
Valeria Rossella – Quello che vedo

Come giuria della sezione C (poesie inedite) di Bologna in Lettere 2021 abbiamo anche il compito di stendere le motivazioni dei premi (o delle segnalazioni, come in questo caso). Pubblico anche qui, insieme ai testi, quelle di cui sono autore. – 2 –
Anita Piscazzi – Lo scompenso delle immagini
Piscazzi sceglie l’elegia, in questi tre testi, la malinconia, il dolore di un nostos non necessariamente chiaro e definito, l’andamento un po’ stupefatto e un po’ errabondo di chi scopre un luogo della poesia in quel “niente in tasca” di cui parla nel primo brano, sapendo però che corrisponde non ad un nihil esistenziale, ad un vuoto, ma ad una assenza, un dolore, un’inquietudine indefinita, forse senza oggetti bersaglio denotati, ma non per questo meno “presente”, meno angustiante. L’indefinito, il generico, l’astratto fanno logicamente sponda al simbolico, ad una voce che sembra echeggiare in stanze ombreggiate, il tono è di primo acchito quasi pitico e non solo per un uso del perfetto che rimanda ad un mito, ad una storia o mistero personale o per un uso del verso libero a tratti predittivo. Ma anche per un lanciare segnali a chi legge, come a volerlo informare di un invisibile tutt’altro che privato, come ad esempio la convinzione che “il petto degli altri è un lupo”, che da certe catabasi della memoria si torna, ecco, con niente in tasca, a parte un po’ di rimpianti. Certo è comprensibile che in questa indagine di zone d’ombra, di angoli del sé in rapporto alla propria esperienza l’immagine sia appunto “scompensata”, smarginata – dice Piscazzi – come una riva senz’acqua, sia cioè un limitare privo di ciò che lo rende tale, ovvero privo di un colloquio tra elementi, e perciò stesso sia perturbante o crei uno “scontento inquieto”. La poesia sta allora (per citare l’autrice) nel segretamente abitare il proprio senso cieco e oscuro, ancor di più nel testimoniare (fare testamento) del passaggio di un Angelo di luce, sia essa la semplice luce nuova che l’inverno promette o quella sorgente “sulle ossa sparse nei mari / sulla morte della viola di marzo”. Un angelo, forse necessario, ci auguriamo, come quello di cui scriveva Wallace Stevens. (g. cerrai) Continua a leggere
Come giuria della sezione C (poesie inedite) di Bologna in Lettere 2021 abbiamo anche il compito di stendere le motivazioni dei premi (o delle segnalazioni, come in questo caso). Pubblico anche qui, insieme ai testi, quelle di cui sono autore. – 1 –
Erika De Felice – Lungomare, Zara
Quella di Erika De Felice è poesia colloquiale, in conversazione con un tu di riferimento (“hai mai pensato…”, “per ricomporsi sai…”) che è specchio ed assenza, o forse è – almeno poeticamente – un alter ego con cui rapportarsi. Il luogo, l’ora (22.45 dei giovedì dispersi) sono puri palcoscenici, come quando si rimugina guardando l’orizzonte seduti su un molo, la presenza fisica è marginale rispetto al lavorìo del pensiero, la verbalizzazione di questo pensiero è connotata da una frammentazione di quello che poeticamente si riesce e si vuole ricordare, registrare a futura lettura, che poi è in parte il meccanismo della memoria (tutta questa poesia è in fondo memoriale e perciò elegiaca), e quindi secondo una procedura (non tanto retorica o testuale, quanto magari psicologica) metonimica (una parte frazionaria per il tutto, ad es.: “Le tue spalle / e il mio peso del mondo / solo questo ricordo / questo solo di te”), di cui anche la scrittura, la forma sono specchio. Un procedimento che rende questa poesia decisamente affettiva e perciò stesso