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Enrico Cerquiglini – Avvisaglie

Enrico Cerquiglini - Avvisaglie - Bertoni Editore, 2023Enrico Cerquiglini – AvvisaglieBertoni Editore, 2023

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Alcuni testi tratti dall’ultima raccolta di Enrico Cerquiglini, a quindici anni dall’auto prodotto Fine attività (damnatio memoriae), che all’epoca doveva essere una specie di addio alle armi poetiche. Addio che corrispondeva forse ad una perdita di speranze nei confronti della poesia come strumento di lotta e critica, di recupero e di salvaguardia. Perché leggendo Cerquiglini, anche quando tratteggia un semplice quadro nostalgico di quella provincia geografica e dell’anima che abita, anche quando ci sembra di imbatterci in qualche tratto di ingenuità (nel senso più etimologico e onesto del termine), ci si rende conto che l’esigenza primaria di Enrico, nella sua poesia, è quella di salvare il salvabile in un mondo che non promette, anzi mantiene, niente di buono. L’area tematica di Cerquiglini è l’elemento principe da prendere in considerazione, più dello stile o della sua lingua, entrambi in un certo senso sussidiari alla prima. Si tratta del mondo che lo circonda, non quello ampio e generico, ma quello della campagna umbra, delle umanità ancora superstiti, della natura paritaria ed equanime, delle radici ancora generative, dell’ambiente sociale non del tutto estinto, del lavoro, del borgo come dimensione umana. Lo dico subito, Franco Arminio non c’entra niente. Il “paesologo” di Bisaccia appare come un venditore di matrioske, di contenitori di contenitori, non necessariamente “pieni” di qualche significato rivelante. L’esposizione del banale – o dell’ovvio e perciò inutile – inevitabilmente reca con sé la contraddizione della poesia. Anche Cerquiglini non “rivela” alcunché, se non – come si conviene al buon poeta – qualcosa che in fondo già sappiamo e che è meglio per noi non dimenticare, là dove (ed è questa la differenza) il farlo comporterebbe una diminutio di noi e una sconfitta dell’uomo. Questa specie di memento morale (o forse di avvisaglia) è preponderante rispetto a certe preoccupazioni che riguardino lo stile o il linguaggio, la prosodia o il metro, insomma è sempre più importante il cosa del come, giacché l’unica cosa da sperimentare è una memoria non volatile ma per così dire “restaurativa” , una memoria come imperativo morale e debito. E una certa “rabbia” sociale verso iniquità piccole e grandi che è anch’essa una memoria da alimentare come una lotta. Senza però niente di apodittico, senza atteggiamenti da guru de noantri. Continua a leggere

