino in fondo, a dragare strati sedimentati. In ovvia e ricercata contrapposizione con la superficie e – quindi – il superficiale. Anche qui, in questa metafora, rinveniamo il nesso indissolubile tra terra, intesa anche come luogo dell’esistenza, e scrittura. L’acqua (e il relativo campo semantico) è molto presente in questa poesia, un’iperbole di qualcosa che è reale vissuto, parte del rapporto di Elia col fiume, anzi la fiuma, magari in qualche estate di tuffi: fin dove possiamo spingerci, a quale profondità, fino a quale soglia del dolore? Ed anche, fin dove può scandagliare il pensiero che ripercorre le cose, nell’acqua, nel liquido amniotico, nell’intimo silenzio liquido (di silenzi necessari al poeta) rotto solo dall’acufene, un barotrauma, un disturbo dell’udito, altro termine che affiora, qualcosa legato strettamente all’ “annegamento”, all’apnea, al tentativo del poeta di stabilire un limite di rottura? Scrive Elia, nella prosa di apertura di Golena: “la poesia è per me quello che resta delle lacrime del mollusco per spazzare o avvolgere il granello di sabbia che gli si conficca dentro (…), un peduncolo sottile che mantiene saldo il legame con il fondo (…). La conchiglia, alla fine, è il dono che altri, se vorranno, avvicineranno all’orecchio per sentire restituita la propria voce forte dell’eco delle parole in attesa (…)” (i corsivi sono miei). Ecco qua, in sintesi: ferita, dolore, risarcimento e cura; legame (ma anche ancoraggio) a un sostrato di vita fondamento dell’identità personale; scrittura, rinvenimento e richiamo alla luce delle “parole per dire”, quelle che sopravvivono pazientemente nel profondo, quelle parole, dice a un certo punto Elia, “legate con la raffia e i silenzi”. E materiale poetico che non è mai, qui, meramente descrittivo, ma è “granello” di ciò che crea. Sono questi i compiti e insieme le responsabilità che Malagò assegna alla poesia, la resilienza che essa è capace di esercitare. Ed è questa forse un’altra caratteristica dell’intenso lavoro di Elia, questa costante riflessione, che però non è vanamente metapoetica o autotelica ma applicata, militante: sulle ragioni, i valori anche etici della poesia, sul suo contribuire all’ “umana compagnia”. Con la passione di sempre, perché “le parole non dette / non cadono in prescrizione”. Aspettano solo di essere ritrovate. (g. cerrai)
Da I discorsi di sempre (1970)
Millenovecentoquarantotto primo semestre
Non sono ancora riuscita a scrivere una
parola d’amore. Siamo tutti così: mille
novecentoquarantotto primo semestre, l’anno
del freddo dell’attentato e di un residuo di fame.
Noi non sappiamo terminare le lettere – sotto
l’ultima riga non ci si aspetti il saluto e
i ricordi –; la classe che un qualche dio condannerà
in blocco per poco di amore.
Ho lasciato il tuo abbraccio alla fermata
dell’ autobus e ho trovato subiti la moneta
per l’ agente unico cercando in una tasca.
Chissà se i cinque talenti corrispondono a quelle
cinquanta lire ? mi pareva di sì traducendoli
in una corsa in via Rizzoli fino al capolinea.
Da Buffa sonagliera (1978)
(fortissimo)
Chiedere: stinto dolore di secoli
per un furto perpetrato ogni volta con torbidi
inganni promesse mai mantenute
non chiedere
– alzano le spalle
ma cosa vogliamo
hanno regalato repubbliche sul lavoro aperto scuole
rappresentanti testate giornali covi
inventato utilitarie gita
domenicale laghi monti cercare tartufi cave di trote
addestrate all’amo sangiuseppe lavoratore –
non piangere ancora riprenderemo
le nostre mani vuote per il cielo e la terra spalancheremo
tutte le porte non abbiamo nulla da portare via noi
siamo ballerini sulle punte
altra storia
non abbiamo lacrime passa parola sulla bocca di tutti
passa voce e mano che da ora
da subito abbiamo nulla e siamo
tutti in una girandola di giochi tra poco comincia
non ti serve il biglietto pagato da sempre noi
pagato fanno fede le mani rughe piaghe ventri
sfasciati
ma non piangere passa parola
Da maree (1986)
fracta voce loqui
I
frammenti mi hanno costretto al ritorno e
con voce spezzata di donna
vagando gli antri opachi
del Capricorno la porta che si spalanca
sul niente
ti ho inseguito dove frangono le onde e ancora
macera una sillaba
nella selva ramificata del gorgo
Vuoto questo cielo biforcuto come una fiamma
di fraudolenti
memorie uncinate
a ridosso di un sogno
sapendo che i confini seguono il ritorno
e la ripresa forse.
Non dire che non posso allontanarmi
voce rauca che ignora
pellegrinaggi. O forse di luce che piano
va a spegnersi.
Conosco la strada. Da sola
perché temo congedi e strette di mano
un ultimo tentativo. Sempre fuori
tempo. È tardi.
Ricordare non serve.
Le attese degli anni. E invecchiare
rinunciando ai bilanci del giudizio categorico:
conclusi i rimpianti nell’ultimo anno; i ricordi
sono macchine che risarciscono solo di addebiti
postumi.
Da Incauta solitudine – Poesie 1999-2009 (2010)
l’idiota
anche un bastone scorticato
incavvichiato in terra grassa al tramonto
l’ indomani è fiorito
mio padre aveva un mantra infallibile
come solo gli idioti
gratiaeplena etamordei
Lui scrutava nubi
invisibili
nel solleone tra le ciglia chiare
e vedeva il temporale nella plaga
più remota. “verrà. Oggi o domani
che fa? Copri le talee stanotte
perché già sul primo albore…”
con l’ afrore e il respiro breve
tra nugoli di zanzare che in ascolto
avevano preparato il piano d’ assalto, proteggevo
le talle sotto un cielo di piccole luci radiose.
Inutili idioti
lui a scrutare le plaghe senza bussola ed io
infradiciata dei suoi presentimenti
(Da quante grandinate ci siamo salvati)
Da L’orto dei semplici (2012)
naufragar – achillea
Mai che abbia riconosciuto l’acqua
mentre annegavo. E sì che era la stessa. O quasi.
Talvolta l’ho intuito, per caso e inciampo
per il lampo che seguiva lo squarcio
anche sopra, nel cielo a specchio
poi in fretta, sopra e sotto insieme a coprire
sedare rimuovere infine ricoprire
di terra il silenzio
Così a ogni giro, la boa segue
fedele e l’ombra resta dall’altra parte:
anneghi senza pinna, risali senza conchiglie,
suturi a cielo aperto e senza filo, torni
al capo senza doppiare la punta dei piedi
neanche quando come una canna ti pieghi
a sentire sulla fronte la carezza sfiorata del valgo.
Da abisso intravisto a naufragio esperito
arriverà prima o poi l’onda che
generosa infranga e
ti faccia girino
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