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Alberta Tummolo – Come pagina bianca, nota di Carmine Chiodo

Alberta Tummolo, Come pagina bianca, Poesie, RPlibriAlberta Tummolo, Come pagina bianca, Poesie, RPlibri, San Giorgio del Sannio (BN), 2021

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La poesia di Alberta Tummolo prima di ogni cosa nasce dall’ascolto e dall’incontro: incontrare e ascoltare altre vite, oltre la propria, e non mancano quelle dei giovani, dei ragazzi allievi della stessa poetessa, insegnante di Lettere a Colleferro (Roma).

Il titolo della raccolta è emblematico in quanto – e non faccio altro che ripetere un pensiero della stessa Tummolo che si legge nell’Introduzione – “pagina bianca” è “in fondo la vita“ e su questa pagina “rimangono i segni dei nostri tentativi di disegnare la nostra esistenza che si incontra con le esistenze degli altri”; per questo incontro con le vite altrui, notevole è l’ultima sezione della silloge che prende come titolo “Minuscoli dialoghi”, la prima e la seconda sezione sono: “Non è un vuoto“ e “Rifiuti”: qui c’è parecchio ascolto.

E’ su ”questa pagina bianca” che la Tummolo scrive la sua lucente, chiara, fluida poesia, priva di orpelli e sproloqui. Si ascolta la voce vibrante dell’io poetante che ci parla, ci comunica i vari contenuti della raccolta espressi con lingua diretta, efficace, di facile comprensione (ma di grande significato) che ben s’attaglia ai temi, alle situazioni svolte. Lingua e tematica molto originali, come pure il timbro e la fattura dei versi. Una poesia linda e che con estrema naturalezza e varietà timbrica ci presenta, per esempio, la condizione esistenziale, che ci dice, quando ci si trova nel “mare in tempesta” come fare per “tornare a prendere il largo”. Continua a leggere

