Gianluca D’Andrea – Forme del tempo (Letture 2016-2018) – Arcipelago Itaca 2019
7. FOGLIA D’ACERO E MEMORIA
«La memoria è il dono del ritorno all’identico, o dell’i-dentico. Il suo vero campo d’azione non è il passato – è il ri-presente. Ecco perché essa viene dal “passato”, e non lo riporta mai indietro».
(Paul Valéry)
Leggo “acero”, vedo foglie rosse e gialle di una foto mai scattata, una cartolina e un sapore plastificato, asettico. Poi ricordo un pic-colo acero nel parco vicino casa e vedo il “rosso” oscurato del ve-ro, nonostante volessi l’accensione “artefatta” vista in foto. No-stalgia di una finzione, è un modo che non raggiungerà mai la sua poesia – finzione di una nostalgia. Acero, vento, sta per raggiungermi qualcosa che conosco da qua-ranta primavere: il mio quarantunesimo autunno. Allora è plausi-bile parlare ancora di nostalgia? O è solo la ripetizione che si ri-presenta e che riconosco? Come un’abitudine riconfermata dalla capacità – necessità – di risvegliarmi diversamente uguale da una scomparsa. Dalla mia scomparsa alla fine di un’altra estate. La finzione di ritrovarmi congelato in uno scenario che si lascia at-traversare, che mi lascia attraversare. Forse è bene confermare quanto sia inevitabile – eppure si dimen-tica, ecco la giustizia – lasciarsi perdere. Non sentirsi?
Acero, autunno, non sento
Non è autunno, ma già i raggi s’inclinano
ad altre dimensioni del mio sentirti.
Un’emorragia esterna ributta il colore,
quel particolare colore che mi attiva
ma non ha senso mi realizzi.
Per non sentirmi, quale peso,
provo a sentirti e dico amore –
con quale trasporto? – perché sentire
te, foglia d’acero in foto, è più genuino
di vedere nel parco l’alberello?
Tra la foto e il reale un tassello
che cuce il risveglio da questo sogno estivo
e dirime il gioco del vero.
Infatti arriva un vento che sembra
scherzare con la pelle e i capelli
e già mi trasporta ai giorni dopo,
dopo adesso che sento l’autunno
che si approssima, lo stesso.
a una foglia d’acero e ad Anna
36. LA VERTIGINE DEL LIVELLAMENTO
«I nostri padri strapparono il pane da tronchi e da pietre».
(Robert Lowell)
Sarà il tentativo di riscoprirsi nella relazione – nel caso del testo citato, paterna e filiale, ma anche d’appartenenza a un’umanità sull’orlo della trasformazione, e della “vertigine” che ne deriva – a riattivare la scrittura poetica “dall’interno della specie”. Non m’interessa avventurarmi in un’analisi tecnico-formale approfondita del componimento, ad attirarmi è invece lo “stupore”, cioè la sospensione, appunto, che allontaniamo da noi per non essere risucchiati dal gorgo della vertigine e del disorientamento.
Infatti «ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia, / con le prove concepite fuori da ogni possibile / orizzonte di stupore», ed è con questo male che livelliamo su altro male, che tentiamo di inibire lo «scandalo» della trasformazione. Cioè, la nostra vera natura di mutamento cerchiamo di sostituirla con immagini fisse che rappresentino costantemente come desideriamo apparire: immobili nel riflesso perpetuo di una posa rassicurante per quanto limitante e, addirittura, esiziale.
Dall’interno della specie
Eppure nel frammento di ogni memoria,
nella natura di un sorriso che supera a volte il nostro sguardo
accarezziamo la vertigine con una mano
nello scandalo innaturale che ci trattiene,
eppure, dall’interno della specie,
ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia,
con le prove concepite fuori da ogni possibile
orizzonte di stupore.
(A. De Alberti, Dall’interno della specie)
«Noi siamo la scissione. Io sono la scissione. E finché l’Io presume che la scissione si trovi nell’insieme delle cose, e non in se stesso,
se ne sta rannicchiato nella trappola del suo stesso inganno, della sua illusione» (T. Hürlimann, L’ombrello di Nietzsche).
