Francesco Tripaldi – L’individuo superfluo – Ronzani Ed., 2022
Francesco Tripaldi – L’individuo superfluo – Ronzani Ed., 2022
Rita Pacilio – QUASI MADRE – peQuod edizioni, 2022
Questa silloge di Rita Pacilio proietta nuova luce sulla continuità poetica che le appartiene, e lo fa con impronte similari a una precedente: Gli imperfetti sono gente bizzarra. Come quella si presenta con un titolo singolare che apre le sue pagine a contenuti in direzione degli affetti, ad amori altri con i quali conviviamo a fianco nel corso della nostra esistenza e che ne plasmano la consistenza.
Si tratta di quegli affetti prossimi che stringono nel sangue, ai quali torniamo con i loro significati nei momenti di vuoto, quando in soccorso ci arriva la memoria liquida a occupare lo spazio libero che si è formato. In questo caso leggo un filo di continuità transumante che viaggia da fratello a madre e la lucida sensibilità del qui e ora a cui Rita ci ha abituato con i suoi testi artistici. La silloge appare come consapevole visione di quello che il dolore porta via e sottrae alla serenità, tinto di una rassegnazione che sbiadisce, diviene cognizione del percorso esistenziale assegnato e riguarda l’altro da noi.
Come rilevato da Piero Marelli nella postfazione, ciò avviene con una poesia calma in cui lo smarrimento denunciato viene presentato con delicatezza, mai con toni drammatici o risentiti, eppure fortemente cruenti in alcuni passi, capaci di parlare la lingua della profonda intimità che Rita immola, e che scuote il lettore. Continua a leggere
L’archivio del vecchio sito di Imperfetta Ellisse (2005 – 2018) è un mare talmente vasto che a volte conviene ripescare qualcosa di interessante, non sempre facile da trovare “per caso”. Come ad esempio questo post del 2018 dedicato ad Alfonsina Storni. Mi è tornata in mente leggendo Gabriella Musetti, che la cita in un libro di cui spero di potermi occupare più avanti.
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Chi è Alfonsina Storni? Può essere solo qualcuno che incontri per caso, in una biblioteca, come è successo a me. Una (per me) sconosciuta poetessa argentina, nata però nel Canton Ticino nel 1892, morta suicida a Buenos Aires nel 1938 perché ammalata di cancro, ragazza madre, donna sempre indipendente in quei non facili primi anni del Novecento. In realtà Alfonsina Storni è una figura centrale nella poesia latino americana non solo femminile, dove è in compagnia di nomi come Gabriela Mistral e Juana de Ibarbourou. E contemporaneamente è figura esemplare della lotta delle donne per la propria emancipazione, non solo nella chiusa e tradizionalista società argentina dell’epoca.
In quegli anni venti e trenta bonaerensi pieni di fermenti artistici (si pensi a Borges, a Victoria Ocampo, alla rivista Sur) Alfonsina Storni ebbe anche un notevole successo, soprattutto in virtù di uno stile diretto, forse anche un po’ datato e comunque lontano dal modernismo che si stava affermando, ma capace di trasmettere emozioni vive, e di tematiche che potremmo definire prefemministe e orgogliosamente libertarie, in cui hanno spazio rilevante amore e eros, connotati però da una visione di essi non subalterna, non viziata da una collocazione tradizionale e secondaria della donna, non segnata da lirismi o romanticismi superflui, ma densamente emozionale e insieme consapevole. Una poesia a testa alta, vissuta, che per diversi aspetti mi ricorda la poesia confessionale americana di Sexton e Plath, ma percorsa da un sentimento di orgogliosa solitudine, in cui gli uomini non entrano a loro piacimento ma di volta in volta vengono accolti o respinti senza rimpianti o deliqui. (continua a leggere)
Ospito con piacere una “impressione di lettura” di Sandra Palombo, amica fin dai primi anni 2000, poetessa presente sul blog in diverse occasioni (v. QUI), nata a Livorno ma elbana di Portoferraio da sempre, storica di formazione con particolare interesse per il periodo isolano di Napoleone Bonaparte.
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Impressioni di lettura: Katia Sassoni – Canzoni sotto la cattedra.
Una soffusa malinconia è base musicale sulla quale risaltano poesie alla ricerca di sé, tra introspezione e vissuto, in Canzoni sotto la cattedra di Katia Sassoni edito da Giuliano Ladolfi editore, 2022.
Una malinconia che non stucca, sottofondo di versi che cantano la storia di ogni donna nelle stagioni della vita.
Come non riconoscersi nello sguardo retrospettivo di Che cosa resterà di noi?