immediatamente – diciamo – agréable, nel suo poggiarsi in definitiva su un ventaglio di sentimenti di privazione e di solitudine che conosciamo, che sono umani e quindi a noi (terenziani lettori) non alieni. Ma il sentimento di inquieta aspettativa di qualcosa non destinato al ritorno, al recupero, al nuovo abbraccio, quel sentimento è definitivo, “come una notte che non risorge”, ci dice l’autrice. Questa mancanza di un’alba (o qualsiasi speranza) è agnostica e perciò conchiusa in sé, qualsiasi esperienza in fondo, per quanto ripetibile in poesia, avviene per consumazione della stessa come in un giorno anch’esso ripetibile, “quest’oggi [che] non è passato”, qualcosa a cui forse ci si abitua (“nulla mi ripugna di te / nemmeno la morte che scorre sottile / nemmeno questo pallido vento”) ma a cui in fondo non si vuole credere (“e dimmi, alla fine / è poi questa la fede?”). La poesia dà voce, come può, a questo dibattersi come all’interno di una Skinner box, una gabbia da esperimento, una condizione che ha un che di destinale, di ontologico, forse – come l’angoscia – non del tutto sensato quanto irriducibile. “Questa vita – corpo confuso / ci contiene per sbaglio”. Il resto del mondo appare precluso. (g. cerrai) Continua a leggere
Alberta Tummolo, Come pagina bianca, Poesie, RPlibri, San Giorgio del Sannio (BN), 2021
La poesia di Alberta Tummolo prima di ogni cosa nasce dall’ascolto e dall’incontro: incontrare e ascoltare altre vite, oltre la propria, e non mancano quelle dei giovani, dei ragazzi allievi della stessa poetessa, insegnante di Lettere a Colleferro (Roma).
Il titolo della raccolta è emblematico in quanto – e non faccio altro che ripetere un pensiero della stessa Tummolo che si legge nell’Introduzione – “pagina bianca” è “in fondo la vita“ e su questa pagina “rimangono i segni dei nostri tentativi di disegnare la nostra esistenza che si incontra con le esistenze degli altri”; per questo incontro con le vite altrui, notevole è l’ultima sezione della silloge che prende come titolo “Minuscoli dialoghi”, la prima e la seconda sezione sono: “Non è un vuoto“ e “Rifiuti”: qui c’è parecchio ascolto.
E’ su ”questa pagina bianca” che la Tummolo scrive la sua lucente, chiara, fluida poesia, priva di orpelli e sproloqui. Si ascolta la voce vibrante dell’io poetante che ci parla, ci comunica i vari contenuti della raccolta espressi con lingua diretta, efficace, di facile comprensione (ma di grande significato) che ben s’attaglia ai temi, alle situazioni svolte. Lingua e tematica molto originali, come pure il timbro e la fattura dei versi. Una poesia linda e che con estrema naturalezza e varietà timbrica ci presenta, per esempio, la condizione esistenziale, che ci dice, quando ci si trova nel “mare in tempesta” come fare per “tornare a prendere il largo”. Continua a leggere
L’uscita, avvenuta nell’aprile 2021, di Ragioni, a piene mani, per l’ “enfin!” di Augusto Blotto ([dia*foria / dreamBOOK, ISBN 9788899830519, pagg. 260, con interventi di Giacomo Cerrai, Philippe Di Meo, Chiara Serani, Stefano Agosti) tenta con la speranza di qualche successo non solo di ampliare la conoscenza di questo grande vecchio (Torino, 1933) della poesia italiana, ma anche di riaccendere l’attenzione su di un autore forse appartato ma certo non più adeguatamente analizzato, con rare eccezioni, dopo la giornata di studi a lui dedicata a Torino il 27 novembre 2009 (ora in Il clamoroso non incominciar neppure – Atti della giornata di studio in onore di Augusto Blotto (Ed. dell’Orso, 2010, con quattordici saggi di vari importanti autori).
