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Il varco nel muro – una nota su Afa epifanica dello steccato di Marina Pizzi

Marina Pizzi - Afa epifanica dello steccato

Pubblico qui l’articolo che appare sul n.4/2020 della rivista Menabò di prossima uscita, con il quale credo davvero di avere esaurito il mio  lavoro su Marina Pizzi, autrice di cui mi sono occupato svariate volte nel corso del tempo (v. QUI e QUI). La nota riguarda il suo ultimo libro, Afa epifanica dello steccato – Terra d’ulivi ed., 2019.

Il varco nel muro

Conosco Marina Pizzi da un bel po’ di tempo, in tanti suoi libri, tanto da coltivare alcune convinzioni. Ad esempio, mi ero persuaso che l’acquisizione da parte sua di una voce e uno stile duraturi nel tempo fosse anche una sua maniera, un modo per radicarsi nel mondo con almeno qualche certezza. Ma con lei mica puoi sapere. Così, quando ero arrivato alla constatazione di stare contemplando una specie di monolite kubrikiano della poesia italiana, ecco che lei se ne esce con un libro che, sì, ripropone certi suoi stilemi, una sua ancora accanita propensione a mettere in mora le parole, discreditarle e riaccreditarle, a decontestualizzarle piantandole come menhir smemorati in mezzo al verso o facendole slittare di senso, a strapazzare la sintassi, tendere all’oscurità del dettato; ma qui, in questo ultimo libro, trovo anche una discontinuità, una specie di varco nel muro, la possibilità di gettare uno sguardo su uno spazio privato che per molto tempo era rimasto nascosto, non tanto o non solo perché custodito da un naturale riserbo, ma perché sommerso in profondità abissali della psiche, di un dolore dell’anima e un horror vitae su cui si scagliava il linguaggio duro e puntuto di Marina. Avvisaglie certo ce n’erano già state, ad esempio in Segnacoli di mendicità (CFR, 2014), ma anche, per indizi palesi, altrove. Tanto che qui non solo si evidenziano esplicitazioni del privato  (“Ebbi un amore giovanile / Più giovane di me di sette anni”; “…Mia madre se ne andò / Con le preghiere in gola nel mormorio / Dei gatti nel cortile”), ma anche, come quasi richiede la materia, affioramenti di una liricità di assoluto livello, magari anche solo per pochi ma illuminanti versi (“In un registro di crisantemi t’amo / Vetusta andata della giovinezza”; “Aureole di baci ultimi sonnambuli / Nature fossili i tramonti”). Certo il nucleo centrale è ancora quello di una dolorante esistenza, nel quale i vuoti vengono colmati (o si tenta di colmarli) con un iperlinguaggio la cui principale caratteristica sono gli accostamenti radicali e apparentamente insensati, con una iperdescrizione di porzioni di realtà la cui esuberanza è direttamente proporzionale alla consapevole impossibilità di raggiungere una qualche pacificazione. In questo senso il linguaggio di Marina è una medicina amara ma irrinunciabile – e perciò il lavoro di Pizzi è potenzialmente infinito, proliferante, come ho scritto altrove – un inevitabile pharmakon, insieme cioè un curativo e un veleno (esattamente come, nel Fedro platoniano, è per Socrate il testo scritto). Lo è anche, ovviamente, per il lettore, al quale è richiesto di mettere in discussione quella parte di ordinarietà da cui è affetto il linguaggio di ciascuno e di accingersi ad una lettura non passiva, per quanto seduttivo possa essere il mero abbandonarsi anche al solo impulso sonoro che questa poesia, dove sspuntano metri classici, irradia. Insomma, come scrivevo in altra occasione, “la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E’ una specie di viaggio esoterico, di riconquista di codici”. Da questo punto di vista forse quest’ultimo libro, in qualche misura e nei limiti del possibile, è più “leggero”, anche per le ragioni suddette. Ma è indubbio che certi punti oscuri, che spesso assomigliano a quelli della poesia  della Rosselli che reputo essere uno degli “antenati” di Pizzi, certe immagini perturbanti come un quadro di Max Ernst (non mancano tratti surrealisti in lei) debbano essere assimilati e accolti, come pure certi termini feticcio come “gerundio” (“gerundio di fallacia il mio tramonto”), che rimanda direttamente a qualcosa di indefinito, ad un processo o un sentire sempre relazionato ad “altro” o singolari metafore (“gheriglio amanuense il mio ceervello / vellutato dal soffio di amore”). Insomma il consiglio che mi sento di dare è cercare sempre, nel testo, di individuare un nucleo,  una associazione per quanto astratta, una metafora in genere più concettuale o cognitiva che meramente retorica o analogica. E’ lì che tutto si svela. (g. cerrai)
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A proposito di Elia, una nota su Elia Malagò

