Post-it all’autrice
Di fessure, di crepe, di segni, di in-segnamenti ancestrali: in una terra-mondo devastata e resa opaca dal dire di un “fiato che non pesa”, in cui le sole trasparenze sono “le fessure scampate alle parole”. Di rivoli e calanchi e di altri suggestivi Solchi, ci dona saggio in poesia questo bel libro di Maria Allo, percorrendo la polisemia particolarmente fertile di un termine in cui si intrecciano e si ibridano piani semantici spesso antinomici che oppongono immagini di apertura e di riparo, di linee d’impluvio e di cavità subacquee, di tracce e di incisioni, e ancora di innesti e di uscite, di vie di fuga.
Di solchi e di direzioni arcaiche e arcuate, di assi curve si dice in questo misterico libro di Maria Allo, di piste entro cui dimora un’appartenenza dalla quale, ci avverte la voce poetica, non può darsi scampo, poiché “Non c’è rimedio alla curva/Dell’appartenenza”; di molteplici, di multiformi crepe e del pertinace radicamento nell’alveo non pacificato di quelle crepe; di aperture e lacerazioni, dalle quali tuttavia soltanto, sembra suggerire la seconda parte del titolo del libro, può darsi la sporgenza nella compiuta forma della parabola, nella sua duplice e coincidente accezione di traiettoria-parola che intercetta e adombra “Verità inattese”. È in figura di parabola, infatti, la sola traiettoria-tragitto tracciabile e percorribile per chi, non senza fatica e dolore (“Avanzare è anche soffrire”), assegni al vivere e al dire poetico direzioni equidistanti da uno stesso fuoco.
E il fuoco di questo continuum tra vita e poesia è, maestosamente, quello di un vulcano-padre che si erge solenne, possente e a proprio agio tra storia e mito, è ferita di fuoco nel cuore di un’isola-madre, “corpo immenso del perdono”, luogo di nascita e convintamente suolo d’elezione in cui “resiste nel suo calore un grande cuore”, isola crocevia essa stessa di storia e di mito nel cuore di un mare che tiene in ostaggio e che sembra non mostrarsi mai nella sua parte più profonda. L’Etna: ma insistentemente in minuscolo, nome comune innervato nel diuturno quotidiano: l’etna è il solco primigenio dal quale morte e vita hanno violenta e non sdipanata scaturigine, solco ancestrale che plasma, forgia a propria immagine prima della prima parola, “prima di respirare”, solco che intorno a sé traccia una sorta di spazio sospeso e assimilante, un limbo assorbente rispetto al quale ciò che resta “È gomitolo precipite di devastazione” che toglie nervo al transeunte e, soprattutto, sospende la luce e ogni altra voce sotto il peso del proprio fragore: “Con un pugno arcigno di silenzio”, “Non si ha più voce”.
E in effetti, come poter dire del groviglio di radici e “fessure nel deserto” di questi esseri–albero che siamo, di quello gnommero gaddiano di sovradeterminazione che l’occorrenza di termini come “gomitolo”, “grumi”, “ragnatele”, “tralci” “nodo”, mi riporta in mente, come poter dire il nostro essere “Memorie sommerse”, il nostro essere “carne e vuoto”, “soli e senza un grido”? Come, se si oscura alle spalle la “sola testimone”, la parola, e se “non c’è sintassi che traduca” ? Come dire la dissidenza, la dissonanza?
Occorrerà consegnarsi, restituirsi interi, “Senza afasie”, far di se stessi “segno senza ambiguità”, strapparsi dal volto “La maschera dell’ombra”, “Distillare l’essenza”, sorprendere Verità, dischiuderne il mistero alla nominazione.
