La chicane, ci dice il Vocabolario Treccani, è “una curva o serie di curve successive che vengono introdotte in un tratto rettilineo di una pista, per diminuire la velocità dei concorrenti”, ma anche un cavillo giudiziario, una difficoltà piazzata a bella posta in un percorso processuale, quindi un inciampo nell’ordine normato delle cose. In entrambi i casi devi rallentare, pensarci un po’ sopra, decidere qualcosa che non sia del tutto disastroso. In fondo, secondo Daniela Marcheschi nella quarta di questo libro, è proprio quello che succede a “un io mai autoreferenziale [che] privilegia lo sguardo orientato verso il quotidiano”, un quotidiano domestico, personale, frammentario in cui il passato e l’oggi, l’attuale, sono equamente divisi ma senza andare – sia indietro che avanti – troppo lontano, poiché le storie, la storia, la Storia sono tutte glocali, cioè situate in un orizzonte che è insieme contemporaneo, con tutti gli epifenomeni che si porta dietro, e locale e senza sbocchi, come la strada a fondo chiuso che l’autore o il suo alter ego poetico hanno abitato per sessant’anni (L.I.F.O. – Last in first out, pag.15). Posando lo sguardo su di esse è facile – e comunque necessario – rallentare, indugiando. Del resto, cos’è che vede Beghè, di che cosa parla in questo libro? Be’, lo abbiamo detto, si tratta di una porzione raggiungibile della realtà, e per giunta raggiungibile rapidamente, nel senso che – al di là di quanto compete alla memoria – tutto quello che questo sguardo raccoglie è sostanzialmente immoto, a portata di mano e alla portata di quel tempo che basta per una osservazione diciamo così “sul campo”, naturalistica e – sia detto sine iniuria – superficiale. Questa porzione, non tanto esperienziale ma direi oggettuale, è costituita da “piccoli episodi del tirare avanti” (Fanta e Lady Diana, pag. 71), eventi minimali, ricordi non memorabili, scene colte in giro per strada, nei quartieri o nei centri commerciali, “visioni” un po’ bizzarre che arrivano inopinate, magari guardando le posate “nel cassetto della cucina componibile” (Visure, pag. 49) o là dove “l’ambientazione appare comune e contemporanea” (Strati, pag.28). Direi che queste chicanes, questi rallentamenti non nascondono “decisioni”, come dicevo prima, né drammi, non comportano epifanie speciali né critiche politiche ma forse solo constatazioni, ed è comprensibile che a un materiale poetico di questo genere corrispondano, nella forma, “ritmi pacati pronti a sfociare con naturalezza in quelli più distesi della prosa” (ancora Marcheschi, e forse in prosa le cose migliori, anche in termini di scrittura, nella loro compiutezza scenica) e qualche ingenuità (“l’alta tensione che corre / sul pentagramma elettrico dei cavi” – Enfisema, pag. 23; “la panchina, corpo di legno / e metallo, è una bestia calma, / un’abitudine a bordo strada,/ se l’accarezzi sul dorso fa le fusa” – Bestia calma, pag. 27; “Non lascio che il temporale di oggi / infradici la miccia, quella dei sogni, intendo” – Miccia, pag. 32; “manca il battaglio alla campana / verde del vetro” – L’altra campana, pag. 64).
Beghè sa bene di porsi proprio “dove deraglia la catena di una minima storia” (L’ultima mosca dell’autunno, pag. 44) ma senza nessuna particolare irrequietezza, ironia o contraddizione postmoderna, un non luogo in cui cerca, non troppo convintamente, “un varco nel muro del sistema” (ma sistema, diciamolo, è una parola impegnativa). Varco che a volte lascia intravedere qualcosa (ad esempio quando l’autore fa qualche raro accenno al sociale, come le “morti bianche” in Lavoro a mano armata, pag. 18 – e però lo fa seguire da un’istantanea scattata all’Ikea, E relativo relax, pag. 19; ma anche il lavoro di educazione degli adulti e degli immigrati, l’interessante Legge regionale n. 14, pag. 72); più spesso, come se quel varco restituisse una specie di horror vacui, una insostenibile complessità del “sistema”, Beghè ripiega su qualcosa di più confortevole, come è quasi sempre la memoria, o l’osservazione non giudicante e irrelata, quasi da flâneur, di una realtà quotidiana immodificabile. (g. cerrai)