Maria Allo – Solchi, nota di Patrizia Sardisco

Maria Allo - SolchiPost-it all’autrice

Di fessure, di crepe, di segni, di in-segnamenti ancestrali: in una terra-mondo devastata e resa opaca dal dire di un “fiato che non pesa”, in cui le sole trasparenze sono “le fessure scampate alle parole”. Di rivoli e calanchi e di altri suggestivi Solchi, ci dona saggio in poesia questo bel libro di Maria Allo, percorrendo la polisemia particolarmente fertile di un termine in cui si intrecciano e si ibridano piani semantici spesso antinomici che oppongono immagini di apertura e di riparo, di linee d’impluvio e di cavità subacquee, di tracce e di incisioni, e ancora di innesti e di uscite, di vie di fuga.

Di solchi e di direzioni arcaiche e arcuate, di assi curve si dice in questo misterico libro di Maria Allo, di piste entro cui dimora un’appartenenza dalla quale, ci avverte la voce poetica, non può darsi scampo, poiché “Non c’è rimedio alla curva/Dell’appartenenza”; di molteplici, di multiformi crepe e del pertinace radicamento nell’alveo non pacificato di quelle crepe; di aperture e lacerazioni, dalle quali tuttavia soltanto, sembra suggerire la seconda parte del titolo del libro, può darsi la sporgenza nella compiuta forma della parabola, nella sua duplice e coincidente accezione di traiettoria-parola che intercetta e adombra “Verità inattese”. È in figura di parabola, infatti, la sola traiettoria-tragitto tracciabile e percorribile per chi, non senza fatica e dolore (“Avanzare è anche soffrire”), assegni al vivere e al dire poetico direzioni equidistanti da uno stesso fuoco.

E il fuoco di questo continuum tra vita e poesia è, maestosamente, quello di un vulcano-padre che si erge solenne, possente e a proprio agio tra storia e mito, è ferita di fuoco nel cuore di un’isola-madre, “corpo immenso del perdono”, luogo di nascita e convintamente suolo d’elezione in cui “resiste nel suo calore un grande cuore”, isola crocevia essa stessa di storia e di mito nel cuore di un mare che tiene in ostaggio e che sembra non mostrarsi mai nella sua parte più profonda. L’Etna: ma insistentemente in minuscolo, nome comune innervato nel diuturno quotidiano: l’etna è il solco primigenio dal quale morte e vita hanno violenta e non sdipanata scaturigine, solco ancestrale che plasma, forgia a propria immagine prima della prima parola, “prima di respirare”, solco che intorno a sé traccia una sorta di spazio sospeso e assimilante, un limbo assorbente rispetto al quale ciò che resta “È gomitolo precipite di devastazione” che toglie nervo al transeunte e, soprattutto, sospende la luce e ogni altra voce sotto il peso del proprio fragore: “Con un pugno arcigno di silenzio”, “Non si ha più voce”.

E in effetti, come poter dire del groviglio di radici e “fessure nel deserto” di questi esseri–albero che siamo, di quello gnommero gaddiano di sovradeterminazione che l’occorrenza di termini come “gomitolo”, “grumi”, “ragnatele”, “tralci” “nodo”, mi riporta in mente, come poter dire il nostro essere “Memorie sommerse”, il nostro essere “carne e vuoto”, “soli e senza un grido”? Come, se si oscura alle spalle la “sola testimone”, la parola, e se “non c’è sintassi che traduca” ? Come dire la dissidenza, la dissonanza?

Occorrerà consegnarsi, restituirsi interi, “Senza afasie”, far di se stessi “segno senza ambiguità”, strapparsi dal volto “La maschera dell’ombra”, “Distillare l’essenza”, sorprendere Verità, dischiuderne il mistero alla nominazione.