Nella rarefazione della veglia/vigilia che impregna la poesia ininterrotta di questo poema franto, un tempo-Tempo si apre, si disallinea, scivola, piange colto nella sua nudità e “I nomi prendono forma dalla perdita o dal vuoto” : è una potente immagine, quella restituita da questo verso, che richiama gli studi dello psicanalista britannico Wilfred Bion, secondo il quale il pensiero nasce dalla frustrazione, dalla mancanza: nella riflessione bioniana, è l’assenza della cosa che diviene pensiero della cosa. Allo stesso modo, mi pare di poter affermare, nella percorrenza dolorosa e tensiva della propria curva spaziotempo, coincidenza di percorso lirico e vitale, la voce poetica penetra il vuoto dei Solchi e vi abita il silenzio, vi abita il fondo vitale del proprio radicamento: trae la linfa della “parola antica e nuova”, e spalancate le braccia compie la propria parabola. È un risveglio, ma è ben più di un risveglio di fede, è un’identificazione con essa: “Sii la fede che tiene un’idea”. È un’identificazione con la luce che veglia sulla memoria, ma non più nell’abbaglio accecante del giorno bensì con la coda dell’occhio, per visione laterale, periferica, quella dei recettori sensoriali attivati nella luce del crepuscolo mattutino, “nell’ora incerta/Che precorre il giorno” quando il Sole illumina per diffusione e riflessione. In questo Tempo nuovo, la tensione si attenua, come acutamente osservato da Anna Maria Curci in chiusura della sua puntuale Prefazione al volume, “ma resta irriducibile”. Lo scioglimento è delle braccia, finalmente spalancate, e nel canto, quasi senza più corpo né confine, e “Sarà un unico respiro atemporale/a farci adempimento e condivisione”: ma il nodo, il groviglio, non conosce distensione, gli gnommeri sembrano anzi ripiegarsi a formare strutture di superiore complessità, con la ricorrenza di versi e interi brani di poesie precedenti e riflettendo a ben guardare anche nella costruzione del testo una concezione curva e aperta, in-finita, del mondo e di questa poesia, con il suo procedere in assenza di segni di interpunzione e per a capo e maiuscolo, come nel tentativo di afferrare ogni volta tra pollice e indice il bandolo di un nuovo inizio, il prodigio sull’orlo del ricominciamento, alla vigilia della risurrezione: “La parabola si compie nei risvegli dentro ogni inizio”. (Patrizia Sardisco)
*
In sogno il vento ha grandi occhi di brina
Polvere che imprime alle carni
Il disordine del giorno
Dalla gola una voce straripa
Invade l’aria annebbiando
Il corpo immenso del perdono
Qui resiste nel suo calore un grande cuore
Ci detiene e tutti ci contiene
Attendo parole antiche
In questo luogo non c’è
Altro luogo in cui vorrei essere
Ecco come la notte prende il sopravvento
Su tante solitudini straniere
Forse un destino c’è per questo cielo
Vaga già nel buio tra gli ulivi
Sui volti disperati
Ma davanti alla violenza non si cede
Fuori piove
*
La ragione del sangue investirà veglie
Di solchi ancestrali che forgiano
Prima di respirare
Verità inattese di altri canti ai giorni
Di colori tra le ciglia
Cerchi di limbi assorbono ragioni
E ogni cosa che resta
In questi cieli sfioriti
È gomitolo precipite di devastazione
Si snervano innesti di stagione
Su passi cadenzati
Aperti a cenni come chiodi
Dietro i rintocchi
Non vi è luce
Anzi delirio affilato dal libeccio
Nel deserto ostinato che ci coglie
Non si ha più voce
Anche se l’etna si arrovella nel fragore
E la morte reclina
A immaginarci ancora vivi
*
Sii il freddo che smorza i desideri
Nella fioca luce di notti solitarie
Sii lo strappo che tiene in vita il ramo
Con le mani unite
Sii luce che veglia
La memoria della Terra alla vigilia
Della risurrezione
L’odore dell’alba scorre nel rumore dell’acqua
E rifrange cieli mai visti con la coda dell’occhio
È questo vuoto a farsi corona in un albero muto
Imbrigliato nel solco di un giorno
A un tratto crolla la terra senza fondamenta
Dimmi può la parola antica e nuova
Darci consistenza farci deserto e vuoto
Non trincea di anime ferite
Spalancare le braccia nel bianco della nebbia
[futuro passato presente]
Ma a crepitare è solo abisso dentro un abbandono
Di qui la luce percuote glicini a stormo
Su assolate foglie
Con molteplici suoni dissonanti
Legati alla vita e modellati dal mare
Di qui esplodono gerani in verticale
Non lasciano scampo alle tempeste
Alla ruvidezza del tuo sguardo
Che affiora a tratti e incide sul coraggio
Ridisegnare distanze su omissioni calcolate
Fino al margine della coscienza
*
Scivola Tempo dalle dita e dalle radici del vulcano
C’è un’altra luna
Spira leggero in bocca il vento
Bianco di nebbia
Anche la pietà valica l’attesa
In un rigagnolo del tempo
Mi chiedo come trattenere il respiro
Tra un mucchio di pietre e l’infinito
Le parole di sempre percorrono
La stessa strada desolata
I nomi prendono forma dalla perdita o dal vuoto
Adesso è notte il deserto aleggia
Ardente sulle guance
Fende i marosi e tutto spegne nell’abisso
La parabola si compie nei risvegli dentro ogni inizio
Che ci strappa dalle notti e riafferma il prodigio
Di chi sta per ricominciare
Un senso di cose reali scalpita in cerca della terra
Che non c’è
In bilico la luce sfoglia già la notte
I nostri punti di forza sprigionano
Dalle crepe sotto i piedi
Da Solchi. La parabola si compie nei risvegli, Prefazione a cura di Anna Maria Curci, L’arcolaio 2016 – FUORICOLLANA, Collana diretta da Fabio Michieli.
