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Glauco Piccione – Il tempo evolve, posticcia l’umanità

Glauco Piccione - Il tempo evolve, posticcia l'umanità - Transeuropa ed., 2021Glauco Piccione – Il tempo evolve, posticcia l’umanità – Transeuropa ed., 2021
Un libro interessante con un brutto titolo, uno dei titoli più brutti che abbia visto negli ultimi anni, preso da un verso di una delle poesie della raccolta (ma perché non sceglierne un altro?). Tralascerei però  di indagarne il senso e il significato,  forse didascalico (e questo già un po’ mi inquieta), che cioè vuole rimandare fin da subito ad un paio di temi centrali del libro, la finitezza dell’uomo sociale (nel mentre che fa danni) nel tempo e soprattutto nel luogo, cioè questo mondo che ci è dato, e che riempiamo di “scarti”, materiali, affettivi, identitari; la collocazione dell’uomo/poeta, come individuo, all’interno di quella stessa complessa realtà e delle dinamiche anche personali che genera, e una forse conseguente forse marginale rinascita di un uomo politico.

Non ci si entra subito, in questo libro, pur con i buoni auspici dell’autore, il quale in effetti spande generosamente una sua idea di poesia, ma soprattutto una sua idea di che cosa la poesia dovrebbe parlare. In breve: libro di invettive e riflessioni, con una cifra stilistica a volte esorbitante, come vedremo, in cui però non si entra subito  perché la scrittura di Piccione non è e non vuole essere immediatamente decifrabile, aspirando ad una certa “oscurità” creativa del linguaggio, ad una certa sperimentazione verbale che però tende a “complicare”, sempre con volontà di sperimentare, una più o meno acquisita tradizione, riconosciuta e dichiarata dall’autore come serbatoio. “Un’opera in versi che trae le proprie influenze dalla poesia italiana degli anni Settanta e da un particolare vissuto personale, che tenta di rielaborare le esperienze della cultura beat, della cultura psichedelica e della cultura hobo” mi dice l’autore in un messaggio privato. Quindi, forse, un antico che tenta di ritornare nuovo, e qualcosa di insolito per un autore nato nel 1990. Influenze di temi, o renovatio di essi, gestione della “rabbia” giovanile o meno, contenuto che quasi inevitabilmente genera o richiama la forma e insieme ne è generato, una certa distopia (nel senso di  una qualche discrasia tra l’attuale e il linguaggio che lo rappresenta, che lo pone per così dire fuori dal tempo)? No, non è tutto qui, naturalmente, seppure – comun denominatore di tutto il predetto – una scrittura generalmente magmatica, effusiva, richiami  una notevole passione – abbastanza inusuale ormai in giovani di questa generazione – che cerca nella scrittura stessa un espressionismo d’impatto, un peso specifico da consegnare al lettore. Passione che a tratti sembra voluta, autoimposta, in qualche modo autodescritta, proprio mentre l’autore tenta di oggettivarla, chiamandosene antiliricamente fuori. E sì, anche se Piccione non me lo avesse scritto, c’è in molti di questi testi, anche linguisticamente, una specie di dito puntato verso una realtà che possiamo far finta di guardare criticamente da fuori ma di cui invece siamo – certo drammaticamente  – intrisi. E questo è un fatto linguistico, come dicevo, molto più di quanto possa essere, oggi come oggi, politico, un recupero appunto di modalità espressive che è vero che trovavano la loro motivazione in un bisogno diciamo antagonista, ma che non sarebbe male recuperare applicandole però ad una realtà molto più complessa e “liquida” di quanto fosse allora. Se c’è qui qualcosa di post moderno in questo tipo di poesia (di Piccione e di altri) è un disincanto non aggressivo, una consapevolezza della fine di qualsiasi delle “grandi narrazioni” di cui parlava Lyotard (sostituite in poesia da due concetti fissi come “presente” e “frammentarietà”). Senza contare, qui come altrove nel panorama – ed è quasi ovvio -, l’espulsione dell’io/poeta, rarissimo in questo libro, quasi un mero elemento del paesaggio, un deittico che mi pare, quando c’è,  corrisponda ad una autochiamata in correo, più