Gianluca D’Andrea – Forme del tempo (letture 2016 – 2018)

Gianluca D’Andrea – Forme del tempo (letture 2016 – 2018)Gianluca D’Andrea – Forme del tempo (Letture 2016-2018) – Arcipelago Itaca 2019
Pubblico qui alcuni brani tratti dall’ultimo lavoro di Gianluca D’Andrea, un libro singolare e assai godibile in cui l’autore collaziona versi e brani in prosa, in forma di particolare prosimetro. Particolare quanto può esserlo una personalissima wunderkammer, nella quale non tutti i versi sono suoi ma quelli che non lo sono, spesso sotto forma di citazioni di varia misura, fungono da spunto, ossatura, sostegno di “meraviglia” per le riflessioni – in forma di critica, in forma di arte, in forma di nuovi versi – con cui “si tenta una ricognizione sul presente, ma non solo, che prende avvio dalle esperienze di lettura per incrociarsi con altre esperienze, assolutamente personali, dell’autore” (D’andrea nella Premessa minima). E dove comunque – forse il tratto più interessante – “indistinto è il margine che dovrebbe separare il soggetto della percezione dalla realtà percepita e dagli strumenti che consentono l’accesso al contesto”. Un “margine sfumato”, anche graficamente, che caratterizza al lettore questo libro come unitario pure nei “prestiti”, che appaiono come assimilati, divorati quali elementi dialettici forti dalla riflessione stessa di D’Andrea. Che non ha nulla di aforistico o frammentario, per quanto il frammento sia un genere nobilissimo, ma che esercita semmai una raffinata arte del leggere pensoso e appassionato (o del vedere, qui si parla anche di cinema, ma in modo alquanto inaspettato), lavorando soprattutto sulla profondità dei concetti che si sviluppano da quegli spunti, sulle idee anche apparentemente collaterali o trasversali (e quindi di una certa dimensione filosofica, rizomatosa) che da quella riflessione scaturiscono. La forma migliore di critica, perfino quando si scrive di sé, del proprio lavoro o semplicemente di quanta influenza la scrittura abbia o abbia avuto nella propria vita. Ne esce un libro che per così dire non si chiude, non si chiude al lettore, che da quasi ognuna delle 140 pagine può trarre spunti e suggestioni preziose da approfondire ulteriormente. (g. cerrai)

7. FOGLIA D’ACERO E MEMORIA

«La memoria è il dono del ritorno all’identico, o dell’i-dentico. Il suo vero campo d’azione non è il passato – è il ri-presente. Ecco perché essa viene dal “passato”, e non lo riporta mai indietro».
(Paul Valéry)

Per questo la sensazione e i ricordi si mescolano e possono spin-gere a rinnovarsi nell’immaginazione.
Leggo “acero”, vedo foglie rosse e gialle di una foto mai scattata, una cartolina e un sapore plastificato, asettico. Poi ricordo un pic-colo acero nel parco vicino casa e vedo il “rosso” oscurato del ve-ro, nonostante volessi l’accensione “artefatta” vista in foto. No-stalgia di una finzione, è un modo che non raggiungerà mai la sua poesia – finzione di una nostalgia. Acero, vento, sta per raggiungermi qualcosa che conosco da qua-ranta primavere: il mio quarantunesimo autunno. Allora è plausi-bile parlare ancora di nostalgia? O è solo la ripetizione che si ri-presenta e che riconosco? Come un’abitudine riconfermata dalla capacità – necessità – di risvegliarmi diversamente uguale da una scomparsa. Dalla mia scomparsa alla fine di un’altra estate. La finzione di ritrovarmi congelato in uno scenario che si lascia at-traversare, che mi lascia attraversare. Forse è bene confermare quanto sia inevitabile – eppure si dimen-tica, ecco la giustizia – lasciarsi perdere. Non sentirsi?