Riccardo Delfino – Il sorriso adolescente dei morti

Riccardo Delfino – Il sorriso adolescente dei morti – RPLibri 2021
Ah, i libri d’esordio! Ce li immaginiamo sempre come qualcosa che emerge da un supposto deserto preesistente, stiamo lì a spulciarli alla ricerca di certezze e promesse, di un qualche segnale di svolta, magari di un innovativo sguardo sulla realtà, per poi forse uscirne delusi nelle nostre aspettative. Un approccio ingiusto, diciamolo. Però qualche spunto di riflessione generale possiamo cavarne.
Questa di Delfino è un’opera prima che più non si potrebbe. Uscito in settembre, scritto da un giovane millennial (è nato nel 2000),  studente romano di filosofia, questo libro fa del suo autore un absolute beginner, ma non proprio un principiante. Nel senso che, come tutti, proviene da qualche  buona lettura o dalla scuola, fin dove la scuola, quando va bene, è solita arrivare. In effetti è proprio Antonio Bux, nella nota introduttiva, a rilevare per primo da una parte “una nota lievemente crepuscolare”, dall’altra “una colloquialità quasi sacrale e dai toni decadentisti”, con l’aggiunta – annoto io – di qualche piccolo recupero stilistico, come certe – ma non molte e peraltro pertinenti – rime o endecasillabi leopardiani (“la vita / è poca cosa, e non conosce cura”). In altre parole il primo Novecento. Be’, Bux ha ragione, e fin qui diciamo che Delfino rientra a pieno titolo in una generazione (o in un’età) non ancora abbastanza “crudele” da far fuori una certa idea di poesia, o meglio una certa idea di come la poesia si fa espressione. Non è solo una questione di stile, naturalmente, anzi da quel punto di vista Delfino ha senz’altro delle carte, almeno quelle che il suo vivere oggi, in questo tipo di contemporaneità che costringe a una certa lineare immediatezza, gli fornisce. Cosa che si concretizza non solo nella brevità efficace dei testi (anche in questo D. ha molti fratelli nella sua generazione), ma anche nel fatto che quei testi tendono a proporsi come frammenti “aperti” e in qualche modo contigui, ovverosia suggeriscono una riflessione e insieme tentano di dare l’idea di un cursus vitae, di un susseguirsi di giorni che l’autore tiene sotto osservazione e che pur essendo “momenti” hanno la loro giustezza esistenziale, o se vogliamo una loro “esemplarità”, soprattutto se in relazione a un tema. 
Il tema principale della raccolta è la morte. E il “sorriso adolescente dei morti” potrebbe essere quello di Gabriele Galloni, scomparso troppo giovane, primo autore in questa stessa collana con In che luce cadranno (ma vedi anche QUI). Naturalmente la morte è tra gli universali della poesia, un topos che può assurgere a una sua originalità solo se lo si permea con un sentire o un epos o una riflessione ontologica o ancora con qualcosa che (purtroppo) è stato esperito, non con una giovanile paura anticipatoria, o perfino, come vagamente proprio in Galloni, con una qual componente narcisistica di chi con un universale flirta. Confesso infatti che mi induce qualche perplessità, di un ventenne, questa contemplatio mortis che qui serpeggia, che forse potremmo capire, noi che abbiamo una certa età, come metafora di una imminenza che riguarda non solo gli uomini ma tutta la natura. Oppure, certo (ed è l’ipotesi di Bux), si potrebbe trattare di una morte “solo tacitamente osservata, non desiderata, bensì un’attesa pressoché innocente di offrirsi casti alla liturgia della vita”, come di chi sa o si sente che “essere adolescenti equivale lo stesso a sparire”. Ipotesi interessante, ma che equivarrebbe a quella un po’ romantica di chi, non avendo ancora esperito in pieno la vita, salta poeticamente alle conclusioni come un veloce fuoco che brucia. È l’elegia anticipata, il nostos di un viaggio ancora da fare, e tuttavia non si può non rilevarne un certo fascino. Certo, è inevitabile, in questo osservare, qualche eccesso di pathos, come in un paio di testi,  quelli più lunghi, che sarebbe stato meglio espungere dalla raccolta,  (“intanto, io, imbiancherò / nella tua ombra: / e i miei placidi occhi / ingrigiranno il triste mondo che mi insegnasti ad amare”). Ma, al di là delle ipotesi riguardo al tema, quella che vorrei assumere è proprio appunto  – in questa raccolta – l’idea della morte (che non dimentichiamo in questi testi si accompagna a un “nulla” più volte ripetuto) come imago di un sentimento di non corrispondenza col mondo, o d’inadeguatezza alla “liturgia della vita” di cui parla Bux (e che di questi tempi non è solo esistenziale, ma anche politica e sociale). Quello che ne deriva è una visione sì tragica, come dice il curatore, ma anche di un pessimismo un po’ nichilista, che certo ha le sue ragioni, le sue ferite che l’autore teme che la vita non possa cancellare (brevi accenni in brevi testi ne sono indizio: “la mia nascita fu opera di un male orfano di padre”, “sono nato sotto la liturgia di una morte indicibile”, “esistevamo nella luce del nulla”, “siamo già luce estinta”, ecc.), uno stagno oscuro in cui anche i rari momenti d’amore naufragano in una aspettativa inquietante. Di questo pensiero,  peraltro sostenuto da una scrittura che in sé ha già, rispetto ai modi e ai temi, una sua maturità che si suppone non possa che migliorare col tempo, dobbiamo come lettori prendere atto, annotandolo con qualche dispiacere come ulteriore segno di un’epoca opaca. Da cui i giovani (e chi altri?) devono lottare per uscire. (g. cerrai)

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Daniel Skatar – Collezione di dischi volanti

Daniel Skatar – Collezione di dischi volanti -RPLibri 2019Daniel Skatar - Collezione di dischi volanti