Loredana Semantica – Titanio

Conosco Loredana Semantica da qualche tempo, anche con un suo eteronimo che anni fa le permetteva una sua presenza eclettica e intelligente nel web letterario. L’ho incrociata varie volte, anche occupandomi della sua scrittura, come ad esempio del libro L’informe amniotico (Limina Mentis, 2015), finalista sia a Opera Prima 2012 sia al Montano dello stesso anno (v. QUI).
In questo nuovo libro che mi manda (Titanio, Terra di Ulivi 2023), come afferma lei stessa raccoglie “i primi frutti del lavoro – svolto nel corso del 2022 – di riordino, organizzazione e strutturazione della propria produzione poetica espressa negli anni dal 2010 al 2021”, un lavoro iniziato con la raccolta inedita In absentia vocis, segnalata al Montano 2022. Un lavoro, mi par di capire, non tanto autoantologico quanto forse di “recupero” di testi in qualche misura dispersi. Possiamo definire questa come una impressione iniziale, leggendo, che deriva forse da un senso di rapsodico “disordine” di queste poesie, così omogenee – mi si passi l’ossimoro – nella loro eterogeneità. Omogenee come stile, scelta lessicale, ispirazione, irrinunciabile lirismo, assoluta centralità dell’io poetico (e ognuna di queste connotazioni andrebbe poi approfondita, come lo stesso concetto di “dispersione”). E tuttavia eterogenee per quel rapsodico disordine a cui accennavo, nel senso delle relazioni tra testo e testo (o forse meglio fra le tematiche) che se ne traggono (in parte corretto dalla ripartizione in sezioni più “dedicate”, come Biografia o Calligrafie, ovvero il rapporto, metapoetico ma anche “sentimentale” con lo scrivere). Le poesie nella loro disposizione appaiono riferite a un tempo indeterminato (e le date, come annotazioni notarili, non tolgono la sua indeterminatezza, non collocano in una sua “Storia”, non ci dicono che quel testo deve essere lì e non altrove, anche – intendo di conseguenza – nel corpo stesso del libro). Lo stesso dicasi per un riferimento (del resto non essenziale) al luogo che, a parte rari accenni ad esempio alla sua Sicilia, è altrettanto indeterminato. Ma forse non serve una “esattezza” in questo senso, forse la raccolta è davvero un malinconico riordino di momenti in sé bastanti, siano essi memorie o insorgenze di una riflessione che non è mai epifania, “apparizione” ma che è però costante, segnata da una specie di nostalgia per un luogo, invece, un luogo dell’anima che non c’è, a cui perciò non è possibile ritornare. E anche forse da un’attitudine all’osservazione di quello che ho sempre chiamato un universo ristretto, concluso, magari rassicurante, come stare sdraiati per “osservare il soffitto / il semilucido della parete le due o tre crepe / qualche puntino nero incerto / se essere macchia o insetto”. O forse ancora quel luogo è un vuoto, misterico, orfico o magari semplicemente tardo novecentesco ovvero individuale e solitario (”non ho niente che valga la pena / nessun messaggio speciale / solita vita un quadro di Hopper / un lampione ferito l’incerto respiro”), a cui tuttavia si replica scrivendo “qualcosa di umano”. Continua a leggere

Enrico De Lea – Giardini in occidente

Enrico De Lea - Giardini in occidente - Seri Editore, 2022Enrico De Lea – Giardini in occidente – Seri Editore, 2022

 

Enrico De Lea è una garanzia, sotto diversi aspetti. Posso dirlo – poi vedremo in che termini – perché lo conosco da tempo e in diverse occasioni ho scritto delle annotazioni sul suo lavoro (v. QUI), a cominciare da I ruderi del Tauro (L’Arcolaio, 2009), che possiamo considerare il suo vero libro d’esordio (un’altra raccolta risale al 1992). Enrico, pur avendo affinato nel tempo la sua scrittura soprattutto in termini di “precisione” del dettato, è sostanzialmente fedele a sé stesso, ai suoi temi, a un suo costante “ritorno a casa”, anche nel senso di rielaborazione modernizzante di una tradizione lirico elegiaca con venature crepuscolari e con modelli anche molto alti come, per dirne uno, Bartolo Cattafi. Lui però ne fa un filone tutto suo, che non dimentica lezioni anche filosofiche (potremmo  azzardare, in questa direzione, uno sguardo gramsciano, specie in quel che di “popolare” si intravede sempre nei versi di Enrico, nel suo tematico ritorno alle radici). Di primo acchito diremmo, ancora una volta, che di questo fondamentalmente si tratta. Il giardino, occidentale o siciliano che sia, accoglie e conclude in sé uno spirito e un mondo, è luogo di qualche quiete, di riti quotidiani e ricorsivi, di personaggi emblematici, del come si stava meglio, che però è in sostanza immoto, non coltivato se non nei solchi della memoria, abitato da lari che da lì, a differenza dell’autore, non si sono mai mossi, popolando di fatto la mitologia poetica di Enrico. Come Diego Conticello rimarca nell’introduzione (e come avevo già annotato negli scritti citati), si tratta prima di tutto (anche in termini di stagioni della vita) di “memoriale ritorno agli archetipi che si formano durante l’infanzia e tali permangono, fissi e irredimibili, nell’immaginario”. In effetti la biografia dell’autore ci parla di un uomo diviso (“dislocato”, dicevo altrove) tra il Nord, in cui svolge la sua attività professionale e che è di fatto assente nei versi di Enrico, e il Sud in cui risiede la sua matrice creativa e che è inteso appunto come giardino delle delizie (ispiratrici), una “Sicilia ancestrale…perduta nei meandri di un sonno millenario…ancorata ad una presunta età aurea di una civiltà contadina” (ancora Conticello), quindi naturale, quindi incorrotta ecc. (ed ecco perché ho parlato di elegia). Potremmo parlare di nostos (come fa Conticello e come feci a suo tempo), ovvero del nucleo più classico del sentimento insoddisfatto, dello sradicamento che esige (ma non ottiene) un’inversione di rotta, un cambiamento di per sé folle in una società attuale. Del resto ricordo cosa mi scrisse nel 2012, a proposito di Da un’urgenza della terra luce (ora ne La furia refurtiva), parlando di “un ossessivo, costante identificarsi coi luoghi resi luce e con la luce resa lingua e materia amata, una mitografla ctonia e naturale”. Potremmo appunto parlare (Conticello ed io) del tentativo, anche per mezzo del linguaggio, di recuperare una forza terragna che solo laggiù risiede e che l’autore ritiene salvifica, rigenerante. Mito, quindi, forse desiderio inesigibile (e che vale per quello), forse illusione. Non utopia, che come ricordava Michelangelo Pistoletto in una intervista vuol dire non-luogo, e appena trovi il luogo giusto per creare essa diventa realtà, e qui il luogo – per quanto mitizzato, antistorico, antimoderno – nei versi di Enrico c’è ed è il linguaggio che lo trae, lo ricrea da quelli che sono épaves, relitti della memoria o dell’immaginazione (come già ne I ruderi). Come già ne I ruderi (e altrove, v. link citato) il linguaggio alla fine diventa personaggio e voce, quanto mai lontano (in De Lea più che in tanti altri) dal linguaggio normato della professione (nessun termine tecnico entra nemmeno per sbaglio in questi versi) o da quello ordinario. Linguaggio condensato, anche nel senso analitico del termine, dove il recupero di forme colte o dialettali non è riuso o semplice citazione, ma funge da pivot eidetico, crea l’immagine e la lancia nel testo, lega e tiene insieme le cose e le memorie (vere, reinventate), pur distanziandole nella giusta misura (come nel culto dei morti, c’è sempre qualcosa di vagamente apotropaico nella poesia di Enrico, una “fasciatura”, come ho detto di lui altrove).