che a una testimonianza. Non che la presenza dell’autore difetti, tutt’altro, diciamo che la presenza, qui, è piuttosto peso stilistico, scelta programmatica di tonalità e, come s’è visto, di numi tutelari. Queste scarne considerazioni però non ci sviino, noi o il lettore, dall’affermazione iniziale, l’essere cioè il libro interessante, di esserlo, in un certo senso, comunque, al di là cioè di certa (faccio un esempio) ansia che a volte trapela, di mettere in testo tutti gli ingredienti a disposizione. Ne consegue, a tratti, un certo barocchismo della parola (specie nelle poesie diciamo più “impegnate”, cioè con più “foga”): un surplus  di significanti che da una parte conducono all’assemblaggio, all’accostamento enunciativo di termini in apparenza alieni (1) che (ipotesi) potrebbero aspirare lodevolmente alla creazione di metafore/metonimie/similitudini innovative, oppure (ipotesi) tentare sperimentalmente di fare un uso iconico/mimetico del linguaggio per designare il caos, il complesso, l’indicibile per quanto sia – per ossimoro –   poeticamente descrivibile. Gli elementi ci sono quasi tutti, enumerazione, accumulazione, elenchi, innesti linguistici, associazioni, visione del mondo oggettuale onnivora, polimorfica, sinestetica, sguardo inquieto e quindi pluriprospettico e quindi non poche volte tagli del testo per frames, inquadrature, salti di luogo e di campo visivo, insomma cinematografia. Tutte cose non nuovissime, ma va bene così, perché al di là delle sue dichiarazioni Piccione una renovatio l’ha fatta, è riuscito a costruirsi un suo stile che certo ha bisogno a mio avviso di qualche aggiustamento ma che riesce a dominare alla fine la materia poetica di cui dispone, i temi che gli stanno a cuore. In altri termini è riuscito, direi rubando  parole all’autore, ad esercitare spesso “la sorveglianza nel progettar confuso / del lasciare andare”. Del resto come si fa, trattando ad esempio de “L’acrobatismo incantevole del disastro” (come titola la prima sezione del libro), cioè quella specie di ballo sul Titanic che è l’attuale situazione del mondo, a non costruire testi che rassomiglino ad un ammasso di materiali, ad una discarica di scarti in cui l’uomo non è scarto da meno, e nei quali tuttavia vige un’estetica se non del brutto  certo di un certo horror pleni che ci sovrasta. Voglio dire che è inevitabile (nel senso di un rapporto efficiente tra forma e contenuto) che questi testi siano tra le altre cose, quando funzionano al meglio, una  sorta di  “lista profetica dei significati”, per citare l’autore. Nella quale cioè non vale tanto la parola in sé, quanto la massa critica della sua evocazione complessiva, non il suo valore storico ma quello dinamico-predittivo, proprio in forza di alcuni di quegli accostamenti alieni di cui parlavo nei quali gli enunciati si danno energia  a vicenda. Vale lo stesso, per forza di cose, se il tema è l’uomo scarto, l’uomo ambiente, l’uomo perdente all’interno di un ecosistema  suicidario perché autoinflitto, non solo come abitante di una terra devastata  ma anche come attore di rapporti spesso difficili (dove magari “l’altruismo è una sorta di narcisismo imperterrito, non illuderti”) o affetto da una “mancanza di comunitività” (così nel testo) o per il quale l’avvenire è una “stupida crisalide” cioè forse non destinato a compiersi per l’uomo che vive in un mondo che urla. Se da un certo punto di vista il gioco dell’autore è scoperto, se la sua fame nervosa di comprendere il tutto è evidente, è vero che alla fine la pressione dei significati e  dell’ evocazione espressa è importante e bisogna tenerne conto al di là di piccoli o grandi dejà vu e di una qualche ricorsività indotta da uno stile, una tonalità, una voce che tende sempre e comunque a replicarsi, perché evidentemente l’autore ne è soddisfatto. Non occorre dire che cosa passa tra soddisfazione e sperimentazione, a lungo andare. Ma il libro è di sicuro interesse, con diversi testi anche molto belli, e sono curioso di vedere i futuri lavori di Piccione. (g. cerrai)

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