Antonio Bux – Sasso, carta e forbici – Avagliano Editore, 2018
Ogni tanto, per fortuna, capita di leggere qualcosa che vale la pena. In questo caso un libro dal titolo curioso, che rimanda alla morra cinese, a mosse che sono azioni lasciate all’alea, a conseguenze che in questa alea possono essere di riuscita o sconfitta, di guadagno o perdita, ma che appartengono non solo al destino, ad una Ananke inconoscibile, ma anche ad un arbitrio tutto umano, ad una scelta di fatto irreversibile. E forse possiamo assumere con qualche certezza che questa morra voglia essere una metafora della vita in cui si gioca.
Le tre mosse sono le sezioni che compongono questo libro corposo (circa 190 pagine), ambizioso, articolato, costruito con un disegno preciso e con un evidente lavoro di cucitura (“una fine costruzione architettonica”, dice in una nota Alfredo Rienzi), e che dà l’aria di essere un traguardo, se non proprio una autobiografia, o se vogliamo una autoantologia di cose ancora non scritte. Insomma qualcosa di importante per l’autore, forse più di quanto normalmente lo sia una propria opera (e questa non è la sua prima). E’ inevitabile pensarlo perché la materia in gioco, l’ispirazione, o la necessità se volete è in primis quella di ripercorrere molte tappe della propria esistenza, una specie di risistemazione della memoria, una acquisizione agli atti non solo di evidenze del vissuto ma anche del loro senso, della loro rilevanza per così dire unica e universale insieme. E’ anche un ritorno a casa, ma privo di un nostos drammatico o elegiaco o lamentevole, perché privo di eroi (c’è semmai un uomo “normale” e poco egotico, e con uno sguardo orientato anche altrove, ad altri lidi, anche culturali) e privo di agnizioni (non si tratta di riconoscere, semmai di “riconnettere”) e forse, alla fine, è più un passaggio che un ritorno. Una visita nel tempo, una chiamata in causa di ricordi e anche di anime, una evocazione complessiva con qualcosa di apotropaico dentro. Non è un caso che tutto inizi con un testo, Quasi genesi, che contiene una insistita allusione ad “altri” (“Ed io non so chi siate, quando dormo / e sogno di poter baciare anch’io / come voi il sogno di essere umani. / Non so chi siate ma siete qui dentro, / come me contate distanze / e occhi di altri esseri attraversare / i nostri corpi quando passiamo”). Chiunque essi siano questi (ma preferisco pensare, forse errando, a qualcosa di ancestrale) è necessario allora pagare un tributo, ai morti forse, a chi c’era prima, a chi c’è stato. Lavorare con la memoria è sempre aprire una porta, rivangare una storia, come suol dirsi, ed è un dialogo aperto perché “i morti fanno finta di morire”. Ed è sempre sottoporsi anche qui, ce lo dicono i cognitivisti, ad un che di aleatorio, ad un dato “fluido” che si riorganizza costantemente. Continua a leggere