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Antonella Bukovaz – casadolcecasa

casadolcecasa di Antonella Bukovaz (Miraggi Edizioni 2021)Pubblico anche qui la nota che ho scritto per Bologna in Lettere 2022 per il libro casadolcecasa / domljubidom di Antonella Bukovaz (Miraggi Edizioni 2021, anche audiolibro), Premio speciale del Presidente in questa edizione. La nota è uscita anche sul sito del premio, senza i testi esemplificativi qui aggiunti.

Antonella Bukovaz è nata a Topolò-Topolove, in quella che una volta si chiamava la Slavia friulana, a un tiro di schioppo dal confine sloveno, a stretto contatto con quell’areale linguistico che ha espresso nel tempo scrittori come, solo per fare un nome, Boris Pahor. Autrice di diversi volumi di poesia, è anche autrice di teatro e performer, collaborando con musicisti e artisti del suono (e in effetti casadolcecasa / domljubidom, prima sezione e titolo del libro, è anche performance teatrale).

In realtà in questo libro la lingua di appartenenza, quella autoriale, non vuole essere esclusiva, poiché come talvolta avviene in quelle che spesso vengono vagamente definite letterature di confine, una seconda lingua non è meno vitale, ovvero non meno portatrice di una identità che se non è familiare è certo di senso, di contatto con l’altro, come un ponte fecondo. Poiché, ci avverte Bukovaz, “i luoghi di confine invece non sono mai in pausa (…) non smettono mai di comporre storia di fruttare storie”. Così, accanto alle sezioni principali del libro (la citata sezione eponima e poi Mèd / Tra – corredata anche da Between, versione in inglese – e Antigona govori kralju / Antigone parla al re) troviamo la versione in sloveno, in traduzioni che non sono di Bukovaz ma a cui si suppone l’autrice abbia collaborato. Finiscono di comporre e concludono la raccolta altre due parti solo in italiano, La rima dirime e Quieta e ardente. Viaggio dal centro della terra.