Elia malagò, secolo donna 2019Torno a parlare di Elia Malagò, che conosco da un decennio (v. QUI), nell’occasione dell’uscita di un libro a cui ho collaborato. Si tratta di Secolo donna 2019 – Almanacco di poesia italiana, giunto alla sua terza edizione (le prime due erano dedicate a Giovanna Sicari e Paola Malavasi), a cura di Bonifacio Vincenzi (edizioni Macabor, 2019, pagg.318).  Secondo la formula di questa pubblicazione il volume è un collettaneo che presenta nella prima sezione il poeta a cui è dedicato, quest’anno appunto Elia Malagò, con “testimonianze critiche” di Anna Maria Farabbi, Giacomo Cerrai, Renzo Franzini, Luigi Manzi, Mario Artioli, Francesco Bartoli, Antonio Prete, nonché una cospicua antologia poetica dell’autrice. Le successive sezioni riguardano un ricordo di Margherita Guidacci, con uno scritto di Mario Luzi; tre piccole antologie poetiche (nord, centro, sud) di autrici italiane contemporanee conosciute o meno, con note critiche di vari autori; una ulteriore antologia, con note critiche, di autrici nate negli anni novanta; una sezione dedicata a tre poete scomparse (Bener, Maleti, Occhipinti); chiude una presentazione di testi di autrici straniere (QUI la quarta di copertina).

Pubblico qui di seguito il mio articolo, con una piccola selezione di testi tratti dallo stesso volume.

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Anna Maria Curci – Nei giorni per versi, nota di Rita Pacilio

Nei giorni per versi di Anna Maria Curci – Arcipelago Itaca Edizioni, 2019anna maria curci - nei giorni per versi

Le quartine in endecasillabo di Nei giorni per versi di Anna Maria Curci tracciano una mappa poetica che indaga meticolosamente la parola per aprire strade al lettore – oserei dire, voragini – nella conoscenza e nell’inconoscibile. Ciò accade sapientemente sfrondando le interpretazioni dei segni superflui che oscurerebbero la direzione verso la verifica dell’animo umano e si compie con estrema lucida sintesi per afferrarne la sostanza. Figlia adulta della Poesia, l’autrice, mette le mani nella sua coscienza pensante (nell’introduzione ci parla di un percorso intimo, un diario dal 2013 al 2019), in un lasso temporale in cui l’illuminazione del senso riconosce alla memoria la verità fragile degli accadimenti esistenziali (… mutevole com’ero e come sono). Il ritmo metrico delle centosettantatré poesie diventa l’espressione limpida di ogni cosa a cui viene assegnato un posto agibile, un nome alternativo, uno sguardo garbato, un luogo di esecuzione devoto all’arrivo e alla partenza dell’esistente: Un file sbagliato annesso ad un messaggio/mi porta indietro all’epoca glaciale./Indietro o avanti? Mentre righe scrollo/m’avvedo: pozza immota è quello spazio. Il segreto delle parole forgiano la struttura linguistica custodendo l’ideale del reale e i fondamenti invisibili. Le chiuse sono tuoni che risuonano la necessità di una condizione umana non riscattata (… la bottega di sogni a cielo aperto), una dimora esistenziale mai definitiva (… saprai che la tua casa non è il mondo), il rovesciamento feroce e universale di un’attesa (… è l’allarme perpetuo e ignorato). (rita pacilio)

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Francesca Marica – Concordanze e approssimazioni

Francesca Marica - Concordanze e approssimazioni - Il Leggio Libreria Editrice, 2019Francesca Marica – Concordanze e approssimazioni – Il Leggio Libreria Editrice, 2019