Nella rarefazione della veglia/vigilia che impregna la poesia ininterrotta di questo poema franto, un tempo-Tempo si apre, si disallinea, scivola, piange colto nella sua nudità e “I nomi prendono forma dalla perdita o dal vuoto” : è una potente immagine, quella restituita da questo verso, che richiama gli studi dello psicanalista britannico Wilfred Bion, secondo il quale il pensiero nasce dalla frustrazione, dalla mancanza: nella riflessione bioniana, è l’assenza della cosa che diviene pensiero della cosa. Allo stesso modo, mi pare di poter affermare, nella percorrenza dolorosa e tensiva della propria curva spaziotempo, coincidenza di percorso lirico e vitale, la voce poetica penetra il vuoto dei Solchi e vi abita il silenzio, vi abita il fondo vitale del proprio radicamento: trae la linfa della “parola antica e nuova”, e spalancate le braccia compie la propria parabola. È un risveglio, ma è ben più di un risveglio di fede, è un’identificazione con essa: “Sii la fede che tiene un’idea”. È un’identificazione con la luce che veglia sulla memoria, ma non più nell’abbaglio accecante del giorno bensì con la coda dell’occhio, per visione laterale, periferica, quella dei recettori sensoriali attivati nella luce del crepuscolo mattutino, “nell’ora incerta/Che precorre il giorno” quando il Sole illumina per diffusione e riflessione. In questo Tempo nuovo, la tensione si attenua, come acutamente osservato da Anna Maria Curci in chiusura della sua puntuale Prefazione al volume, “ma resta irriducibile”. Lo scioglimento è delle braccia, finalmente spalancate, e nel canto, quasi senza più corpo né confine, e “Sarà un unico respiro atemporale/a farci adempimento e condivisione”: ma il nodo, il groviglio, non conosce distensione, gli gnommeri sembrano anzi ripiegarsi a formare strutture di superiore complessità, con la ricorrenza di versi e interi brani di poesie precedenti e riflettendo a ben guardare anche nella costruzione del testo una concezione curva e aperta, in-finita, del mondo e di questa poesia, con il suo procedere in assenza di segni di interpunzione e per a capo e maiuscolo, come nel tentativo di afferrare ogni volta tra pollice e indice il bandolo di un nuovo inizio, il prodigio sull’orlo del ricominciamento, alla vigilia della risurrezione: “La parabola si compie nei risvegli dentro ogni inizio”. (Patrizia Sardisco).

*

In sogno il vento ha grandi occhi di brina

Polvere che imprime alle carni

Il disordine del giorno

Dalla gola una voce straripa

Invade l’aria annebbiando

Il corpo immenso del perdono

Qui resiste nel suo calore un grande cuore

Ci detiene e tutti ci contiene

Attendo parole antiche

In questo luogo non c’è

Altro luogo in cui vorrei essere

Ecco come la notte prende il sopravvento

Su tante solitudini straniere

Forse un destino c’è per questo cielo

Vaga già nel buio tra gli ulivi

Sui volti disperati

Ma davanti alla violenza non si cede

Fuori piove

 

*

La ragione del sangue investirà veglie

Di solchi ancestrali che forgiano

Prima di respirare

Verità inattese di altri canti ai giorni

Di colori tra le ciglia

Cerchi di limbi assorbono ragioni

E ogni cosa che resta

In questi cieli sfioriti

È gomitolo precipite di devastazione

Si snervano innesti di stagione

Su passi cadenzati

Aperti a cenni come chiodi

Dietro i rintocchi

Non vi è luce

Anzi delirio affilato dal libeccio

Nel deserto ostinato che ci coglie

Non si ha più voce

Anche se l’etna si arrovella nel fragore

E la morte reclina

A immaginarci ancora vivi

 

*

Sii il freddo che smorza i desideri

Nella fioca luce di notti solitarie

Sii lo strappo che tiene in vita il ramo

Con le mani unite

Sii luce che veglia

La memoria della Terra alla vigilia

Della risurrezione

L’odore dell’alba scorre nel rumore dell’acqua

E rifrange cieli mai visti con la coda dell’occhio

È questo vuoto a farsi corona in un albero muto

Imbrigliato nel solco di un giorno

A un tratto crolla la terra senza fondamenta

Dimmi può la parola antica e nuova

Darci consistenza farci deserto e vuoto

Non trincea di anime ferite

Spalancare le braccia nel bianco della nebbia

[futuro passato presente]

