Riccardo Socci è stato tra i segnalati nella sezione C (poesie singole inedite) dell’edizione 2019 del Premio Bologna in Lettere. Pubblico qui, insieme alle poesie presentate, la nota critica che come membro di giuria mi sono incaricato di scrivere per l’occasione. La nota, in ogni caso, va considerata in merito ai soli testi presentati al Premio. Lo dico perché, conoscendolo, so che ha ben altra tela da tessere.
Riccardo Socci – Pisa / Firenze
Motivazione segnalazione Premio Bologna in Lettere sez. C
Riccardo Socci, o dello spettatore casuale. Potrebbe essere questa l’impressione che si trae dalla lettura dei testi presentati al premio. Una trinità di quadri oggetto di osservazione, alcuni reali, altri immaginati. Uno spettatore che getta uno sguardo educato su ciascuno di essi, cerca di inserirsi con più o meno discrezione nella scena. Non come personaggio ma come un deus ex machina privo di poteri, eccetto forse quello di trarre da ciò che vede qualche ammonimento, ma nessun auspicio. Forse nemmeno per sé.
La quête, la ricerca, appare essere in effetti quella di una qualche corrispondenza tra dentro e fuori, tra mondo sensibile ma accidentale e mente individuale. Una corrispondenza che Socci tiene per feconda, cioè suscettibile di materializzarsi in versi, di trovare una veste poetica, ovvero di acquisirne uno statuto d’elezione. C’è una specie di timida convinzione, non del tutto infondata, del fatto che, per volontà o per una fortunata convergenza di fatti, qualsiasi evento, proprio nell’accezione di punto in un insieme di punti casuali, possa vestirsi di poesia.
Il paesaggio, gli alberi ecc. sono per così dire pre-testi, proprio nel senso che precedono una asserzione. Su di essi radicano pensieri che solo lo statuto poetico fornisce di una il-logica corrispondenza e forse di una affinità quasi platonica con quegli elementi del reale.
In effetti se guardo ad esempio il paesaggio e passo poi alla riflessione, lo spostamento ha una sua conseguenza e una sua logica. Ha qualcosa di fisico, è come un cristallino che varia la messa a fuoco. E’ come quando lo sguardo si perde, si fa opaco ed assente agli astanti, che infatti invariabilmente chiedono “a cosa stai pensando?”. Si affaccia qualcosa di personale, non sempre un ricordo, a volte una proiezione di un desiderio, una visione. Che a loro volta ammiccano e lasciano in sospeso qualcosa, un’aria di incompiuto, di “mi piacerebbe”, ma anche un che di narrativo, come se ciascuna di queste poesie fosse l’inizio di una storia, un incipit. Il seguito non ha luogo a procedere, non avrebbe senso perché il pre-testo sembra non autorizzare l’autore ad una deviazione o ad una rivolta, in altre parole ad uno “sviluppo”. Perché quello che vuole cogliere Socci è un istante di presenza, una immanenza. Certo, potremmo dire, citando Vittorio Sereni, che questi sono “mezzi, espedienti […] con cui intratteniamo il rapporto col reale”, che sono “appigli sul flusso dell’esistenza”, e del resto – mutatis mutandis parecchio – chi è che sfugge a certi “strumenti umani”? Tuttavia siamo in un altro tempo, un’altra era, qui è come leggere un racconto minimalista (David Leavitt, qualcun altro) posticipato, senza che il minimalismo c’entri gran che, almeno nel senso di quel quid di ferocia quotidiana che dovrebbe portarsi dietro, un senso di tragedia imminente. E forse è perché lo spettatore Socci sceglie di mantenere un approccio non invadente nei confronti della sua materia, anche il linguaggio sembra entrare in punta di piedi nella scena, non eccede, sbircia l’evento da una posizione decentrata, e anche questo “nascondino” sembra rivelare un carattere della poesia di Socci (e forse dell’autore stesso). E tuttavia c’è nelle sue poesie una scia, sebbene non del tutto chiara al lettore, che rimane nell’orecchio e che piace pensare possa essere proprio l’aura di quella confusa tragedia. In definitiva, quello che nella poesia di Socci elargisce un certo interesse deriva proprio, mi sembra, da questa convergenza di osservazioni eterogenee che essa stimola, questo suo non essere né apodittica né fatale. In altre parole, questo suo essere rappresentativa di una poesia che non contesta i suoi padri, non aspira a rivoluzioni, attende il suo farsi, la sua “emergenza”. In questo probabilmente più in sintonia col tempo di tante altre. (g. cerrai)