Concordanze e approssimazioni. Qualcosa è sovrapponibile, qualcosa ci si avvicina. Sembra una buona definizione, tra le migliaia, della poesia (e del lettore, inevitabilmente). Poesia, che è forma di descrizione, ma anche di reticenza, o una manifestazione alta del silenzio, di ciò che comunque si vuole che rimanga segreto, dicendo qualcosa che ci si approssima. Da questo punto di vista, che è un punto di vista poetico, ho trovato questo libro di Francesca delicatamente equilibrato. Perché in realtà non vi è in esso niente che dissimuli, non dissimula ad esempio un costante elemento tragico, che non ha niente a che fare con un troppo diffuso piagnisteo esistenziale, ma che riguarda una diuturna elaborazione di elementi dolorosi, siano essi direttamente vissuti oppure frutto di una consapevolezza o una capacità di percezione dell’esposizione della vita – anche in certi dettagli o “minute acrobazie”, ci torneremo – al dolore; non dissimula, di questa percezione, né i vuoti, la parte di nulla incolmabile, né i silenzi, quando il poeta non può che sopperire con le parole di cui dispone, riempiendoli in qualche modo (“riparo lo spazio con la calma della parola”, scrive) o dilatarli; non dissimula l’idea che l’elaborazione del lutto, anche metaforico, o dell’assenza, non può essere artisticamente feconda se la separi da quel quid anche “gioioso”, anche casuale o destinale che pertiene anch’esso alla vita e che ha bisogno di essere accolto con equivalente coraggio, magari “ridendo dei disordini del caso”; non dissimula lo sforzo che ci vuole, anzi il lavoro che si fa con quelle parole ma prima ancora con una “decisione” salomonica di accoglimento o rifiuto nei confronti dei motivi ispirativi che si hanno, e del pudore che se ne prova, un lavoro di cui nei testi c’è evidenza, l’evidenza di una scrittura abilmente “sottrattiva”; non dissimula la necessità, forse l’obbligo, di tenere a bada le emergenze liriche che talvolta la stessa dolorosa materia poetica spinge fuori e che rischiano di condurre al compianto o all’elegia. Approssimarsi significa soprattutto, in fondo, portarsi progressivamente ad una distanza che permette di mettere a fuoco senza abbacinarsi con l’inutile, e anche per la scrittura, come per l’occhio, è quasi una questione di fisica (per la distanza e altre cose qui pertinenti rimando volentieri a quanto scrissi anni fa su Poesia 2.0 – v. QUI ), cioè di una giusta prospettiva dello sguardo (un esempio: quel precipitare di molti testi in un corsivo, finale o interno, che mi pare fissi un punto focale, sia esso una domanda o una asserzione). Questa prospettiva finisce per affinare in maniera egregia un vecchio arnese, un fardello della tradizione poetica italiana, quella indeterminatezza del dettato che ha attraversato gran parte del Novecento tra crepuscolari, decadenti e oltre, quel tenersi sulle generali che in genere mi irrita quando tende a mordersi la coda. Come nota giustamente Marco Sonzogni nella prefazione (riferendosi a versi come “Cominciava veramente quando, / sempre più veloce, veniva il tempo / etc.”), “non importa alla fine dei conti e delle cicatrici, chi o cosa cominciava. Ma conta, è decisiva, la volontà di farsi trovare pronti anche quando le parole non dovessero più esserci”. Ha ragione, sì, a parte il tono eroico della cosa. Ma solo perché, nell’ordine di quella prospettiva che dicevo, poi le parole ci sono, tendono a catalizzarsi: dapprima, nello stesso testo, Francesca si aggancia ad elementi oggettuali/simbolici (film muti, gambe, periferia, porti sepolti [!], strade e soprattutto quel foglio bianco metaforico/metapoetico), insomma la realtà esiste, ci dice, vi siamo immersi, non stiamo parlando di sogni; e poi, come rialzando la testa (e quindi lo sguardo) aggiunge: “Serve un gesto di molta precisione / per aiutarsi a crescere ancora”; chiude il corsivo “focale”: ” Gettarsi a terra è appena l’inizio della parola pace“. Parola, si intenda bene, non altro, definizione concettuale non escamotage metapoetico. Del resto, rispondendo in calce al libro ad una domanda di Gabriela Fantato riguardo a questa “notevole presenza della concretezza”, Marica ci dice “spesso la mia poesia nasce da un’immagine, da un’intuizione, da un dettaglio. Ho bisogno di un elemento visivo e concreto da cui partire”. Dunque, a parte il meccanismo poietico comune a moltissimi, poi è l’elemento focalizzante che conta, la matrice del pensiero: “le associazioni che ne nascono e ne scaturiscono sono incontrollate e talvolta imprevedibili”, dice ancora Francesca (corsivo mio). Il che a pensarci bene assomiglia straordinariamente ad almeno due cosette fondamentali: alla riemergenza del ricordo (che però in Marica non è mera rammemorazione, ma – ancora – dettaglio da cui partire per approdare ad un altrove); e, contemporaneamente con la memoria (anche Bergson ce lo ricorda), alla marcatura del tempo (in questi versi molto presente, come nota ancora Fantato), del tempo vissuto, di quello che sfugge al vuoto, marcatura di cui il dettaglio (o magari una piccola epifania) è segno e significato, pietra di confine, elemento riassociativo, ricostitutivo – scrive Francesca – della “concordanza di tutti i brandelli”, ovvero di una presenza, di un essere nel mondo (Heidegger mi scuserà). Ricordo, tempo, esperienza, micromanifestazioni sono tutti soggetti/oggetti centripeti nella poesia di Francesca, ed elementi di forza. Forse è per questo che la sezione che mi è parsa forse (ma non troppo) più debole è la terza, Interstiziale fra elementi uguali o analoghi, nella quale il protagonista-tempo è il presente, un presente i cui segnali, ipotizzo, non sono per l’autrice ancora del tutto leggibili, comprensibili, collocati nell’io. Marica è ben consapevole di tutto questo e di altro, basta leggere le sue risposte alle domande postele da Fantato, a cui tutto sommato c’è poco da aggiungere. Come opera prima (chi lo direbbe?) non c’è davvero male. Aspettiamo il seguito con interesse. (g.cerrai)

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Elena Salibra – Dalla parte dei vivi

Elena Salibra – Dalla parte dei vivi, Poesie 2004-2014 – Manni 2019 (pag. 336, Euro 28.00)
Il libro di un decennio, tutta l’opera poetica di Elena Salibra, tutti i cinque libri pubblicati dall’anno di esordio (Vers.es, 2004), fino a quello della sua prematura scomparsa (Nordiche, 2014), passando per Sulla via di Genoard (2007), Il martirio di Ortigia (2010), La svista (2011), alcuni dei quali hanno vinto premi importanti. Allieva di Lanfranco Caretti e Cesare Garboli, studiosa di Gozzano, Pascoli, Carducci, Quasimodo nonché dell’amatissimo Attilio Bertolucci (ma di mille eco sono piene le sue poesie), Elena Salibra era docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Pisa, dove viveva con la famiglia fin dal 1972.

