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Enrico De Lea – Cacciavento

Enrico De Lea – CacciaventoAnterem Edizioni/Cierregrafica, 2024Enrico De Lea – Cacciavento – Anterem Edizioni/Cierregrafica, 2024

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Enrico De Lea torna a casa, da dove realmente non è mai partito, ancora una volta. Lo so, l’ho già detto, lo conosco da un po’, ne ho già parlato in diversa circostanze (v. QUI e di più QUI), cercando di intravedere alcune costanti e delle fondamenta, specie in ciò che riguarda quelle che genericamente possiamo chiamare le sue radici, poetiche e mitopoietiche. Perciò ritornandoci sopra c’è sempre il rischio di ripetersi o peggio ancora di rimaneggiare quanto dato per acquisito. Ma comunque tornare bisogna perché già il titolo, che come vedremo è voce dialettale, ci indica luoghi, memorie, tempi, impressioni di una precisa koiné. In un certo senso Enrico, come alcuni altri, è autore di un solo libro, non tanto nel senso in cui lo diceva Thomas Mann (un unico libro per cui, alla fine, un autore viene ricordato) quanto nel fatto che vi è nella sua produzione un tema centrale, con qualche corollario, imprescindibile come una forza gravitazionale che emana dalla sua Sicilia. Riepiloghiamo in breve di che si tratta:

la radice identitaria: certo la cosa più significativa, con gli inevitabili (e giusti) corollari della distanza, del là e allora vs. il qui e ora nonché della scala di valori che ne deriva (cos’è il meglio nella vita del poeta e di ciascuno, cos’è buono, cos’è “vero”).
il conflitto, direi inoltre, che ne deriva: nel senso dello scontro di direttrici a cui ti sottopone la vita (il paese vs. la città, lo sradicamento – non necessariamente tragico -, il lavoro e la vacanza – il temporaneo ritorno – ecc.) , conflitto che inevitabilmente si concretizza in un nostos irrisolto ma certo creativamente fecondo. C’è come corollario un discorso che concerne un sentimento di dislocazione e, ancora, la domanda (retorica) di dove, tra questi due poli, risieda la salvezza, dove sia casa.
la trasposizione del conflitto in termini linguistici: ovvero la distanza tra la lingua “speciale”, del lavoro, del quotidiano (che non appare ma c’è) e quella poetica e creativa, che diventa nel tempo, affinandosi, un vero elemento identitario, quasi un personaggio con le sue icastiche connotazioni dialettali (qui, non a caso, non c’è niente di “urbano”, non può esserci). Una “lingua salvata” (S. Aglieco) che forse a sua volta salva.
il tempo “diverso”: l’idea, forse vera forse anch’essa legata al personale mito di De Lea, che il tempo abbia una diversa connotazione nel luogo del ritorno e del desiderio, che abbia più valore, che duri di più, che consumi meno, che sia più “ricostituente”. E che sia, quel tempo, l’unico legittimo scrigno delle memorie, delle perdite, degli affetti, del manifestarsi fenomenologico della natura.

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Note a margine: Chiara Serani ovvero Dā mihi sellulam, ubi cōnsistam

Chiara Serani - Dialoghi della sedia, Anterem Edizioni 2023Note a margine: Chiara Serani ovvero Dā mihi sellulam, ubi cōnsistam

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A distanza di alcuni giorni dalla presentazione fatta con l’autrice a Livorno (6 giugno, presso la Galleria d’Arte Extra Factory, a cura de Le cicale operose), e un po’ col senno di poi, vorrei mettere insieme qualche osservazione, forse esposta in quella occasione, forse no, sui Dialoghi della sedia di Chiara Serani, Premio Lorenzo Montano 2022 (Anterem Edizioni/Cierre Grafica, 2023). Lo dico subito, un lavoro particolare, potente, che richiede innanzitutto di mettere da parte distinzioni di genere, dicotomie letterarie e roba simile. È un’opera di poesia perché non è scritta in versi ma della poesia ha tutto il bagaglio metaforico, polisemico e quella ricerca sulla lingua che la narrativa ha abbandonato da tempo.

Di certo la prima cosa che salta all’occhio è la struttura di questo lavoro. Che forse non è poesia, forse non è prosa, forse non è teatro, per quanto ci assomigli parecchio. È quest’ultima una caratteristica, anzi direi un aspetto, che molti commentatori hanno tenuto a sottolineare. Ma parlare di aspetto, per parte mia, non è un caso. Direi che è l’approccio, lato lettore, più confortante. Vediamo perché, partendo dalla base organizzativa di questa opera. Diviso in sezioni (12) di varia lunghezza e brevissimi interludi (5), il lavoro è composto di quadri nella stragrande maggioranza dei quali agisce un io narrante e agente, collocato in uno spazio vago e tuttavia materiale. Lì – ci si immagina al centro – è collocata una sedia: “Sono seduta su una sedia. Sono nuda”, “Sono seduta su una sedia, la mia. Indosso…”, “Sono seduta su una sedia, la loro. Disposti tutto intorno…”, e così via. Facile per chi legge farsi un’idea “teatrale” della faccenda, qualcosa di performabile su una scena. Altri commentatori si sono soffermati su questa forma teatralizzante del testo, e leggendo viene quasi naturale immaginare un beckettiano palco vuoto, con al centro una sedia, con quadri a tratti illuminati in cui la protagonista è davvero, ipotizziamo, nuda. Un Living Theatre, ma anche, diciamo, Grotowsky. Ma io credo che si tratti di un artificio, proprio nel senso etimologico del termine, una mise en scène di una mise en scène, un contenitore di contenuti che può essere inscenato e non essere mai uguale a sé stesso, come le tre sedie di J. Kosuth ogni volta che vengono esposte. Inoltre, i frammenti testuali o annotazioni o citazioni che accompagnano le “scene” come pensieri apparentemente peregrini o avulsi dal contesto (ma che invece sono radicalmente culturali) creano una crasi della voce narrante, una specie di sospensione temporale e appunto scenica, rimandando peraltro a un dialogo ipotetico, a una voce “altra” di cui non si sa nulla ma che è “possibile” e presente. Continua a leggere