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Gabriella Grasso – Sciott

Gabriella Grasso – SciottPuntoacapo Editrice 2024

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Mi è capitato di riflettere, ultimamente, su (certa) poesia come non luogo. Un concetto che non mi sono ancora ben chiarito, ma che ha a che fare con una produzione poetica in qualche modo “indifferenziata”, che cioè non pertiene a nessun luogo né fisico né dell’anima, che potrebbe essere dappertutto e in ogni dove e forse appartenere a chiunque e quindi non essere coniugabile con il suo autore né con le sue radici. Una poesia cioè che – per varie cause che qui non indaghiamo ma che non hanno a che fare con stile, tendenza, forma, estetica – disegna “uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico”, usando le parole di Marc Augé. E nella quale il lettore, in varia misura, si sente solo.

Quindi è stata una coincidenza (ma non una rarità) imbattersi in un libro come questo, perché è una buona rappresentazione di un atteggiamento poetico ostinato e contrario, un libro che in primis stabilisce una sua cittadinanza non solo in un luogo (con quanto comporta in termini diciamo così di koiné, di appartenenza) ma anche e soprattutto in una realtà. In effetti il luogo è ben definito dalle parole introduttive della stessa autrice: è lo sciottu, nome di origine araba di una piazza di forma irregolare al centro della cittadina di Linguaglossa, ai piedi del Mongibello (l’Etna). Tralascio, come Grasso ci fa notare, la tautologia di questi due toponimi, negli incastri linguistici che vivificano il siciliano, prendiamola, al di là della curiosità, come emblema della malinconica e tuttavia passionale ridondanza che anima tanta letteratura dell’isola. Mi piace invece immaginare il set di questo libro di poesie, le piazze, le strade, le facce, qualcosa che ricorda il taglio chiaroscurale di certe foto di Ferdinando Scianna (es.: Villalba, 1983) o Melo Minnella o Enzo Sellerio, fotografo prima che editore. La piazza, naturalmente, è fulcro e pivot, o il bandolo di una matassa (spesso di microeventi) che tende a riavvolgersi in un moto tendenzialmente centripeto. Voglio dire, se molto parte da lì molto ritorna, o si spera che torni, o si aspetta che questo avvenga, soprattutto per una poetica ricerca di sicurezza. Che sta, appunto, nel luogo, nelle storie, nelle facce (“una faccia, una razza”, ma forse oggi, con i tempi che corrono, Salvatores non userebbe più questo vecchio detto greco), una comfort zone non ostante i brontolii del vulcano poco lontano (“siamo pronti a scappare / ma noi lo faremo?”). Sarebbe facile fare di queste facce dei personaggi, fare dei fatterelli dei bozzetti, ma diciamo che Grasso schiva molto bene questi rischi, come quello di uno strapaese alla Arminio, dato che mi pare riesca a sfuggire al momento cristallizzato, unico e “memorabile”, a favore di un tratteggio emblematico e plurale, che lascia spazio, tra i versi, al tipo di immaginazione a cui accennavo prima. Il mondo di Grasso sembra immarcescibile e invariabile come la morte, “tutto è qui dentro / tutto è stato / sempre / se chiudo gli occhi / tutto resterà” scrive in Commiato (Casa) per la sorella defunta, guardandosi intorno, descrivendo “arredi sempiterni”, elencando un po’ di gozzaniane buone cose di pessimo gusto. Questo mondo, come scrive, le sopravviverà? Non è detto, o meglio sì, sopravviverà nella misura in cui questo tipo di scrittura, di poesia (e chi la esercita), si farà carico di cantarlo e ricantarlo, di darne una comprensione che sfidi la surmodernità, o la semplice invasione dei turisti (v. sotto Zoom), di farne memoria, di “negoziare” con l’oblio, come direbbe Paul Ricoeur, quel che vale ricordare. Che potrebbe essere un fatto o semplicemente un carattere, un genius loci – elemento che mi è capitato di evocare annotando altri autori, come il messinese Enrico De Lea (v. QUI) o il comisano Fernando Lena (v. QUI) – o un “parlari” colto o non colto. Certo, la resa qualitativa dei testi qui raccolti non è uniforme, diverge tra brani molto buoni e altri molto molto semplici (es.: Il forno, o Rovesci) e però sempre sentiti, ma in tutti c’è una singolare corrispondenza tra questa materia “locale” (nel senso accennato in apertura) e lo stile o forma, come se certe storie non potessero che essere appunto “cantate” (o cuntate, e qui si torna a una vena popolare, anche siciliana) o cantilenate, con una curiosa predilezione per i settenari (“sembrerebbe lontano / ma il gigante vulcano / ha la bava alla bocca / e la sagoma nera”) e soprattutto, cosa rara, per cascate di decasillabi anapestici (“Lui cammina tenendola stretta”), che a volte si frangono in una risacca di inequivocabili endecasillabi o sono alternati con i citati settenari (“Il suo cuore ha ceduto stanotte / come carta velina / si è franto, e i frantumi hanno rotto / quella volta del cielo…”). A rimarcare, anche per questi segnali, che operazioni poetiche come questa, per aderenze o ossequi a una “tradizione”, non possono che passare per strade (o per piazze) ribattute, magari con un certa spontaneità e naturalezza come nel caso di Grasso. (g. cerrai)

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