Alessandro Silva Ferrari / Federico Galeotti – L’arte di allacciarsi le scarpe – Pietre Vive Ed., 2022
Ho già parlato in questo spazio del lavoro poetico di Alessandro Silva in due occasioni su cui torneremo più avanti perché in diverso modo sono utili per capire qualcosa dell’autore. Ma intanto diciamo di questa ultima fatica, equamente condivisa con l’artista Federico Galeotti, disegnatore e illustratore autore di diversi libri nei quali la poesia e i poeti (Baudelaire, Poe, Blake) sono stata affrontati graficamente. In questo caso sono i versi di Silva a fare da contrappunto testuale alle tavole di Galeotti, in uno scambio di significati reciproco.
Il libro prende spunto dall’evento catastrofico avvenuto nel 2011 in Giappone, a Fukushima, dove la centrale nucleare venne severamente danneggiata da uno tsunami scatenato da un terremoto, compromettendo l’ambiente e la vita delle popolazioni con gli elementi radioattivi liberati dall’incidente, e causando decine di migliaia di morti. Un fatto di cui ancora ci ricordiamo e che tuttora ha effetti a livello planetario.
Non è un tema da poco, se lo si vuole affrontare con un mezzo “fragile” come la poesia, per quanto efficacemente sostenuto dalle immagini. Tuttavia Silva non è nuovo a impegni del genere, cioè a una poesia che sia insieme “civile” e drammaturgica, lirica e a suo modo cinematografica, con una storia individuale e tuttavia collettiva e con un suo epos. È un tipo di sfida che lo affascina, poiché nel 2016, sempre per Pietre Vive, aveva messo mano, tentando – come dicevo allora – di farne un poema (come adesso), alla vicenda tragica e ancora irrisolta dell’Ilva di Taranto, nel libro L’adatto vocabolario di ogni specie (v. QUI). Sfida già impegnativa per il fatto che si trattava di un’opera prima. Anche lì c’erano tavole di corredo, opera di Giovanni Munari, a supporto di una storia, di un racconto di vicende dolorose, di protagonisti in varia misura vittime di un disastro ambientale. Anche questo libro mi pare risponda a un’attitudine di Silva, che è in fondo quella di un’attenzione acuta e un po’ dolente verso “il mondo, quindi, come un catalogo permanente”, come cita l’esergo di Edoardo Sanguineti (presente qui, mi pare, anche con altre ispirazioni); ma le similitudini mi sembrano finire qui, per ragioni che è utile sottolineare. In questo ultimo libro, intanto, Silva fa una precisa scelta di linguaggio, o addirittura di riposizionamento rispetto alle precedenti scelte stilistiche. Nel Vocabolario la linea era quella descrittivo-lirica, in tono narrativo, con accenti di critica sociopolitica filtrati dalla saltuaria apparizione di un io compartecipe, un io personaggio che ogni tanto dava dolente voce alle vittime come un corifeo, le scene erano nette, discorsive, i fatti avevano una loro evidenza poetica come episodi esemplari.
Silva sceglie di scrivere una sua Terra desolata, di giorni quasi uguali a sé stessi di persone normali, di piccoli eventi, di vita ordinaria di gente che prende l’autobus, di simboli del quotidiano come delle semplici scarpe o un gatto che attraversano tutte le scene, mentre qualcosa là fuori sta succedendo. E sceglie di scriverla con un linguaggio altro e distante dalla sua prima prova, ma anche da altre sue cose più personali, più intime o più liriche (v. QUI), una lingua poetica dal piglio sperimentale di una certa efficacia e di non poca inventiva lessicale, ma che porta con sé e trasmette un senso di oscura allusione, d’indeterminatezza, di chiusura ermetica riguardo a ciò di cui sta parlando. Tanto che se avessimo il solo testo forse non emergerebbe agevolmente il tema, l’occasione, il luogo, la denuncia se non con la sinergia con le tavole di Galeotti (che, sia detto per inciso e forse i meno giovani lo riconosceranno, in certi modi e tratti mi ricorda lo splendido Eternauta di Oesterheld e Solano Lopez), che tanto più funziona quando il verso, ma non sempre, diventa lettering del disegno, cioè si innesta in esso, nella sua rappresentazione. E questo va bene, se si considera – come giusto che sia – questo libro non tanto una graphic novel atipica (e men che mai un manga come ha detto qualcuno) quanto un’opera visiva mista – come certe opere d’arte in cui concorrono al risultato materiali di diversa natura e consistenza, magari asincroni ma funzionali – con il testo che assume una funzione più tipicamente soggettiva (anche in senso cinematografico) e non necessariamente narrativa (quindi “interna” o interiore); mentre la grafica si accolla la funzione diegetica, di racconto, scenica, o di uno storyboard possibile, e di raccordo con un immaginario visivo (quindi “esterna”). Sono due codici che mirano alla descrizione di due entropie parallele, una diciamo privata l’altra pubblica. Tuttavia questa dicotomia tra testo, che evita qualsiasi didascalismo nei confronti dell’immagine, e l’immagine stessa che ricrea la cronaca per spezzoni, alla fine nell’architettura complessiva dell’opera funziona bene, facendone, al di là della cronaca stessa, qualcosa di emblematico del rapporto tra l’uomo, specie l’individuo, e l’ambiente, nel quale la natura incontrollabile trova nei guasti prodotti dall’uomo un moltiplicatore. E la scrittura di Silva, nel suo cupo andamento spesso tanto simbolico quanto a tratti surreale (specie nella formazione di certe immagini) o dichiaratamente onirico restituisce al lettore la sua angoscia, una densa atmosfera che sembra presagire comunque il disastro, qualunque disastro, questo e quelli futuri. (g.cerrai)