Acero, autunno, non sento

Non è autunno, ma già i raggi s’inclinano
ad altre dimensioni del mio sentirti.
Un’emorragia esterna ributta il colore,
quel particolare colore che mi attiva
ma non ha senso mi realizzi.
Per non sentirmi, quale peso,
provo a sentirti e dico amore –
con quale trasporto? – perché sentire
te, foglia d’acero in foto, è più genuino
di vedere nel parco l’alberello?
Tra la foto e il reale un tassello
che cuce il risveglio da questo sogno estivo
e dirime il gioco del vero.
Infatti arriva un vento che sembra
scherzare con la pelle e i capelli
e già mi trasporta ai giorni dopo,
dopo adesso che sento l’autunno
che si approssima, lo stesso.

a una foglia d’acero e ad Anna

36. LA VERTIGINE DEL LIVELLAMENTO

«I nostri padri strapparono il pane da tronchi e da pietre».
(Robert Lowell)

A parte che il termine “vertigine” richiama la dimensione lirica del soggetto in cerca continua di orientamento e accoglienza, ma in Dall’interno della specie, poesia tratta dall’omonima raccolta   pubblicata da Andrea De Alberti per Einaudi agli inizi del 2017, ritroviamo ancora quel senso di sospensione ricollegabile a una malinconia che desidera la rigenerazione di una vita di contatto.
Sarà il tentativo di riscoprirsi nella relazione – nel caso del testo citato, paterna e filiale, ma anche d’appartenenza a un’umanità sull’orlo della trasformazione, e della “vertigine” che ne deriva – a riattivare la scrittura poetica “dall’interno della specie”. Non m’interessa avventurarmi in un’analisi tecnico-formale approfondita del componimento, ad attirarmi è invece lo “stupore”, cioè la sospensione, appunto, che allontaniamo da noi per non essere risucchiati dal gorgo della vertigine e del disorientamento.
Infatti «ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia, / con le prove concepite fuori da ogni possibile / orizzonte di stupore», ed è con questo male che livelliamo su altro male, che tentiamo di inibire lo «scandalo» della trasformazione. Cioè, la nostra vera natura di mutamento cerchiamo di sostituirla con immagini fisse che rappresentino costantemente come desideriamo apparire: immobili nel riflesso perpetuo di una posa rassicurante per quanto limitante e, addirittura, esiziale.

Dall’interno della specie

Eppure nel frammento di ogni memoria,
nella natura di un sorriso che supera a volte il nostro sguardo
accarezziamo la vertigine con una mano
nello scandalo innaturale che ci trattiene,
eppure, dall’interno della specie,
ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia,
con le prove concepite fuori da ogni possibile
orizzonte di stupore.

(A. De Alberti, Dall’interno della specie)           

Ma dopo questo testo mi attrae un’altra coppia di versi della raccolta: «Esseri o prodotti di esistenze / a un minuto dall’abisso?» (Il vuoto, in Dall’interno della specie, cit.), forse perché questo lirismo  della realtà apparente riesce a tollerare la scissione, la crepa che ancora ci determina. Una frattura non più tra fisica e metafisica, quanto tra conservazione e trasformazione di una figura concreta che si auto-tramanda attraverso il linguaggio. In poche parole è possibile ancora “raccontarci” ora che siamo a un passo dalla resa del linguaggio verbale? Forse non importa lo strumento ma ancora e soltanto la frattura relazionale, la separazione o sospensione che si crea tra soggetto e mondo:

«Noi siamo la scissione. Io sono la scissione. E finché l’Io presume che la scissione si trovi nell’insieme delle cose, e non in se stesso,
se ne sta rannicchiato nella trappola del suo stesso inganno, della sua illusione» (T. Hürlimann, L’ombrello di Nietzsche).           

Senza scissione sarebbe solo il livellamento, cioè l’espletamento di un desiderio di iper-attivazione dell’Io in funzione della promozione (e proiezione) della propria immagine e della conseguente insostenibilità di ogni attrito (una prospettiva di nevrosi e depressione, come già avviene).

Come dice Günther Anders:

«Chi si ausculta in segreto? Chi osserva se stesso in camera dal buco della serratura? Occupazioni sconosciute. Non c’è più alcun buco della serratura, perché non c’è più bisogno di chiavi. Non c’è più bisogno di chiavi, perché non c’è più la porta. Non c’è più la porta, perché la camera buia di ieri è oggi uno spazio come un altro» (G. Anders, Amare, ieri – Appunti sulla storia della sensibilità).                           
Cioè l’anonimato intrinseco all’autopromozione nella presunta trasparenza, è in realtà la caduta del mistero e del particolare.  L’avvento della specie.