Quella di Bukovaz è una poesia che trova la sua forza in una metafora che potremmo definire totale, che cioè non ha funzione retorica, non serve al linguaggio ma in qualche modo lo determina, determina la “storia” che i versi costruiscono, ne è oggetto e la occupa. In questo senso è emblematico proprio casadolcecasa, un tragitto accidentato e tuttavia fermamente determinato attraverso un luogo che è insieme e in maniera indistricabile vero e immaginato, domestico e universale, privato e comune e forse non è nemmeno un luogo, ma un corpo, una mente, un territorio psichico, un archivio di ferite. Ingresso, cucina, corridoio, ripostiglio, bagno, camera, soffitta: sono le stanze (anche in termini poetici) attraversate in questo tragitto, virtualmente dal basso verso l’alto, e anche oltre (”la soffitta come un razzo in partenza con i motori sempre accesi”), abitate da una sorta di dialogo senza risposta con presenze (o assenze) sfuggenti, con gli oggetti, qualche fantasma. Continua a leggere

Alessandro Silva Ferrari / Federico Galeotti – L’arte di allacciarsi le scarpe

Alessandro Silva Ferrari / Federico Galeotti - L'arte di allacciarsi le scarpe - Pietre Vive Ed., 2022Alessandro Silva Ferrari / Federico Galeotti – L’arte di allacciarsi le scarpe – Pietre Vive Ed., 2022