Difficile anche solo estrarre qualche testo esemplare da questa raccolta, perché sono tutti di alto livello e perché si rischia di dare un’idea fin troppo approssimativa dello sviluppo nel tempo, del suo trasformarsi anche in seguito agli accidenti della vita, e insieme della costante qualità della poesia di Salibra. Ma è certo (ce ne rendiamo conto leggendo il libro) che l’esordio, nel 2004, non fu affatto da “esordiente”, come nota Marco Santagata nella breve ma affettuosa prefazione. Non solo perché, su incoraggiamento di Cesare Garboli, alcuni testi poi confluiti in Vers.es erano già usciti nel 2001 su “Paragone”, ma soprattutto perché la pubblicazione in volume avvenne quando Salibra “aveva maturato la convinzione che la sua poesia da confessione privata si fosse trasformata in autonomo oggetto estetico” (Santagata). Lo sviluppo successivo della poesia di Salibra parte da lì, è denso e accelerato, compresso in quei dieci anni chiusi poi dalla malattia e dalla morte. Sviluppo che non è soltanto stilistico, con tratti che variano nel tempo anche in relazione (e non potrebbe essere diversamente) ai contenuti, e che possono essere riassunti in un iniziale e successivo ricorso ad una “poesia dell’occhio” (Mario Gerolamo Mossa, nella nota del curatore) in cui è importante e cospicua “la semantizzazione dello spazio poetico” con la punteggiatura rarefatta, gli spazi bianchi, le parentesi, la minuscolizzazione delle parole, i trattini, che vanno di pari passo con la terminologia tecnica e specialistica, il prestito linguistico, la citazione tratta dal vasto bagaglio culturale dell’autrice. Un approccio che è anche visivamente evidente alla lettura di almeno le prime tre raccolte. Ma lo sviluppo dell’opera è anche una parabola di vita, segnata dalla svolta drammatica della malattia ed evidente a partire da La svista, del 2011. Le questioni stilistiche, e in qualche modo la ricerca che le contrassegnava, perdono di consistenza, forse di importanza, di fronte ad una ben diversa “ricerca” di senso. Sembra una ovvietà, ma si tratta semmai di dare alla poesia, mai abbandonata fino all’ultimo, una nuova voce e forse una nuova responsabilità di un dire più privato e profondo, ma che non “confessa”, piuttosto elabora il tempo nella sua tragica finitezza, anche nelle “cosette” (Cosette ospedaliere è una sezione di Nordiche, ed è impossibile non richiamare, almeno nel titolo, Amelia Rosselli). Ora l’unico espediente “per l’occhio” è rimasto il “corsivo del ricordo”, come annota il curatore, al binomio vita e scrittura e al ‘doppio tavolo’ del critico e del poeta si sovrappone “l’opposizione-coincidenza tra malattia e poesia”, vi si innesta uno stretto rapporto dialogico tra ‘io’ e ‘tu’ che non è solo quello tipicamente ambiguo di tanta poesia novecentesca, ma soprattutto (ancora Mossa) quello tra “il razionalismo del tu e le trasfigurazioni proprie dell’ io”. L’ultima di Salibra è una “poesia per l’orecchio”, in cui agisce “non più e non solo il presente scarnificato, disilluso nel suo statuto di eternità dall’incombere di un futuro imprevedibile, ma il tentativo di inscrivere la propria esperienza nel divenire ciclico della memoria, l’accettazione del proprio destino nonostante l’approssimarsi della fine”. Nordiche rappresentano la fine di un viaggio, verso un Nord (la Svezia) che era non solo la speranza di una cura, forse di una salvezza, ma anche una metaforica terra dell’addio. (n. red. a cura di g. cerrai)

Segnalo, per il loro interesse, un ricordo di Massimo Bacigalupo degli scambi intercorsi con E.S. a proposito di traduzioni di W. Stevens ( QUI ); e il dossier dedicato a E.S. dalla rivista on line “Poesia e conoscenza”, fondata da D. Bisutti, nel n.1 ( QUI ), con estratti da Nordiche e scritti di M. Bacigalupo, M. Cucchi e F. Raimund.

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Sonia Lambertini – Perlamara

