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Carlo Gregorio Bellivia – da “bacon, fast food”, inediti

F. Bacon - Selfportrait, 1956Cinque testi di Carlo Gregorio Bellinvia, tratti da un progetto dal titolo bacon, fast food, composto – almeno nella versione che ho avuto modo di leggere in anteprima – da 42 “stanze”. Diciamo subito che il bacon che nel titolo sembra presentarsi come probabile ingrediente di un Big Mac è in realtà Francis Bacon, uno dei più rappresentativi, discussi e geniali artisti del Novecento. È su di lui, sui suoi quadri, sulla sua potenza iconica che Bellinvia costruisce il suo libro. Anzi forse sarebbe meglio dire intorno a lui, o a partire dalle suggestioni che genera. D’altra parte, il “fast food” del secondo termine del titolo, non è ironico né vuole essere dissacrante, secondo me, nei confronti dell’artista. Mi pare di intravedere semmai una carica critica, qualcosa che, nel momento stesso che in qualche modo “consuma” l’oggetto artistico, denuncia la sua consunzione che avviene non appena si rinuncia (ma non certo l’autore) alla comprensione – dall’altra parte, nel quadro, sulla parete – del soggetto. Preciso che qui “comprensione” va inteso in senso certo etimologico, ma soprattutto dinamico, forgiativo, come assimilazione di elementi creativi che in varia misura Bellinvia sente corrispondere, anche linguisticamente, alla propria poetica. È questo lo sforzo che l’autore ritiene di dover compiere nel momento in cui entra nel quadro, non rinunciando tuttavia a tener presente quel che di carnale e feroce, di avido e disperato che sta tanto in quel “fast food” (cosa c’è di più feroce di un hamburger?) quanto nella pittura di Bacon.
Ho parlato di linguaggio perché, mi pare, i caratteri qui accennati proprio in quel linguaggio si riversano, rimbombano. Le parole sono pesanti, la lingua ricercata in funzione della sua forza percussiva, non ellittica, non mimetica, non omissiva, la scelta dei termini nutre ed è nutrita, galvanizza ed è galvanizzata dal dialogo con l’opera pittorica, dal fascino sub-limen della metamorfosi dei materiali di cui Bacon era maestro.
Ecfrasi, potremmo supporre? Direi di no, o almeno non ridurrei il lavoro a questo, per quanto i precedenti siano illustri (v. ad esempio QUI): direi di no perché non descrive ma “rilegge”, interpreta, forse psicanalizza anche un po’; no perché non ci sono caratteri tipici ecfrastici, cioè descrittivi in primis, deittici o altro; no perché riscrive una “storia” (la raccolta segue una selezionata cronologia delle opere) e quindi riabilita una biografia, una sequenza temporale di eventi che Bacon aveva voluto congelare per sempre in quadri, elaborando anche un lutto; no perché non vi si riconosce un “atteggiamento” per così dire tecnico, parafrastico o semplicemente visivo/eidetico, quanto piuttosto la volontà di fare di Bacon (degli eventi che B. dipinge) una metafora poeticamente utile (e forse utilizzabile), un campione esemplare di artista tra ragione e pulsione, tra desiderio e morte, tra contemplazione del nulla e azione. Ma ne riparleremo alla sperabile uscita del libro. (g.c.)

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