Ho già parlato in questo spazio del lavoro poetico di Alessandro Silva  in due occasioni su cui torneremo più avanti perché in diverso modo sono utili per capire qualcosa dell’autore. Ma intanto diciamo di questa ultima fatica, equamente condivisa con l’artista Federico Galeotti, disegnatore e illustratore autore di diversi libri nei quali la poesia e i poeti (Baudelaire, Poe, Blake) sono stata affrontati graficamente. In questo caso sono i versi di Silva a fare da contrappunto testuale alle tavole di Galeotti, in uno scambio di significati reciproco.
Il libro prende spunto dall’evento catastrofico avvenuto nel 2011 in Giappone, a Fukushima, dove la centrale nucleare venne severamente danneggiata da uno tsunami scatenato da un terremoto, compromettendo l’ambiente e la vita delle popolazioni con gli elementi radioattivi liberati dall’incidente, e causando decine di migliaia di morti. Un fatto di cui ancora ci ricordiamo e che tuttora ha effetti a livello planetario.
Non è un tema da poco, se lo si vuole affrontare con un mezzo “fragile” come la poesia, per quanto efficacemente sostenuto dalle immagini. Tuttavia Silva non è nuovo a impegni del genere, cioè a una poesia che sia insieme “civile” e drammaturgica, lirica e a suo modo cinematografica, con una storia individuale e tuttavia collettiva e con un suo epos. È un tipo di sfida che lo affascina, poiché nel 2016, sempre per Pietre Vive, aveva messo mano, tentando – come dicevo allora – di farne un poema (come adesso), alla vicenda tragica e ancora irrisolta dell’Ilva di Taranto, nel libro L’adatto vocabolario di ogni specie (v. QUI). Sfida già impegnativa per il fatto che si trattava di un’opera prima. Anche lì c’erano tavole di corredo, opera di Giovanni Munari, a supporto di una storia, di un racconto di vicende dolorose, di protagonisti in varia misura vittime di un disastro ambientale. Anche questo libro mi pare risponda a un’attitudine di Silva, che è in fondo quella di un’attenzione acuta e un po’ dolente verso “il mondo, quindi, come un catalogo permanente”, come cita l’esergo di Edoardo Sanguineti (presente qui, mi pare, anche con altre ispirazioni); ma le similitudini mi sembrano finire qui, per ragioni che è utile sottolineare. In questo ultimo libro, intanto, Silva fa una precisa scelta di linguaggio, o addirittura di riposizionamento rispetto alle precedenti scelte stilistiche. Nel Vocabolario la linea era quella descrittivo-lirica, in tono narrativo, con accenti di critica sociopolitica filtrati dalla saltuaria apparizione di un io compartecipe, un io personaggio che ogni tanto dava dolente voce alle vittime come un corifeo, le scene erano nette, discorsive, i fatti avevano una loro evidenza poetica come episodi esemplari. 
Silva sceglie di scrivere una sua Terra desolata, di giorni quasi uguali a sé stessi di persone normali, di piccoli eventi, di vita ordinaria di gente che prende l’autobus, di simboli del quotidiano come delle semplici scarpe o un gatto che attraversano tutte le scene, mentre qualcosa là fuori sta succedendo. E sceglie di scriverla con un linguaggio altro e distante dalla sua prima prova, ma anche da altre sue cose più personali, più intime o più liriche (v. QUI), una lingua poetica dal piglio sperimentale di una certa efficacia e di non poca inventiva lessicale, ma che porta con sé e trasmette un senso di oscura allusione, d’indeterminatezza, di chiusura ermetica riguardo a ciò di cui sta parlando. Tanto che se avessimo il solo testo forse non emergerebbe agevolmente il tema, l’occasione, il luogo, la denuncia se non con la sinergia con le tavole di Galeotti (che, sia detto per inciso e forse i meno giovani lo riconosceranno, in certi modi e tratti mi ricorda lo splendido Eternauta di Oesterheld e Solano Lopez), che tanto più funziona quando il verso, ma non sempre, diventa lettering del disegno, cioè si innesta in esso, nella sua rappresentazione. E questo va bene, se si considera – come giusto che sia – questo libro non tanto una graphic novel atipica (e men che mai un manga come ha detto qualcuno) quanto un’opera visiva mista – come certe opere d’arte in cui concorrono al risultato materiali di diversa natura e consistenza, magari asincroni ma funzionali – con il testo che assume una funzione più tipicamente soggettiva (anche in senso cinematografico) e non necessariamente narrativa (quindi “interna” o interiore); mentre la grafica si accolla la funzione diegetica, di racconto, scenica, o di uno storyboard possibile, e di raccordo con un immaginario visivo (quindi “esterna”). Sono due codici che mirano alla descrizione di due entropie parallele, una diciamo privata l’altra pubblica. Tuttavia questa dicotomia tra testo, che evita qualsiasi didascalismo nei confronti dell’immagine, e l’immagine stessa che ricrea la cronaca per spezzoni, alla fine nell’architettura complessiva dell’opera funziona bene, facendone, al di là della cronaca stessa, qualcosa di emblematico del rapporto tra l’uomo, specie l’individuo, e l’ambiente, nel quale la natura incontrollabile trova nei guasti prodotti dall’uomo un moltiplicatore. E la scrittura di Silva, nel suo cupo andamento spesso tanto simbolico quanto a tratti surreale (specie nella formazione di certe immagini) o dichiaratamente onirico restituisce al lettore la sua angoscia, una densa atmosfera che sembra presagire comunque il disastro, qualunque disastro, questo e quelli futuri. (g.cerrai)

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Carlo Gregorio Bellivia – da “bacon, fast food”, inediti