Sonia Lambertini - perlamaraSonia Lambertini – perlamara – Marco Saya Edizioni, 2019
La perla è bellezza generata dall’intrusione, è difesa e tentativo di espulsione dell’estraneo. E’, alla fine, inclusione in sé, accettazione a certe condizioni, come quella di ridurre l’estraneo a presenza incastonata. E’ su questo simbolo che Sonia Lambertini costruisce il suo libro. Che sia amarezza, anche, cioè un sentimento non risolutore ma che accompagna una memoria dolente, questo va da sé. E in genere è quella che va a finire nella poesia, più del dolore medesimo. Con l’esito, lo sappiamo, di elegia e compianto, roba rischiosissima da mettere in versi.
Ma sulla sua vicenda, su quel qualcosa che ha percosso il suo corpo, e che ignoro ma che è manifesto, Sonia costruisce una raccolta (breve e di testi brevi) di grande equilibrio e, direi, di una notevole raffinatezza. Se la leggerezza è un valore (non sempre lo è, lasciamo in pace Calvino), qui lo è alla maniera di quei tagli che sulle prime non si sentono, poi fanno male. Già dicendo questo mi rendo conto che forse si cede ad una impressione anch’essa emotiva e di difficile argomentazione. Meglio andare al sodo. Cominciando magari dalla considerazione, questa sì reale, che in questi testi la leggerezza e la brevità sono inversamente proporzionali al raggiungimento del senso, alla sua felice compiutezza. Non sono necessarie tante parole, a Sonia, come se tutta la complessità di quanto è passato fosse già decantata, anzi sublimata. Deve averci pensato parecchio a cosa e come scrivere. Deve aver lavorato parecchio a sottrarre. C’è nel dire questo anche un raffronto, una misura con quanto ho letto e scritto a proposito del suo precedente lavoro del 2016, Danzeranno gli insetti, stesso editore (v. QUI ), dove i testi avevano certo un diverso sviluppo, forse la necessità di più fiato, forse perché i temi (la morte, il distacco) erano più difficili da incastonare con quella capacità di dire multa paucis, qui brillante. Lì il confronto del resto era con una angoscia fondamentale perché riferita al destino di tutti, ma in qualche modo posticipata, rimandata ad un futuro certo e tuttavia inconoscibile, prefigurato da uno “scivolamento continuo nelle tenebre della nullificazione” (Mario Fresa). Qui non c’è prefigurazione di quanto avverrà, è già accaduto, la riflessione è sui segni del corpo, la poesia è eleborazione dell’evento, inteso come crisi e come avvertimento, e come tale va, diciamo così, risemantizzato nella sua concretezza, bisogna dargli le giuste parole. Non è strano, né contraddittorio, che queste siano poche, essenziali, legate da fili sottili a volte non subito annodabili ma che esistono, costituiscono elementi connettivi di quel senso. Sono tra questi, ad esempio, tutti i termini che rientrano nel campo semantico del corpo. Ma il corpo di cui parla Sonia, e le sono grato di questo, non è il corpo feticcio o il corpo vessillo di battaglia di una parte della poesia femminile, e soprattutto non è topos o topografia di sé stesso, e questo perché ogni sua parte nominata non è “cosa” ma, come ho accennato, “segno” e linguaggio, veicolo espressivo e relazione col mondo. Così bocca, lingua, ossa, ventre, nelle loro reiterazioni da un testo all’altro (e a questo proposito aggiungo che pur brevi queste poesie hanno bisogno, davvero, di essere lette in sequenza), ed anche altri “oggetti” simbolici che sul corpo si insediano, quasi organicamente, metamorfizzano in esso come buchi, becchi, ali, ed anche un cuore citato pochissimo ma per così dire “mediale”, cioè risimbolizzato come non solo anima non solo sangue; insomma per me, parlo di me lettore, sono segni assai indicativi, mi danno l’impressione di non essere impersonali, di non essere puro soma né sole parole, ma, diciamo, “punti di ascolto” (“c’è un buco a forma di peccato //un vuoto esilio, suono assoluto”), o di visione, come gli occhi, “sotto sale”, a “un centimetro di terra vuoto” (sì, c’è spesso questo vuoto, vuoto di memoria, vuoto da anossia ecc.). E poi, certo, altri simboli, quelli che rimandano agli uccelli, sopra accennati, un naso-becco per “setacciare le sementi / setacciare il mio embrione”, come un organo esplorativo (mi viene in mente l’airone di Porta) che rimanda a capacità conoscitive “naturali”, ma anche a un rapporto basico, quasi animale, col dolore, con la ferita. Con quel taglio, forse, più volte evocato: “tagliatemi le mani, la corolla // tagliate i ponti, la coda del serpente / le antenne pettinate della bella di notte”; “non ricordo nulla dei rammendi / dei miei ritagli, solo pause / ritmi irregolari…”; “nel campo dei fusti recisi, immaginaria // avvolgo piedi e punte di spalla, copro il capo / di lino bianco…”). Poi c’è altro, naturalmente, come la memoria, almeno un paio di volte assimilata ad un guscio d’uovo, forse qualcosa di fragile che si è rotto e che mostra un vuoto inquietante, forse proprio un elemento di realtà, come riprendersi vuota da un trauma o da un sonno chimico. Ma forse serve poco analizzare tutto questo, e altre cose che tralasciamo. Mi pare più interessante nella poesia di Lambertini apprezzare la disposizione di questi elementi, la loro organizzazione prosodica per intenderci, la loro informazione (il dato) e la loro suggestione/ connotazione, e un certo senso di sospensione, in qualche raro caso anche sintattica, che rappresenta bene la materia stessa, il tema “amaro” e irrisolto di questa raccolta. Nella quale, in riferimento a quanto afferma Elio Grasso in una introduzione che peraltro aiuta poco il lettore, non trovo affatto quella “controversia formale (che) viene risolta nella sua brevità, da leggersi come prima qualità della sperimentazione”. Al contrario, mi pare che a Sonia non debba essere accreditato, nemmeno come qualità, alcun sperimentalismo, se non quello della ricerca di uno stile del tutto personale che aderisca alla sua sentita verità. (g. cerrai)

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Maria Pia Quintavalla – Quinta vez

Appunti su Quinta vez di Maria Pia Quintavalla (*)maria pia quintavalla -quinta vez

«Tutta la materia è luce. E’ la luce che, quando termina di essere luce, diventa materia. Nel silenzio c’è tensione verso l’espressione, nella luce tensione verso l’opera […]. Perciò le montagne sono luce esaurita; così le correnti, l’aria, tu stesso» (Louis Kahn).

