Alcune poesie tratte da 44 ottave, libro con cui Emilio Rentocchini ha raggiunto il traguardo (a suo dire invalicabile) dei 300 testi in questa forma chiusa e con questo suo dialetto sassuolese, con a fronte la versione italiana (le altre 256, sparse in diversi libri negli anni a partire dal 1994, sono ora raccolte in Lingua madre – Incontri, 2016).
Ho sentito più volte l’autore leggere i suoi componimenti, anzi cantare la sua musica. Che è fatta della sua voce, anzi della sua maniera cortese e generosa di porgere le parole a chi ascolta, ed è fatta del ritmo dell’endecasillabo, così connaturato al nostro orecchio e alla nostra memoria, e del suono che riempie di senso anche quei vuoti di significato che possano presentarsi a un foresto. Ricordando a questo proposito che quando legge in pubblico Rentocchini offre per prima, arricchita di osservazioni e ricordi, la versione in italiano. Solo dopo, con un’apparente fretta di dire, quella in dialetto. Rentocchini non “performa”, come si dice oggi. Mette in scena un gioco di specchi, di rifrazioni, di rimandi fonici e culturali al cui centro c’è quasi sempre una intima meditazione – una “verità” – tutta sua e insieme perfettamente universale.
Come scrive lo stesso autore a proposito della sua scelta stilistica e formale, in uno scambio di mail con Maria Cristina Cabani contenuto nel libro: “Il limite era proprio questo: tentare di tenere all’interno di otto endecasillabi una goccia di vita che continuasse a muoversi, senza scivolare via o prosciugarsi. Ma praticando l’ottava mi accorgevo via via che l’angustia del metro offriva spazi insperati. E vivevo come in una continua scoperta speleologica. su un terreno carsico dove sprofondare equivaleva spesso a riemergere in un altrove luminoso. Al punto che non mi sono mai sentito cosi libero corne prigioniero dell’ottava. Uno dei momenti più commoventi e pieni della mia vita. Tanto più se pensavo che stavo usando la lingua degli avi, a cui per certi versi davo voce, una lingua atemporale, mitica. E in quanto mitica, in grado di reggere l’anacronismo della misura chiusa.”. Che nel suo caso, come sottolinea Cabani, porta anche il segno di una duplicità: “L’ultima duplicità, in effetti, è quella fra l’aulico e il popolare (implicita, forse, ingannevolmente, nell’uso del dialetto)”. Che non è solo dunque quella linguistica, doppiamente agita nelle letture pubbliche. Nella quale, come nota Alberto Bertoni nella nota conclusiva del libro, si crea “un effetto trascinante e vorticante, disposto in un implacabile crescendo emotivo, attraverso il quale la poesia esibisce la sua duplice natura di entità assieme orale e scritta, referenziale e musicale, sintattica e asintattica, logico-narrativa e schizomorfa”, e dove “paradossale è che tocchi alla lingua ‘popolare’ proprio una funzione di annichilimento del livello comunicativo, trasferito tutto al perfetto congegno poetico (e letterario) che si esprime in italiano e che non è affatto puramente ‘informativo’, perché si avvale di tecniche a loro volta pienamente e credibilmente poetiche”. Da una parte quindi, quella dell’italiano, la narrazione; dall’altra, quella dialettale, “un’affabulazione accelerata e tutta nonsensical“, in cui “a dominare sono gli effetti di significante, le allitterazioni, i parallelismi acustici, le impennate prosodiche, i bisticci o le armonie delle sillabe atone o accentate”. Come sottolinea ancora Bertoni, “l’effetto sul pubblico (si badi, su ogni pubblico) è naturalmente trionfante”. Dove, al di là dell’aggettivo entusiastico e affettuoso, mi pare debba intendersi l’esperienza gioiosa e piena che fornisce questa poesia – così somigliante all’autore, persona gentile e amabile con tutti quelli che lo vanno ad incontrare – anche ad un lettore solitario che segua il modesto consiglio di Rentocchini: “Penso che le mie ottave vadano lette, in silenzio. Ne basta una ogni tanto, 4 o 5 alla volta cominciano a essere parecchie”.
(Emilio Rentocchini – 44 ottave – Book Editore, 2019)