38. COLLINA

«Ogni sabato, al mattino, con i due terrier Lakeland, giusto
per fare una passeggiata, arrivavi in cima a una collina
e te ne stavi lì a braccia aperte contro il vento a guardare
i cani…».
(Brian Friel)

L’epoca degli spettri è anche il tempo affondato nella sua immagine. Ecco perché il passato non possiede una dimensione nostalgica, ma è inghiottito nel presente costante, monodimensionale, fissato ma sfuggente nella sua ambiguità liquida. La fonte di Narciso si è trasformata in un acquario privato, ricco di confort e cure: il regno del solipsismo e dell’illusione di presenza. L’assiduità e l’insistenza sul se stesso ricoperto dai flutti casalinghi, dagli schermi riflettenti, dalle acque mosse dell’artificio, purificate (o abbellite) dall’apparato di filtri, è il nuovo paradigma della storia e, quindi, il nuovo racconto.
Sotto la superficie liquida non occorre la parola ma il segnale, l’immagine – forse accattivante, forse disperata – lanciata per captare l’attenzione dell’altro e che risponde, mi verrebbe da dire per reazione, alla scomparsa.
Non so se riuscirò a immergermi completamente nell’acquario della scomparsa, per un senso d’apprensione o incapacità respiratoria (cos’è la libertà se non un limite d’accettazione, una resistenza insufficiente?), ma la parola per me possiede il dono della fuoriuscita, della traccia e del raccordo attraverso il ricordo. Il racconto e il ritmo slacciati dal fissaggio dell’istante. Se l’immagine è testimonianza, quindi posa mortuaria da lasciare al futuro, la parola, pur testimoniando, lo fa sfrangiando il tempo. Essa è viva proprio nella potenziale perdizione del senso, non è solo “testimoniale” ma vitale come un richiamo che può vibrare nel vuoto, diversa dal silenzio reclamante dell’esubero, del troppo pieno, dell’immagine.
La parola richiama una scomparsa perché si attivi una presenza, l’immagine simula una presenza nell’avvenuta scomparsa. Non esiste una distinzione etico-estetica tra parola e immagine, per ora siamo dentro la loro commistione o separazione nel mutamento.

La collina

luce la luce di Romeo
Paradiso, VI, v. 128       

Nessun sentiero al pellegrino,
al suo disdegnoso ribellarsi, ora che vedo
nel ricordo la collina dove il mistero
e l’osso di capra fanno del cadavere
una scoperta.
Inscena lo schianto di paesaggi
nella memoria, la caduta
scivolando nella scarpata e portando
in salvo il corpo. Ecco
quello che interessava tutti i ragazzi,
l’avventura che avveniva e il mondo
nuovo che leniva il desiderio.
Siete voi qui, vecchi amici?
Non che resti altro oltre l’ombra,
eppure è stato il nostro un rapporto,
voi un riferimento, la compagnia
degli anni e l’abbandono nella trasformazione.
Le strisce di cielo su cui si stagliava
la sagoma dei corpi giovani, il piede
sul monticello di terra o nella buca
scavata coi bastoni. Chissà, il castagno
o la scorza di pino marittimo
non dicono se non l’antico respiro,
la gioia ariosa delle ore pellegrine.
S’illumina di luce meridiana
la sagoma di questo corpo di allora,
come allora senza sentiero. Nella radura
contavamo palline di sterco nel riposo
da un cammino che già conosceva,
fingendo, il suo comico, poco eroico
ritorno. Così umilmente ardeva
nella pioggia lieve il respiro
nel passo di ragazzini che discendevano
dalla collina a una periferia
mediterranea di città già invasa
di antenne e fili
e panni stesi e voci tra le mamme
dai balconi e padri al lavoro,
dispersi come i figli nell’incertezza
fraintesa dei ruoli. Vivevamo
fra le rovine di qualcosa d’ignoto,
avi e sulla cima il fortino spagnolo
da cui guardare per un attimo
la distesa del mare, delle nostre estati
arroventate sui sabbioni.
Chi ad arrostirsi per scelta, noi
nei giochi svelti, nelle partite
su campi riarsi al margine delle rive,
pronti allo slancio nel refrigerio dopo
le fatiche. Ora, questo scherzo
dal passato rivive solo come spasmo
di dispersione, in chi, nel dissesto
di schermi e dita, reclama la parola
e il racconto per confermare il nesso,
ma il nodo è ormai disciolto.
Le maglie sfilacciate per una sicurezza
che sento, da altri ragazzi
distante, rastremata in un pugno
d’immagini che vibrano in un nuovo
contatto. Ecco, le ombre di ore
passate si riallacciano al quadro
di un futuro in ascesa,
pluridimensionale, inaudito,
o più semplicemente, nascente.

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