Ma a crepitare è solo abisso dentro un abbandono

Di qui la luce percuote glicini a stormo

Su assolate foglie

Con molteplici suoni dissonanti

Legati alla vita e modellati dal mare

Di qui esplodono gerani in verticale

Non lasciano scampo alle tempeste

Alla ruvidezza del tuo sguardo

Che affiora a tratti e incide sul coraggio

Ridisegnare distanze su omissioni calcolate

Fino al margine della coscienza

 

*

Scivola Tempo dalle dita e dalle radici del vulcano

C’è un’altra luna

Spira leggero in bocca il vento

Bianco di nebbia

Anche la pietà valica l’attesa

In un rigagnolo del tempo

Mi chiedo come trattenere il respiro

Tra un mucchio di pietre e l’infinito

Le parole di sempre percorrono

La stessa strada desolata

I nomi prendono forma dalla perdita o dal vuoto

Adesso è notte il deserto aleggia

Ardente sulle guance

Fende i marosi e tutto spegne nell’abisso

La parabola si compie nei risvegli dentro ogni inizio

Che ci strappa dalle notti e riafferma il prodigio

Di chi sta per ricominciare

Un senso di cose reali scalpita in cerca della terra

Che non c’è

In bilico la luce sfoglia già la notte

I nostri punti di forza sprigionano

Dalle crepe sotto i piedi

Da Solchi. La parabola si compie nei risvegli, Prefazione a cura di Anna Maria Curci, L’arcolaio 2016 – FUORICOLLANA, Collana diretta da Fabio Michieli.

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Maria Allo, laureata in Lettere Classiche, è insegnante, poetessa e traduttrice siciliana. Vive tra Parigi e Catania. Si occupa di Islamistica e di Nuove professioni educative. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni antologiche e quattro sillogi di poesia: I sentieri della speranza, Gabrieli Editore 1985; Riflessi di rugiada. Cose sparse di me, Gruppo Albatros 2011; Al dio dei ritorni, Galassia Arte 2014; Solchi. La parabola si compie nei risvegli, Editore L’Arcolaio 2016, La terra che rimane Edizioni di poesia Controluna 2018 e Talenti di donna, Onirica edizioni 2013, come curatore.

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Patrizia Sardisco è nata a Monreale dove tuttora vive. Laureata in Psicologia, specializzata in Didattica Speciale, lavora in un liceo di Palermo. Scrive in lingua italiana e in dialetto siciliano, sue liriche e alcuni racconti brevi compaiono in antologie, riviste e blog letterari. Vincitrice e finalista in diversi concorsi a carattere nazionale, nel 2016 ha pubblicato, per i tipi di Plumelia, la silloge in dialetto Crivu, vincitrice del Premio Internazionale “Città di Marineo” e menzionata al Premio “Di Liegro” di Roma. Nel 2018 si è aggiudicata il Premio “Montano” nella sezione “Una prosa breve”. Nello stesso anno, per le Edizioni Confine, ha dato alle stampe la sua prima pubblicazione in lingua italiana, eu-nuca, con prefazione a cura di Anna Maria Curci, finalista al Premio “Bologna in lettere” 2019.

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2 Commenti

  1. Grazie di cuore a Patrizia Sardisco che ha avuto la bontà e la pazienza di leggere Solchi per intero, con la sua consueta generosità e acume. Sono molto grata a Giacomo Cerrai per la gentile accoglienza.

  2. Una lettura ricca di suggestioni, illuminante, profonda, quella proposta da Patrizia Sardisco. La poesia di Maria Allo ha una potenza sua propria, è luce che si infiltra tra le fenditure della lava, respiro che anela infinito, pur “imbrigliato nel solco di un giorno” , “parola antica e nuova”, l’unica capace di darci consistenza e, nel medesimo tempo, “farci deserto e vuoto”, come lo scabro paesaggio sui fianchi del vulcano, che è vita e morte, richiamo di essenzialità

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