Incominciamo col dire che questo volume non è una delle opere di Augusto Blotto, per il quale non vige affatto né il concetto di compiutezza “finita” né quello di un determinarsi conseguente e successivo del lavoro poetico né, forse, nemmeno quello ancora di tempo lineare, sebbene ogni suo libro abbia poi una sua precisa identità, una “aura che vi circola” come dice lui. È semmai una delle “emergenze”, degli affioramenti dell’inesausto lavorio blottiano. Blotto infatti è autore di un lavoro sterminato (circa ventisei opere a stampa e materiale per ipotetici almeno altri ventinove volumi), e anche questo libro è una sorta di carotaggio, una ricognizione campionaria per “estrazioni dai giacimenti” di quella che possiamo chiamare d’ora in avanti l’Opera, ovvero “l’enfin”, attualmente composto da oltre 2700 cartelle. Blotto, come scrisse uno dei suoi estimatori Giovanni Tesio, è un poeta “di sfide e dismisure”, un ricercatore indefesso che scava nel corpo immenso del linguaggio e della realtà che esso rappresenta, ne rivoluziona la sintassi, rivede senza patemi gli schemi metaforici, gli accostamenti di senso, le immagini che ne derivano, insomma un osservatore acribico del mondo che egli, grande camminatore, percorre come uno specialissimo flâneur ricevendone stimoli fluviali che l’autore organizza ed ha organizzato nel corso del suo lavoro in quello che Daniele Poletti nell’introduzione definisce un mastodontico iperoggetto letterario, uno spazio vasto che ricomprende tutti i paesaggi in cui Blotto ha fatto irruzione ridefinendoli in una nuova matrice. Ed è il linguaggio una delle maggiori peculiarità della sua poesia, una lingua non meramente strumentale né mimetica del caos del mondo, della sua incomprensibilità, ma intesa – tra le altre cose – come manifestazione del tempo (letterario ed esistenziale) quale “visione sincronica ed onnivora della realtà”, ove “il tempo è momento, o un luogo quasi topologico in cui precipitano le cose, gli oggetti, gli “accidenti” – nonché il linguaggio che li determina – e che ha una durata pari a quella del testo che li contiene, ma che non ha altra rappresentazione per così dire “lineare” o analogica, non fluisce, non ha nemmeno la figurazione di un prima e di un dopo attraverso la sintassi, la cui mobilità è segnale semmai che la realtà “avvenuta” è soggetta a una continua (finché il testo lo consente) revisione testimoniale”[1]. Ma “il linguaggio sembra avere per Blotto un peccato originale, una tabe, variamente connotata, in primis dalla rigidità del codice, con il quale tuttavia, in quanto materia, dobbiamo avere a che fare (non dimenticando che il linguaggio nella sua essenza è sempre “narrativo”, sequenziale, ordinatorio, e vive nel tempo che il testo si è dato, come abbiamo detto). E poi connotata da un comfort associativo, con cui la mente giunge a conclusioni “economiche”, in qualche caso anticipatorie, “usabili” e quindi in varia misura scontate”[2]. È l’ “ordine costituito del linguaggio” che viene da Blotto rivoluzionato, anche spessissimo sotto il profilo sintattico, cose che non impediscono però a Blotto di attingere vette anche liriche, anche umoristiche e sempre di altissimo valore descrittivo e iconico. Perché “l’atteggiamento di Blotto non è puramente contestatorio: la distruzione (la messa in crisi) dei meccanismi è in realtà la ricostruzione delle loro macerie sotto altra forma, con altri mezzi, è la proposta (peraltro un po’ imperiosa) di non lasciarsi intimorire dal sublime, nel senso di gettare uno sguardo su di una vastità impressionante, che riguarda, come un Caspar David Friedrich delle parole, quella delle possibilità del linguaggio”[3]. Blotto è poeta ricchissimo, non solo della cultura che dimostra e trasfonde nei suoi versi, ma anche di una infinità di dati informativi, sensoriali, eidetici, linguistici, oggettuali