F. Bacon - Selfportrait, 1956Cinque testi di Carlo Gregorio Bellinvia, tratti da un progetto dal titolo bacon, fast food, composto – almeno nella versione che ho avuto modo di leggere in anteprima – da 42 “stanze”. Diciamo subito che il bacon che nel titolo sembra presentarsi come probabile ingrediente di un Big Mac è in realtà Francis Bacon, uno dei più rappresentativi, discussi e geniali artisti del Novecento. È su di lui, sui suoi quadri, sulla sua potenza iconica che Bellinvia costruisce il suo libro. Anzi forse sarebbe meglio dire intorno a lui, o a partire dalle suggestioni che genera. D’altra parte, il “fast food” del secondo termine del titolo, non è ironico né vuole essere dissacrante, secondo me, nei confronti dell’artista. Mi pare di intravedere semmai una carica critica, qualcosa che, nel momento stesso che in qualche modo “consuma” l’oggetto artistico, denuncia la sua consunzione che avviene non appena si rinuncia (ma non certo l’autore) alla comprensione – dall’altra parte, nel quadro, sulla parete – del soggetto. Preciso che qui “comprensione” va inteso in senso certo etimologico, ma soprattutto dinamico, forgiativo, come assimilazione di elementi creativi che in varia misura Bellinvia sente corrispondere, anche linguisticamente, alla propria poetica. È questo lo sforzo che l’autore ritiene di dover compiere nel momento in cui entra nel quadro, non rinunciando tuttavia a tener presente quel che di carnale e feroce, di avido e disperato che sta tanto in quel “fast food” (cosa c’è di più feroce di un hamburger?) quanto nella pittura di Bacon.
Ho parlato di linguaggio perché, mi pare, i caratteri qui accennati proprio in quel linguaggio si riversano, rimbombano. Le parole sono pesanti, la lingua ricercata in funzione della sua forza percussiva, non ellittica, non mimetica, non omissiva, la scelta dei termini nutre ed è nutrita, galvanizza ed è galvanizzata dal dialogo con l’opera pittorica, dal fascino sub-limen della metamorfosi dei materiali di cui Bacon era maestro.
Ecfrasi, potremmo supporre? Direi di no, o almeno non ridurrei il lavoro a questo, per quanto i precedenti siano illustri (v. ad esempio QUI): direi di no perché non descrive ma “rilegge”, interpreta, forse psicanalizza anche un po’; no perché non ci sono caratteri tipici ecfrastici, cioè descrittivi in primis, deittici o altro; no perché riscrive una “storia” (la raccolta segue una selezionata cronologia delle opere) e quindi riabilita una biografia, una sequenza temporale di eventi che Bacon aveva voluto congelare per sempre in quadri, elaborando anche un lutto; no perché non vi si riconosce un “atteggiamento” per così dire tecnico, parafrastico o semplicemente visivo/eidetico, quanto piuttosto la volontà di fare di Bacon (degli eventi che B. dipinge) una metafora poeticamente utile (e forse utilizzabile), un campione esemplare di artista tra ragione e pulsione, tra desiderio e morte, tra contemplazione del nulla e azione. Ma ne riparleremo alla sperabile uscita del libro. (g.c.)

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Viola Amarelli – Inediti

Alcuni inediti di Viola Amarelli, tratti da una raccolta dal titolo provvisorio “Il suono e il muto” che ho avuto il piacere di leggere in anteprima ma su cui sta ancora lavorando. Conosco Viola da diversi anni, almeno dal 2008 se non prima, e ho avuto modo di scrivere qualche nota sulle sue poesie in più di una occasione (trovate qualcosa QUI), sottolineando sempre una costante ricerca su almeno due binari strettamente interconnessi, anzi che si andavano alimentando a vicenda, generando senso: sulla sua lingua poetica, rimodulata e essenzializzata come poche altre, dalle sue prime cose fino ad oggi (“pulendo all’ossoessenza / quello che resta, quel che m’interessa”, scrive ne Il cadavere felice) – lingua che mi pare essere, come scrissi e ne ho qualche conferma, “avvicinamento al silenzio come perfezione inattingibile, come forma d’arte suprema, o mistica”; e poi sulla realtà attuale, analizzata nelle sue crisi, nelle sue contraddizioni e nelle sue aporie, realtà che comprende anzi occulta, come scrive, “il niente, il nec entem dove poggiamo”, ma anche comprende non paradossalmente un intenso lavorio non tanto sull’io, poetico o meno, quanto sul sé persona e essere umano in viaggio, in accordo anche con le sue convinzioni filosofiche e spirituali. Buona lettura. (g.c.) Continua a leggere

Note a margine: Silvia Rosa e il corpus nigrum

Silvia Rosa - Tutta la terra che ci resta (Vydia ed. 2022)Dopo la serata di presentazione a Livorno (28 agosto 2022, presso il Caffè letterario Le Cicale Operose) di Tutta la terra che ci resta (Vydia ed. 2022), raccolgo qui qualche appunto di lettura, qualcosa che forse ho detto o forse ho tralasciato di dire nel dialogo con Silvia Rosa:

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Come talvolta ho scritto, l’arte, compresa la poesia, ha tanto più senso quanto più riesce a fornire al fruitore, oltre che un’esperienza, anche un’idea dell’aria che tira, di come va il mondo, di come evolve la realtà, magari anche quella personale, percepita da chi crea. Tutta la terra che ci resta è un libro ambizioso, che nasce da una riflessione e da un’angoscia, da un sentimento del tempo e dalla prefigurazione – di una parte almeno – della complessità che ci circonda. Che in questo caso è quella dell’umano (odierno e quindi in qualche modo già diverso e in divenire) di fronte alla contaminazione tecnologica, alla mutazione di cui in qualche misura siamo complici e insieme vittime, alla velocità con la quale il mutamento si determina, anche in relazione alla lentezza adattiva del corpo. Realtà su cui Silvia riflette poeticamente, costruendo un’opera racconto che è anche viaggio, attraversamento, percorso/indagine e forse, soprattutto, transizione, come vedremo, verso uno stato.

L’atmosfera in cui la poetica di Silvia, nello specifico, è calata è quella di un paesaggio urbano o meno, qualcosa di non necessariamente vivibile, ma in cui certo siamo stati, forse torneremo. Il paesaggio, o meglio l’ambiente, è “narrativo” nel senso di una prefigurazione, di una percezione “storica”, nella Storia. Come il resto dell’opera, cerca di interpretare una realtà attuale, che sembra desertica e solitaria anche allorquando vi si riscontrano figure, anche quando si inciampa in oggetti che appaiono insieme consueti e alieni; e insieme preconizzata, distopica e tuttavia imminente. Continua a leggere

Francesco Tripaldi – L’individuo superfluo

Francesco Tripaldi - L’individuo superfluo - Ronzani Ed., 2022Francesco Tripaldi – L’individuo superfluo – Ronzani Ed., 2022

 

Tripaldi, lucano di Tricarico, classe 1986, avvocato specializzato in protezione dati, è con questo libro alla sua seconda raccolta, dopo Il machine learning e la notte stellata (Lietocolle, 2019), che purtroppo non ho letto, a parte qualche estratto apparso in rete. Ma in quest’ultimo di certo c’è molto della presenza tecnologica che quel titolo sembrava supporre nella sua antinomia tra Turing  e Kant, tra la macchina e l’uomo e il suo ethos. C’è in quanto rappresentazione di un vuoto che in qualche modo in natura deve essere riempito, nella misura in cui l’individuo di cui parla il titolo non viene tanto per così dire espulso da un contesto, ma tende a diventare superfluo motu proprio. Voglio dire, se l’uomo recede, batte in ritirata, una diversa natura, sia essa tecnica o comunque artificiale, tende a prendere il sopravvento. Tripaldi in questo senso mi pare ce la metta tutta, come uomo e poeta. Intanto diciamo che il lavoro di Tripaldi si inscrive a pieno titolo in una poetica della crisi che dura ormai da un trentennio, ma che nel frattempo ha perso per strada quanto meno la sua carica di critica politica del mondo, della sua complessità e del come in questa complessità l’uomo  navighi. Parlo di critica politica (in senso lato, come habitat del cittadino) perché, per quello che può valere all’interno del discorso poetico, una critica del mondo non manca nei versi di Tripaldi. Magari sotto forma di ironia, magari sub specie di torsione della lingua, di gioco di parole che mette in mora una certa sintassi delle cose, di inserto culturale (citazioni, riferimenti, altro, a volte puramente nominalistici), di espressionistici quadri sociologici  alla George Grosz (v. es. La iena ridens piange), di accumulazioni sintattiche che tentano una mimesi del caos (ma con le accumulazioni bisogna essere bravi davvero). In effetti Tripaldi padroneggia bene la sua lingua, soprattutto sui temi che più gli stanno a cuore, sebbene tenda a un certo barocchismo, o quanto meno ad un effluvio verbale non sempre funzionale, come nei testi in prosa che intercalano la raccolta, che danno l’idea sia di essere dilatabili a piacere, e quindi irrelati,  sia di essere confezionati secondo una ispirazione per così dire randomizzata, legata cioè a volte al caso, ad una certa accidentalità verbale, a volte all’ovvia successione del pensiero, insomma, per citare l’autore, “storie vere[,] quelle che fanno scintille ma non riescono a scoppiare”. Tuttavia l’effetto complessivo che ne esce è interessante, coagulandosi qualitativamente in alcuni (non moltissimi) testi di rilievo, come la malinconica, forse leggermente scontata ma vera L’immortalità dell’identità digitale (v. sotto). L’impressione generale che se ne trae è che Tripaldi sappia di cosa sta parlando, ma che non se la senta di scendere più in profondità, in certi inferi in cui l’individuo superfluo è abbandonato da solo, preferendo in certi casi un’arrabbiatura verbale un po’ beat, ma non sufficientemente crudele, per dirla con Artaud (che poi come sappiamo vuol dire – anche – sacrificio del superfluo di una lingua). Anzi, spesso c’è una rilevante componente di gioco, che è divertente di certo, cosa che a suo modo (ovvero in modo diverso), può costituire un valore a patto di ricordare che la carica “eversiva” del divertissement, del paradosso, dello sberleffo ha un limite, specie per un lettore che nella sua testa deve leggere, deve “performare”, il testo a modo suo. Ecco, appunto: mi pare che molti di questi testi siano stati scritti per un palco più che per un libro, per uno slam o roba del genere, o  almeno dovrebbero esserlo. Certe poesie sarebbero da urlare, o almeno dovrebbero esserlo, in un ambito in cui la ripetizione, o l’innamoramento per una formula (“a questa poesia va aggiunta l’IVA”) avrebbero la loro giustificazione. Il che non è insolito, fa parte anzi di una scelta plausibile nel ventaglio delle tendenze della poesia nostrana, della sua comunicazione. Comunque sia, al di là dei bit, dei server che conservano la nostra identità, l’individuo (che è l’autore) che esce da questi versi appare essere una specie di flâneur tecnologico e postmoderno però ben inserito, contemporaneo, urbano, qualcuno in fondo non tanto superfluo, semmai in qualche modo funzionale testimone intento a inventariare i sintomi più che le cause di una complessità (compresa quella dei rapporti interpersonali) non governabile. Più che una protesta è un presa d’atto, un ubi consistam condiviso da molti autori della generazione di Tripaldi, per i quali la realtà è (e forse non può essere altrimenti) una rappresentazione dolente ma frammentaria del presente. Se c’è un’ E-tica in questa E-poca, ci dicono, è quella di una seppur parziale presa di coscienza di questa realtà. Forse col tempo ne potrebbe uscire anche una praxis. (g. cerrai)

