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Edoardo Olmi – Poesie

Ho sentito Edoardo Olmi  leggere in occasione del reading “NO WAR – HUG PEACE” qui a Pisa, per il World Festival poetry del 21 giugno scorso. Gli ho chiesto di mandarmi qualche testo, avevo trovato dell’interesse nella sua poesia. Qualcosa di indefinibile al momento, perché la lettura da parte dell’autore, va detto, non sempre aiuta, e questo vale anche per Edoardo.

Insomma, eccole qua: la poesia letta in quell’occasione, un’altra inedita e altre tratte dalla raccolta R:exist-stance  (Ensemble edizioni), per la quale ha avuto dei riconoscimenti. Leggendo e rileggendo, quindi, occorre trarne qualche osservazione, non necessariamente o non solo critica, o anche forse qualcosa riguardo a una fenomenologia di molta poesia attuale. Che è, volente o nolente, innanzitutto di confine, ma non uno culturale o geografico che ci regali “un homme de deux pays” come direbbe uno dei miei francesi preferiti. No, è il confine metaforico che sta tra stanziale e nomade (parlo sempre di poesia), tra parola scritta, e cioè in qualche modo definitiva, e parola detta, o che comunque come tale è sentita anche dall’autore, con tutta una sua fluidità, insomma una poesia che sembra destinata alla voce. Mentre l’orizzonte culturale, invece, è sostanzialmente stabile, legato per lo più ad un quotidiano “esemplare”. Confine che poi – tornandoci sopra – è vago, comunque attraversabile, interscambiabile a piacere, da un punto di vista stilistico, almeno nei punti in cui si affaccia il narrativo, l’allusione del parlato, il gergale, il flash quasi cronachistico, il rimando pop e, soprattutto, il sound urbano che sembra diventato un tratto generazionale, l’ipostasi di una relazione col mondo. Che mi pare sia, in Olmi e in altri, quella del tentativo di ricomposizione del senso per schegge e frammenti, senso che ha una sua sintassi che deve essere mimata e sovrapposta, un calco per strati ed eccezioni, per esemplari mineralologici e reperti viventi, per luoghi dove è possibile scrivere – forse con qualche angoscia ma fregandosene della Storia – I was here. In un tempo che “ha la durata che gli dai”, in relazione alla esperienza che lo connota. Un tentativo non passivo, che cioè non subisce del tutto le schegge ma opera una selezione, non descrittiva di cose ma di sensazioni, o espressioni se volete. In questa selezione l’interessante è la ricombinazione degli accostamenti, degli attributi, delle connotazioni visive, i salti di luogo e forse di tempo, uno sguardo sulle cose e sugli eventi – sempre comunque non troppo lontani – a spot. Il che non vuol dire che quelle cose (compresi oggetti anch’essi in qualche modo “esemplari”) e quegli eventi siano di per sé memorabili, ma che semplicemente sono coaguli o tangenti, punti in cui la pelle o l’interesse dell’autore sono stati toccati, e insieme ragioni necessarie e sufficienti a poetare. Possono anche sembrare una serie di momenti, elencati e denominati, che però non è detto che identifichino una linearità del tempo/narrazione, quanto una specie di presente congelato in cui viceversa come in certi film l’autore si muove a velocità accelerata. Lo stesso, mi pare, vale per il linguaggio che mostra qualche ingenuità, spesso apparente perché è impeto, freschezza, fiducia non intellettualistica nella parola, cioè una parola che vuole apparire più veloce nell’essere scritta che nell’essere pensata, e quindi più “vera” o, spingendo un po’ sull’acceleratore, più “bruta”. Naturalmente questa “spontaneità” è del tutto voluta, il che sarebbe un ossimoro, se non facesse parte del gioco creativo, nonché dell’adesione a moduli collaudati della poesia contemporanea (ma anche un po’ beat, almeno per il ritmo), ad una rivendicazione (giusta) di revisione di cosa sia o non sia poetabile della propria esperienza. Insomma è questo gioco di contrasti, di sbalzi, di piccoli glitch semantici, collegati tutti ad una visione disillusa ma comunque critica della realtà ad essere interessante in questi lavori di Olmi.  (g. cerrai)

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