e ideativi che fornisce al lettore. Il quale, se può essere soggetto ad un “sentimento di instabilità, di non comfort (concetto tutt’altro che peregrino, basti pensare al barthesiano “piacere del testo”)”, è perché viene “condizionato” anche cognitivamente. “Condizionamento” (usiamo ancora le virgolette) che, nel suo caso, “non riguarda soltanto l’espressione di una sua realtà, ma anche come questa realtà debba essere riformulata, tramite il linguaggio, nel pensiero, anche di chi legge”[4]. Non è una semplice seduzione, è la più alta corresponsabilità del lettore. Una esperienza che possiamo definire assoluta. (g.cerrai) Continua a leggere
Non ci si entra subito, in questo libro, pur con i buoni auspici dell’autore, il quale in effetti spande generosamente una sua idea di poesia, ma soprattutto una sua idea di che cosa la poesia dovrebbe parlare. In breve: libro di invettive e riflessioni, con una cifra stilistica a volte esorbitante, come vedremo, in cui però non si entra subito perché la scrittura di Piccione non è e non vuole essere immediatamente decifrabile, aspirando ad una certa “oscurità” creativa del linguaggio, ad una certa sperimentazione verbale che però tende a “complicare”, sempre con volontà di sperimentare, una più o meno acquisita tradizione, riconosciuta e dichiarata dall’autore come serbatoio. “Un’opera in versi che trae le proprie influenze dalla poesia italiana degli anni Settanta e da un particolare vissuto personale, che tenta di rielaborare le esperienze della cultura beat, della cultura psichedelica e della cultura hobo” mi dice l’autore in un messaggio privato. Quindi, forse, un antico che tenta di ritornare nuovo, e qualcosa di insolito per un autore nato nel 1990. Influenze di temi, o renovatio di essi, gestione della “rabbia” giovanile o meno, contenuto che quasi inevitabilmente genera o richiama la forma e insieme ne è generato, una certa distopia (nel senso di una qualche discrasia tra l’attuale e il linguaggio che lo rappresenta, che lo pone per così dire fuori dal tempo)? No, non è tutto qui, naturalmente, seppure – comun denominatore di tutto il predetto – una scrittura generalmente magmatica, effusiva, richiami una notevole passione – abbastanza inusuale ormai in giovani di questa generazione – che cerca nella scrittura stessa un espressionismo d’impatto, un peso specifico da consegnare al lettore. Passione che a tratti sembra voluta, autoimposta, in qualche modo autodescritta, proprio mentre l’autore tenta di oggettivarla, chiamandosene antiliricamente fuori. E sì, anche se Piccione non me lo avesse scritto, c’è in molti di questi testi, anche linguisticamente, una specie di dito puntato verso una realtà che possiamo far finta di guardare criticamente da fuori ma di cui invece siamo – certo drammaticamente – intrisi. E questo è un fatto linguistico, come dicevo, molto più di quanto possa essere, oggi come oggi, politico, un recupero appunto di modalità espressive che è vero che trovavano la loro motivazione in un bisogno diciamo antagonista, ma che non sarebbe male recuperare applicandole però ad una realtà molto più complessa e “liquida” di quanto fosse allora. Se c’è qui qualcosa di post moderno in questo tipo di poesia (di Piccione e di altri) è un disincanto non aggressivo, una consapevolezza della fine di qualsiasi delle “grandi narrazioni” di cui parlava Lyotard (sostituite in poesia da due concetti fissi come “presente” e “frammentarietà”). Senza contare, qui come altrove nel panorama – ed è quasi ovvio -, l’espulsione dell’io/poeta, rarissimo in questo libro, quasi un mero elemento del paesaggio, un deittico che mi pare, quando c’è, corrisponda ad una autochiamata in correo, più che a una testimonianza. Non che la presenza dell’autore difetti, tutt’altro, diciamo che la presenza, qui, è piuttosto peso stilistico, scelta