Leggo Quinta vez di Maria Pia Quintavalla e subito mi vengono in mente queste parole di uno dei più grandi architetti del Novecento. Perchè? Conosco Quintavalla da un po’, ho letto quasi tutto quello che ha scritto e a me sembra, in certe continuità che vi riscontro, che quella di Maria Pia sia una materia che non vuole arrendersi, è ancora luce, continua a bruciare, ma è vero anche che il materiale poetico, quello che nella scrittura viene a concretizzarsi, è talmente identitario che, anche senza scomodare inutili psicologie, sarebbe come rinunciare a sé stessi. Insomma tra luce e materia, tra la vita vissuta e immaginata e la scrittura la dialettica è costante e aperta, ma con un nocciolo irradiante che è la vicenda familiare. Perché in questo libro, vario e articolato anche come forme stilistiche ed espressive, tornano persone o personaggi che per tratti più o meno accentuati abbiamo già incontrato. Come soprattutto China, la figura materna immanente, una presenza di riferimento in libri come Cantare semplice del 1984, poi ancora in Il cantare del 1991, Le moradas del 1996, Albun feriale del 2005, China del 2010 e anche nel recente Vitae del 2017 (che però come stesura è successivo a questo), ma dovremmo parlare anche de I compianti, 2013, in cui vengono ricordati entrambi i genitori. Già questo elenco sembra rappresentare un tentativo di sfibrare la materia che di continuo si riforma, un tentativo di portare alle estreme conseguenze, anche con forme diverse, anche con voci e registri diversi, qualcosa che non si può rimuovere.
Parlando di China (Ed. Effigie 2010, v. QUI ) scrissi all’epoca “credo che questo libro, dedicato alla figura della madre scomparsa, assolutamente centrale nella sua esperienza poetica e di vita, chiuda in effetti una vicenda. E, per ragioni extra poetiche, è proprio quello che auguro a Maria Pia”. L’auspicio derivava dal percepire in quel libro una specie di ossessione, per quanto magnifica, che in qualche modo rischiava di manierare l’ars poetica dell’autrice, ma soprattutto un dolore non rimarginabile che mi rattristava. Ma mi sbagliavo, la materia non era esaurita e, se è vero che tutti gli scrittori in fondo sono autori di un solo libro, non è esaurita nemmeno ora. Tende semmai ad una sua metamorfosi, come qualcosa di vitale ed adattativo.
Se parlo di “presenze” in questo libro, soprattutto quella di China, è perché il dato meramente biografico e la concretezza tangibile di persone sono superati anche nel ricordo, in ciò che esso ha di puramente documentale, di registrazione sebbene modificata dal tempo e dalle emozioni. La presenza è trasfigurata, onirica o, come anche nella sezione che chiude il libro, Le sorelle, le persone si fanno personaggi, metafore, specchi, ma anche proiezione di un desiderio, di aspirazioni non conseguite. China è come un alter ego possibile, una figura mitica, una donna che infine si libera, seppure nell’immaginazione del poeta, ritornando nella sezione Quinta vez alla sua terra d’origine di Spagna; la sorella come antagonista, proprio in senso teatrale (e da qui forse la scelta della forma dialogica nella sezione finale del libro), ovvero come emblema di scelte esistenziali o di una visione dell’essere donna diverse – forse più libere forse meno “responsabilizzate” – da quelle dell’autrice; la figlia, costante pensiero sottotraccia nella poesia di Maria Pia, come realtà e simbolo insieme di difficoltà, conflitti generazionali, eredità non raccolte. C’è da aggiungere che la citata sezione Le sorelle descrive anche un conflitto interiore dell’autrice: tra essere da un lato madre/figlia (il campo emotivo/affettivo, interiore) e dall’altro militante (il campo sociale, esterno, politico) per intenderci, come due parti in commedia a volte laceranti. Se il dissidio finale è irrisolto è perché lo è, io credo, anche per Maria Pia (e lì forse c’è la materia per un ulteriore lavoro).
Libro quindi del doppio, triplo dolore, per la vita propria, per la morte della madre, una perdita che deve essere poeticamente “restaurata”, per le incomprensioni con la figlia. Un rapporto multiforme con donne, anche la sorella, che è rappresentazione della multiformità dei rapporti e della vita stessa. Libro in cui da un punto di vista drammaturgico la dinamica dei contrasti è assai efficace, a rappresentazione del contrasto, che è fondamentalmente di scelte e forse di destini, che ciascuno di noi vive nella vita. Non so se è poesia matrilineare o femminile, termini che sono stati usati ma che rischiano di creare “scatole” non necessarie; o una poesia ombelicale, come è stato scritto altrove. In realtà quello che c’è di ombelicale, qui, è la rottura (e la “riscrittura”) di quello stesso cordone, senza la quale in arte non c’è tensione, dramma, e soprattutto non c’è dominio dell’artista sull’ispirazione, per quanto questo termine possa essere poco categorico. Direi piuttosto (e non è la prima volta che mi capita a proposito di poesia di donne) poema epico o forse genealogia, una genealogia “ricreata” (come una realtà aumentata, ipervirtuale) in cui la linea per così dire filogenetica è tutta marcata sulle figure femminili (non c’è qui nessun padre, come poco c’è altrove, ma credo che sia una scelta non tanto “politica” o femminista o di rimozione quanto di irrilevanza nell’economia di questo racconto, solo qualche accenno come ne Le sorelle: ”Tu rappresentavi il permesso che mio padre ha sulla sua copia riuscita”). E ricordiamo che nella sezione che dà il titolo al libro, la protagonista, una China riapparsa nella terra d’origine, non si sposa e non fa figli, gode di una libertà che tuttavia – sia detto senza moralismi – è sterile, anche in senso metaforico, perchè interrompe la filogenesi, la Storia, e quindi crea un dilemma che forse è quello di molte donne, che tipo di missione dare alla propria vita (la storia, invece, ovvero la narrazione come in questo caso, è un anello, un loop finzionale, un sogno e una macchina del tempo creata ad arte). Se qualche commentatore ha richiamato Jung, l’archetipo della madre, il conflitto con essa che si rinnova nella maternità della figlia, e qualcun altro il Faust goethiano e la discesa alle madri, direi che è Orfeo, il poeta, colui che canta e con il suo canto cambia il mondo, il precursore di tutti i poeti, ad essere il più titolato di tutti ad essere chiamato in causa. Qui c’è sì una catabasi, ma non è proprio una descensio ad inferos, perché China, nella sezione Quinta vez, vive in effetti il suo “ritrovamento”, la sua libertà, magari il ristoro di pene passate, nel suo orfico paradiso pieno di luce in cui il poeta ha voluto porla. Forse per sempre. (g. cerrai)
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(*) rielaborazione di appunti per la presentazione di Quinta vez a Pisa il 7 giugno scorso.
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Anna Malfaiera – Poesie