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Note a margine: Stefano Guglielmin e i dispositivi

Stefano Guglielmin - Dispositivi, Marco Saya Ed.Dopo la serata di presentazione qui a Pisa (21 luglio 2022, presso Libreria Erasmus) di Dispositivi (Marco Saya ed. 2022), raccolgo qui qualche appunto di lettura, cose di cui forse ho parlato con Stefano in quella occasione, forse no:
Consideriamo innanzitutto, per chi non la conosce, la struttura del libro. Organizzato in due sezioni, Dispositivi del poetico e Dispositivi della salute, il libro presenta in apertura due exerga di peso: il primo di Giorgio Agamben, l’altro di Amos Bianchi, due filosofi che affrontano il problema dei dispositivi come ideati da Foucault, il primo sottolineando la desoggettivazione che subisce l’individuo contemporaneo da parte del potere, l’altro la soggettivazione come modellazione che rende non unici ma singoli e perciò ininfluenti. Ma cosa sono i dispositivi? Tutto quanto, dalle norme agli oggetti agli strumenti, dalle istituzioni alle regole, da un computer a un cellulare, un giornale, tutto quanto instauri una serie di rapporti di potere e dipendenze non eludibili (V. anche la voce su Wikipedia, per quanto carente), non necessariamente tecnicamente chiaramente espressi (può essere qualcosa “tanto detto quanto non detto”, dice Foucault in una intervista del 1977) ma sempre aventi “una funzione eminentemente strategica”, che implica “una certa manipolazione dei rapporti di forza”.
Le due sezioni, come indicato dai titoli, prendono come “ispirazione” due aspetti che intersecano l’esperienza poetica (e filosofica) di Stefano e che diventano oggetto della sua speculazione (mi si passi il termine) in versi.

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