programmatica di tonalità e, come s’è visto, di numi tutelari. Queste scarne considerazioni però non ci sviino, noi o il lettore, dall’affermazione iniziale, l’essere cioè il libro interessante, di esserlo, in un certo senso, comunque, al di là cioè di certa (faccio un esempio) ansia che a volte trapela, di mettere in testo tutti gli ingredienti a disposizione. Ne consegue, a tratti, un certo barocchismo della parola (specie nelle poesie diciamo più “impegnate”, cioè con più “foga”): un surplus di significanti che da una parte conducono all’assemblaggio, all’accostamento enunciativo di termini in apparenza alieni (1) che (ipotesi) potrebbero aspirare lodevolmente alla creazione di metafore/metonimie/similitudini innovative, oppure (ipotesi) tentare sperimentalmente di fare un uso iconico/mimetico del linguaggio per designare il caos, il complesso, l’indicibile per quanto sia – per ossimoro – poeticamente descrivibile. Gli elementi ci sono quasi tutti, enumerazione, accumulazione, elenchi, innesti linguistici, associazioni, visione del mondo oggettuale onnivora, polimorfica, sinestetica, sguardo inquieto e quindi pluriprospettico e quindi non poche volte tagli del testo per frames, inquadrature, salti di luogo e di campo visivo, insomma cinematografia. Tutte cose non nuovissime, ma va bene così, perché al di là delle sue dichiarazioni Piccione una renovatio l’ha fatta, è riuscito a costruirsi un suo stile che certo ha bisogno a mio avviso di qualche aggiustamento ma che riesce a dominare alla fine la materia poetica di cui dispone, i temi che gli stanno a cuore. In altri termini è riuscito, direi rubando parole all’autore, ad esercitare spesso “la sorveglianza nel progettar confuso / del lasciare andare”. Del resto come si fa, trattando ad esempio de “L’acrobatismo incantevole del disastro” (come titola la prima sezione del libro), cioè quella specie di ballo sul Titanic che è l’attuale situazione del mondo, a non costruire testi che rassomiglino ad un ammasso di materiali, ad una discarica di scarti in cui l’uomo non è scarto da meno, e nei quali tuttavia vige un’estetica se non del brutto certo di un certo horror pleni che ci sovrasta. Voglio dire che è inevitabile (nel senso di un rapporto efficiente tra forma e contenuto) che questi testi siano tra le altre cose, quando funzionano al meglio, una sorta di “lista profetica dei significati”, per citare l’autore. Nella quale cioè non vale tanto la parola in sé, quanto la massa critica della sua evocazione complessiva, non il suo valore storico ma quello dinamico-predittivo, proprio in forza di alcuni di quegli accostamenti alieni di cui parlavo nei quali gli enunciati si danno energia a vicenda. Vale lo stesso, per forza di cose, se il tema è l’uomo scarto, l’uomo ambiente, l’uomo perdente all’interno di un ecosistema suicidario perché autoinflitto, non solo come abitante di una terra devastata ma anche come attore di rapporti spesso difficili (dove magari “l’altruismo è una sorta di narcisismo imperterrito, non illuderti”) o affetto da una “mancanza di comunitività” (così nel testo) o per il quale l’avvenire è una “stupida crisalide” cioè forse non destinato a compiersi per l’uomo che vive in un mondo che urla. Se da un certo punto di vista il gioco dell’autore è scoperto, se la sua fame nervosa di comprendere il tutto è evidente, è vero che alla fine la pressione dei significati e dell’ evocazione espressa è importante e bisogna tenerne conto al di là di piccoli o grandi dejà vu e di una qualche ricorsività indotta da uno stile, una tonalità, una voce che tende sempre e comunque a replicarsi, perché evidentemente l’autore ne è soddisfatto. Non occorre dire che cosa passa tra soddisfazione e sperimentazione, a lungo andare. Ma il libro è di sicuro interesse, con diversi testi anche molto belli, e sono curioso di vedere i futuri lavori di Piccione. (g. cerrai)