Inanna malfaiera un periodo in cui, per diversi motivi, leggo parecchia poesia di donne, attuali, recenti e meno recenti, scopro Anna Malfaiera (Fabriano, 1926-1997). La trovo, trovo la sua poesia di “identità femminile”, per usare le sue parole, nella antologia di Biancamaria Frabotta Donne in poesia (Savelli, 1976), che ha ancora un notevole valore storico e documentale. E’ per questo che traggo proprio da lì questi testi della Malfaiera, che certamente saranno compresi anche in altre pubblicazioni, temo però introvabili tranne forse l’antologia postuma E intanto dire, Edimond 1999 (in effetti si può parlare anche per Malfaiera di poeta obliato, e già Giulia Niccolai la considerava “uno di quegli straordinariamente riusciti esempi di un fenomeno unico e isolato”). Poesie di cui mi colpisce la forza di rappresentazione, la carica comunicativa, il volume della voce, per la quale è necessario “prendere fiato”, come si legge in un verso. Tutte qualità che oggi potremmo definire performative, aggiungendo però che qui c’è uno spessore testuale, un “contenuto” di vita, una “domanda” anche politica che non sempre si incontra ai giorni nostri. Forse perché una “domanda” aspetta di essere di nuovo riformulata con forza.
Altri testi, notizie, dati, note critiche su Malfaiera QUI e QUI.
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Segnacoli di Marina – una nota su Marina Pizzi

marina pizzi

Un articolo su Marina Pizzi, apparso, salvo errori,  sul n. 3/2018 di “Versante ripido”, non ricordo se con diverso titolo (*). Lo ripropongo qui, con alcuni inediti tratti da “Feritoie ogivali (2017-2018)”, a sigillo di quanto ho già scritto sul lavoro di Marina almeno nell’ultimo decennio.

 