Maria Allo, laureata in Lettere Classiche, è insegnante, poetessa e traduttrice siciliana. Vive tra Parigi e Catania. Si occupa di Islamistica e di Nuove professioni educative. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni antologiche e quattro sillogi di poesia: I sentieri della speranza, Gabrieli Editore 1985; Riflessi di rugiada. Cose sparse di me, Gruppo Albatros 2011; Al dio dei ritorni, Galassia Arte 2014; Solchi. La parabola si compie nei risvegli, Editore L’Arcolaio 2016, La terra che rimane Edizioni di poesia Controluna 2018 e Talenti di donna, Onirica edizioni 2013, come curatore.
Patrizia Sardisco è nata a Monreale dove tuttora vive. Laureata in Psicologia, specializzata in Didattica Speciale, lavora in un liceo di Palermo. Scrive in lingua italiana e in dialetto siciliano, sue liriche e alcuni racconti brevi compaiono in antologie, riviste e blog letterari. Vincitrice e finalista in diversi concorsi a carattere nazionale, nel 2016 ha pubblicato, per i tipi di Plumelia, la silloge in dialetto Crivu, vincitrice del Premio Internazionale “Città di Marineo” e menzionata al Premio “Di Liegro” di Roma. Nel 2018 si è aggiudicata il Premio “Montano” nella sezione “Una prosa breve”. Nello stesso anno, per le Edizioni Confine, ha dato alle stampe la sua prima pubblicazione in lingua italiana, eu-nuca, con prefazione a cura di Anna Maria Curci, finalista al Premio “Bologna in lettere” 2019.
Similar Posts:
- Gabriele Gabbia – L’arresto
- Anna Maria Curci – Nei giorni per versi, nota di Rita Pacilio
- Agustín García Calvo – Sonetti teologici
- Luca Pizzolitto – Il tempo fertile della solitudine, nota di Fabio Prestifilippo
- Alberta Tummolo – Come pagina bianca, nota di Carmine Chiodo
- Maria Pia Quintavalla – Quinta vez
- Luca Bresciani – Linea di galleggiamento, nota di Claudia Mirrione
- After BIL 2021: Anita Piscazzi
- Gabriella Musetti – Un buon uso della vita
- su Hairesis di Francesco Marotta
Grazie di cuore a Patrizia Sardisco che ha avuto la bontà e la pazienza di leggere Solchi per intero, con la sua consueta generosità e acume. Sono molto grata a Giacomo Cerrai per la gentile accoglienza.
Una lettura ricca di suggestioni, illuminante, profonda, quella proposta da Patrizia Sardisco. La poesia di Maria Allo ha una potenza sua propria, è luce che si infiltra tra le fenditure della lava, respiro che anela infinito, pur “imbrigliato nel solco di un giorno” , “parola antica e nuova”, l’unica capace di darci consistenza e, nel medesimo tempo, “farci deserto e vuoto”, come lo scabro paesaggio sui fianchi del vulcano, che è vita e morte, richiamo di essenzialità