L’album di Elisa Donzelli (nottetempo 2021) fin dalle prime pagine ci riporta all’infanzia, a quei raccoglitori di scuola, in cui tutti provavano a fare gli artisti, tra pittura e collage vari. In parte, la raccolta di componimenti in questione si riappropria di questi ricordi, momenti pieni di luce e colore che portano nella sezione introduttiva all’opera il titolo Esercizi di disegno, come nella poesia omonima. In queste prime liriche che aprono la raccolta, le linee e le forme che Donzelli traccia sul foglio compongono una sorta di paesaggio a se stante rispetto al resto dell’album; qui ad esempio la poetessa traspone simbolicamente il jardin en mouvement in parti del corpo femminile che cambiano nel corso degli anni. Le liriche successive vengono suddivise in quattro sezioni più una sorta di appendice chiamata Aprendo la notizia; nel complesso l’autrice pare seguire una doppia linea tematica e cioè da una parte tratteggia profili di donne che appartengono al suo ed anche al nostro passato in quanto figure storicamente, politicamente rilevanti e dall’altra descrive con grazia e delicatezza un profilo della nostra penisola che appare profondamente dissestato, dolorante e in divenire. Così appare per esempio in viaggio di nozze dove un safari in Africa diviene occasione di scoperta che mediante il viaggio si apre ad una verità ben più drammatica: «Questo nostro continente / in lotta per i diritti di un solo / mare che da sempre io studio / amo, così antico istruito non sa / sporgersi farsi ombra, / qualche volta morire». Continua a leggere
Anamorfiche di Danilo Mandolini
Nota di lettura di Claudia Mirrione
Danilo Mandolini (Osimo, AN, 1965) è noto nel mondo della poesia contemporanea italiana sia per il suo lavoro di editore sia per aver affiancato al suo lavoro editoriale quello di autore di produzione letteraria in prosa e in versi, apparsa su antologie, riviste, blog letterari e per cui ha ottenuto diversi riconoscimenti e premi letterari italiani. Anamorfiche, di cui parliamo in questa breve nota di lettura, è la sua ultima opera letteraria, uscita per i tipi di Arcipelago Itaca nel 2018.
Anamorfiche a tutta prima appare come un libello proteiforme. Ha, infatti, come tema la realtà, che proteiforme, in effetti, è e lo stesso titolo allude, come leggiamo in una nota posta al termine della raccolta, «alla tecnica denominata “anamorfosi” che nelle arti figurative è la rappresentazione di una scena in deformazione prospettica; questo per far sì che la visione corretta della stessa scena possa avvenire solo da un punto di osservazione diverso da quello frontale». Di conseguenza, come sostiene l’autore nella suddetta nota, l’uso del termine Anamorfiche è da motivare con la convinzione che la realtà e gli eventi di cui essa consta abbiano infinite interpretazioni, infinite sfaccettature, infinite prospettive. Tale varietas, che ci sembra la cifra che meglio identifica l’intera opera, è sia tematica che compositiva e permea entrambe le parti di cui si compone l’opera. Dopo il preambolo, Altrove, abbiamo infatti due macro-sezioni: Psichedelie dei rumori, delle voci, dei suoni e dei silenzi e Altre psichedelie, le quali sono anche corredate da un itinerario fotografico costituito da nove immagini che rappresentano sprazzi di realtà urbane in costruzione, scampoli di street art, manifesti pubblicitari, interlocutorie scene di quotidiano in b/n.
Da un punto di vista tematico, Mandolini si muove tra due versanti estremamente diversi ma complementari in quanto, se da un lato sviluppa riflessioni filosofiche e concettuali sui fondamenti senza tempo dell’esistere, d’altro canto rimandi alla storia più recente ed attuale si intrecciano a tali riflessioni, si fanno spazio e guadagnano così ampi margini tra i componimenti. Continua a leggere