Segnacoli di Marina

Conosco la poesia di Marina Pizzi da un po’, almeno dal 2006, quando pubblicai una prima piccola nota sul blog “Imperfetta Ellisse”. Dovrei averne una certa dimestichezza, quindi. Ma con Marina non si può mai sapere. Perché, non ostante la sostanziale invarianza nel tempo della sua scrittura, come stile e come “forma” delle sue parole, c’è qualcosa nei suoi versi che ogni volta apostrofa il lettore, richiamandone l’attenzione. Credo però che sia qualcosa che interpella lei per prima, qualcosa di necessitante che non ha trovato riposo in tutti questi anni. Perché è potenzialmente incessante, un flusso che trova la sua prima evidenza nella numerazione seriale dei suoi testi, e poi una sistemazione con la pubblicazione su carta, in diversi libri, una sistemazione che tuttavia sospetto essere inquieta, in teoria suscettibile di essere rimessa in discussione. Il suo lavoro mi è sempre parso, forse a torto, un unico work in progress, con un nocciolo tematico duro che riguarda soprattutto la domanda di una ragione, o una giustificazione se volete, della vita e dei suoi accidenti, cioè del suo perché. Una questione tutt’altro che generica, credetemi, tanto vasta quanto sufficiente ad innescare quel flusso necessitato di cui si diceva. Sufficiente cioè a generare quella pressione che si scarica da ultimo sulla lingua, ma prima ancora, per usare una metafora, nel cranio e sui denti dell’autrice. Una pressione fortissima che ha bisogno di essere verbalizzata, ma che prima ha bisogno di essere selezionata, di essere filtrata tra quei denti serrati. L’angoscia di Marina è, in fondo, che per questo scopo non ci sia altro mezzo che le parole. Quali parole? Scelte come? E’ questo, secondo me, l’atto doloroso della scrittura di Pizzi, l’emergenza creativa che nasce magari da una semplice scheggia, un’assenza, una domanda d’amore.
Pizzi rientra a buon titolo nel novero degli autori “difficili”, come Amelia Rosselli (forse suo nume tutelare), come in parte Antonio Porta, come Marco Ceriani o l’enorme ma poco noto Augusto Blotto, o come altri, alcuni dei quali per un po’ della loro carriera hanno “sperimentato”, approdando poi ad altri lidi. Marina non è così, è invariante, come ho detto prima, non sperimenta. La pressione, raffreddandosi, non può che solidificare così, in queste forme. Nel tempo mi è parso di rilevare alcuni snodi, che soprattutto con la lingua/parafulmine hanno a che fare. Se è vero che per Marina non c’è altro mezzo che le parole, mi pare anche vero che in lei c’è una sostanziale e contemporanea sfiducia nel mezzo, nella intrinseca ordinarietà della lingua. Che pertanto deve essere sottoposta, nell’atto di poetare, non tanto ad una torsione, termine quanto mai abusato, ma ad una lacerazione, una disarticolazione nei suoi tessuti connettivi, per andare a vedere se al di sotto di essi c’è un’anima, un significato coerente. Significato di che? Di quella vita che a Pizzi appare pesante, e forse poco felicemente abitabile, ma anche di una morte che viene costantemente “contemplata”. La lingua a volte sembra esserne mero epifenomeno, di una realtà che è troppo sfuggente per essere amata o compresa o rispetto alla quale ci si sente inadeguati; o sembra essere il rumore di fondo, l’ “ambiente sonoro” (G. Lucini) di una lontanissima galassia. Da questo punto di vista in passato avevo scritto che “la poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore, la sua scrittura e’ ego-centrata e in quanto tale e’ pura rappresentazione del mondo (o della sua non riproducibilità) cosi’ come lo vede l’autrice” e che “da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E’ una specie di viaggio esoterico, di riconquista di codici”. Codici che riguardano soprattutto quello che chiamavo il particolare sistema metaforico (o metonimico) di Pizzi, nel quale non vige tanto l’accostamento, la (vero)simiglianza, quanto la distanza siderale, e dove non c’è niente da confrontare perché le cose si sustanziano alla sua sensibilità di poeta di ben altre qualità, sono letteralmente qualcos’altro, qualcosa più concettuale o cognitivo che meramente retorico (“mia madre è stata un piatto / da schianto sulla terra / una leccornia di vita”, Plettro di compieta, 2015; “Arazzo di comete fu la fine / Del rantolo finalmente alato / Lì giù mio padre che chiama ancora / E la madre che d’improvviso si fa / Poliglotta. Miracolo d’andarsene / Cortesi oltre il cimiteriale corso”, inedito). Un linguaggio, come si vede, in larga misura economico, perché veicola molto con poco, pur dissipando in quel poco molta energia, un linguaggio molto vicino alla “sorgente” del pensiero, ma anche ad una percezione quasi nervosa del dolore e della “privazione” (intendendo questo termine in senso ampio). Paradossalmente, tuttavia, quella lingua “limitata”, tanto da doverla in qualche modo riformare, diventa materiale plastico, elastico, anche col ricorso a metri non proprio canonici (per quanto spesso si affacci l’endecasillabo) ma senz’altro fonici, e anche con una certa liricità connaturata ai temi più intimi, quando emergono (“essere in vita è un criterio sperduto / un alunno senza lavagna né voce / di maestro”, Segnacoli di mendicità, 2014, ma gli esempi possono essere molteplici). In definitiva ciò che serve nell’affrontare la poesia di Pizzi non è tanto una cocciuta richiesta di senso, o di comunicazione immediata, quanto essere disposti a quello sforzo supplementare di cui parlavo. Leggere, rileggere, individuare i temi, che invece sono chiari. Farsi domande. Queste domande, alle quali una risposta forse arriverà forse no, sono il senso della lettura della poesia di Marina Pizzi. (g. cerrai)

(*) il titolo in rivista è “Non c’è altro mezzo che le parole”, pag. 30 del numero citato di “Versante ripido”.

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