Come dice Günther Anders:
Cioè l’anonimato intrinseco all’autopromozione nella presunta trasparenza, è in realtà la caduta del mistero e del particolare. L’avvento della specie.
38. COLLINA
«Ogni sabato, al mattino, con i due terrier Lakeland, giusto
per fare una passeggiata, arrivavi in cima a una collina
e te ne stavi lì a braccia aperte contro il vento a guardare
i cani…».
(Brian Friel)
Sotto la superficie liquida non occorre la parola ma il segnale, l’immagine – forse accattivante, forse disperata – lanciata per captare l’attenzione dell’altro e che risponde, mi verrebbe da dire per reazione, alla scomparsa.
Non so se riuscirò a immergermi completamente nell’acquario della scomparsa, per un senso d’apprensione o incapacità respiratoria (cos’è la libertà se non un limite d’accettazione, una resistenza insufficiente?), ma la parola per me possiede il dono della fuoriuscita, della traccia e del raccordo attraverso il ricordo. Il racconto e il ritmo slacciati dal fissaggio dell’istante. Se l’immagine è testimonianza, quindi posa mortuaria da lasciare al futuro, la parola, pur testimoniando, lo fa sfrangiando il tempo. Essa è viva proprio nella potenziale perdizione del senso, non è solo “testimoniale” ma vitale come un richiamo che può vibrare nel vuoto, diversa dal silenzio reclamante dell’esubero, del troppo pieno, dell’immagine.
La parola richiama una scomparsa perché si attivi una presenza, l’immagine simula una presenza nell’avvenuta scomparsa. Non esiste una distinzione etico-estetica tra parola e immagine, per ora siamo dentro la loro commistione o separazione nel mutamento.
La collina
luce la luce di Romeo
Paradiso, VI, v. 128
Nessun sentiero al pellegrino,
al suo disdegnoso ribellarsi, ora che vedo
nel ricordo la collina dove il mistero
e l’osso di capra fanno del cadavere
una scoperta.
Inscena lo schianto di paesaggi
nella memoria, la caduta
scivolando nella scarpata e portando
in salvo il corpo. Ecco
quello che interessava tutti i ragazzi,
l’avventura che avveniva e il mondo
nuovo che leniva il desiderio.
Siete voi qui, vecchi amici?
Non che resti altro oltre l’ombra,
eppure è stato il nostro un rapporto,
voi un riferimento, la compagnia
degli anni e l’abbandono nella trasformazione.
Le strisce di cielo su cui si stagliava
la sagoma dei corpi giovani, il piede
sul monticello di terra o nella buca
scavata coi bastoni. Chissà, il castagno
o la scorza di pino marittimo
non dicono se non l’antico respiro,
la gioia ariosa delle ore pellegrine.
S’illumina di luce meridiana
la sagoma di questo corpo di allora,
come allora senza sentiero. Nella radura
contavamo palline di sterco nel riposo
da un cammino che già conosceva,
fingendo, il suo comico, poco eroico
ritorno. Così umilmente ardeva
nella pioggia lieve il respiro
nel passo di ragazzini che discendevano
dalla collina a una periferia
mediterranea di città già invasa
di antenne e fili
e panni stesi e voci tra le mamme
dai balconi e padri al lavoro,
dispersi come i figli nell’incertezza
fraintesa dei ruoli. Vivevamo
fra le rovine di qualcosa d’ignoto,
avi e sulla cima il fortino spagnolo
da cui guardare per un attimo
la distesa del mare, delle nostre estati
arroventate sui sabbioni.
Chi ad arrostirsi per scelta, noi
nei giochi svelti, nelle partite
su campi riarsi al margine delle rive,
pronti allo slancio nel refrigerio dopo
le fatiche. Ora, questo scherzo
dal passato rivive solo come spasmo
di dispersione, in chi, nel dissesto
di schermi e dita, reclama la parola
e il racconto per confermare il nesso,
ma il nodo è ormai disciolto.
Le maglie sfilacciate per una sicurezza
che sento, da altri ragazzi
distante, rastremata in un pugno
d’immagini che vibrano in un nuovo
contatto. Ecco, le ombre di ore
passate si riallacciano al quadro
di un futuro in ascesa,
pluridimensionale, inaudito,
o più semplicemente, nascente.
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