John Taylor – Transizioni – Ed. Lyriks, 2021
John Taylor ci presenta ancora un libro notevole (nella traduzione di Marco Morello, con brevi note di Tommaso Di Dio e Franca Mancinelli, e illustrazioni di Alekos Fassianos), con il quale continua il suo personale percorso di decantazione di una scrittura già raffinata ed essenziale, come quella che era stato possibile leggere nel suo Oblò / Portholes (v. QUI), raccolta che possiamo considerare in qualche misura affine a questa ultima. Libri legati al mare, all’orizzonte, ad una visione quasi atomica delle cose, allo scorrere del tempo e in egual misura al suo cristallizzarsi in momenti che non sono tanto occasionali epifanie quanto l’umano avvertire nel mondo, come nella parusia platonica, la presenza di qualcosa di intensamente spirituale che evolve. Come scrive Franca Mancinelli “il suo sguardo [di Taylor] è richiamato dall’istante in cui le cose non sono più se stesse e insieme non sono ancora altro: è l’incanto del trasmutare, delle molteplici transizioni attraverso cui il giorno diviene notte, il buio si fa luce e la vita si avvera nel suo miracolo: «l’acqua […] sale / dalla scura terra». Ciò che avviene in questa sospensione può appena sfiorare la parola per poi subito rientrare nel non dicibile. Per questo i versi sono spesso brevi, come se Taylor tentasse di sillabare una lingua sconosciuta che coincide con il ritmo che avvicina e allontana le onde dalla riva”. Come ho già scritto John è uno scrittore europeo a pieno titolo, per stile, per ascendenti letterari, per cultura, e sarebbe possibile trovare nei suoi versi echi dei moltissimi poeti che ha tradotto e fatto conoscere in America, non solo francesi ma anche italiani come Alfredo de Palchi e Lorenzo Calogero. Qui ci trovo certamente Valéry, citato in esergo, ma anche un Mallarmé che va verso la luce, che abbia trovato sì una sua chiarità post-ermetica ma che continui a captare (ed è lo statuto del poeta) i segreti legami tra le cose, con quella visione quasi atomica a cui accennavo all’inizio. E tuttavia, come afferma Tommaso Di Dio, “non vi è qui nulla di misterioso che non sia evidente, nulla di occulto che non sia sotto gli occhi di tutti. L’estrema concentrazione formale di questa poesia porta alla rivelazione mediante contrazioni rapidissime, fulminei abbagli, iridescenze; la vertigine dei tempi e la tautologia dei deittici si fa pura materia espressiva: «questo mare quel mare / è fu / diventerà». Non posso che essere d’accordo, il poeta in realtà non inventa nulla, semmai immagina e riscrive la realtà che c’è, la interpreta facendo della poesia uno strumento ermeneutico. E la forma breve, per quanto poi allungata nelle due sezioni che sono quasi poemetti, serve a depurare ulteriormente, verso per verso, il lirismo che si accompagnava alle sue opere precedenti, nella direzione di una sublimazione che da una parte è quasi orientale, in testi dove non è infrequente trovare porzioni che potrebbero essere tanka (”lo scintillio / nell’aria / sull’acqua / così uniforme / così avvolto dalla luce nebbiosa // il mare qualcos’altro / in quest’ora senza vento…”), dall’altra ci rimanda a Quasimodo, Ungaretti, Saba. Su tutto aleggia il movimento incessante dell’acqua, delle onde, degli elementi, della memoria, come una vitale vibrazione cosmica. (g. cerrai) Continua a leggere
Davide Cortese – Zebù bambino, Terra d’ulivi ed., 2021 – Nota di lettura di Matteo Galluzzo
“Zebù bambino”, questo il titolo dell’ultimo libro di Davide Cortese, poeta siciliano originario dell’isola di Lipari. Un titolo che fin da subito rende esplicito, nell’assonanza irriverente con il più ortodosso e pacificato Gesù bambino, il tono di questa breve ma intensa raccolta composta da 21 liriche che filano veloci come filastrocche ma in cui si intrecciano tematiche molto più articolate e profonde di quanto possa sembrare ad una prima e superficiale lettura.
Quello del Zebù bambino di Davide Cortese è uno sguardo che ci interroga e a cui non possiamo sottrarci. È un confronto serrato con noi stessi, fin dalla poesia iniziale che serve da guida e da dichiarazione: “Due miei volti si specchiano/nelle ginocchia sbucciate/del demone bambino.”
Dualità e contrasto sono i poli tra cui si muove la poesia, anche dal punto di vista linguistico. E il contrasto tra la semplicità del linguaggio che rimanda, anche ritmicamente, alla leggerezza della filastrocca e l’abominio della descrizione, genera lo spiazzamento del lettore, il suo straniamento.
Franz Kafka in un passaggio di una lettera indirizzata a Oscar Pollack si domanda “Se un libro non ci sveglia con un pugno in testa, perché mai lo leggiamo?”, per poi aggiungere che “un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”. Queste affermazioni sottintendono il fatto che un libro può agire sul mondo solo nel punto di incontro tra scrittura e lettura; è nella lettura, infatti, che si avverano le promesse del testo scritto.
Così questa raccolta poetica, proprio nella sua apparente semplicità, e attraverso la frizione tra forma e contenuto, forza il lettore a interrogarsi sul senso della propria lettura.Lo spinge cioè a riconsiderare il proprio posizionamento nei confronti del testo e del mondo, suscitando una riflessione più ampia sul senso e sulle difficoltà dell’agire umano, soprattutto nei suoi cedimenti al male. Il testo chiama in causa, suscitandola, l’individualità del lettore, portandolo a rispecchiare su se stesso le colpe del diavolo bambino e a sentirsene in qualche modo responsabile: “A chi aspramente lo rimprovera/per qualche suo scherzo atroce/“L’ho imparato dagli uomini”/ogni santa volta dice.” Per contro, la caduta della responsabilità, il suo rinnegamento, genera quell’abominio di cui il piccolo Zebù si fa esecutore. Continua a leggere