 

La scarna terza di copertina ci dice che Daniel Skatar, “nato nell’ex Jugoslavia, rientra nella Generazione X”, e che vive a Bratislava. Sappiamo anche, dalla altrettanto scarna introduzione di Antonio Bux, curatore di collana, che Skatar “preferisce da sempre usare il nostro idioma per esprimere la sua poesia”. D’accordo. Si potrebbe supporre quindi, tanto per cominciare, che si tratti di qualcuno nato tra i ’60 e gli ’80, che abbia cioè vissuto – forse, in qualche modo e tra le altre cose – diciamo la caduta del Muro e il collasso del blocco socialista dell’Est, che insomma porti con sé, magari nella sua poesia, un alone del disfacimento della Storia, usando inoltre un altro idioma come simbolo dell’attraversamento di un confine. Questa ipotesi (ammesso che qualcuno sappia davvero cos’è la X generation), insieme all’adozione di lingua e – si suppone – di cultura, promette di essere un mix interessante. Ma non tutte le aspettative (editoriali) sono destinate ad essere soddisfatte, né forse è giusto che lo siano. Perché nel leggere i versi di Skatar l’impressione che se ne trae può essere addirittura di trovarsi di fronte ad un eteronimo, ad una personalità celata (per quanto certamente colta, anzi plurilinguista, dice ancora Bux), di fronte insomma ad una assimilazione più che di una cultura di una modalità che imperversa nella poesia nostrana, fin nella versificazione, e che suona familiare. Giacchè, a me pare, è una poesia per così dire “universale” e questo non è detto che sia una buona cosa. Una poesia che va bene qui e va bene lì: come esistono i non luoghi da un certo punto di vista esiste una non poesia (sia detto come azzardata categoria socioletteraria, sine iniuria), semplicemente perché non ha una connotazione identitaria netta (il che non significa necessariamente che non sia “buona”, anche da un punto di vista estetico, semplicemente si trova a proprio agio – e nell’agio dei lettori suppongo – sul tipo di vago sfondo che ha scelto). In questo caso non ha nessuna rilevanza che Skatar sia nato qui o lì, che viva qui o a Bratislava, il suo mondo è ancora una volta quello in qualche modo simbolista, post ermetico e vagamente decadentista nell’orizzonte di ciò che ho sempre chiamato un universo ristretto. Insomma Skatar in parole povere è un autore italiano: lo è a buon diritto come e più di altri, o almeno come alcuni (ma siamo lontani, ad esempio, da quei Claudia Ruggeri e Simone Cattaneo, a cui Skatar dedica una poesia). In effetti, di che parla la poesia di Skatar? Intendiamoci, Skatar scrive bene, ha una padronanza invidiabile della lingua, una buona capacità a tratti sorprendente di trarre immagini dall’indistinto e un senso musicale del verso accattivante, anche se tende talvolta all’aforisma assertivo, alla sentenza (“siamo tutti figli di uno stesso principio / perché la stupidità in fondo è solo / una questione di parole, / oltre che di fatti” ; “peggio di uno che ti odia c’è soltanto / uno che non ami che ti ama alla follia”; “l’equilibrio della vita / è il rischiararsi / nel gradevole / odore dei / libri”) con uno spostamento o mascheramento dell’io per mezzo di un pensiero apparentemente impersonale. Ma quella di Skatar (e in questo assomiglia straordinariamente a molta poesia italiana attuale giovane e meno giovane) è davvero “l’azione di dire, tramite la poesia, la superficie delle cose”, come scrive nell’intro Antonio Bux, “per scandagliare la realtà con apparente freddezza”. Si tratta di vedere quale realtà, e quanto davvero “cala” questo scandaglio. A me pare in definitiva che l’autore si associ a quella corrente che vede la realtà come una miriade di frammenti, di specchi del sé, di occasioni del momento, di rapsodie di un presente liquido che certo può dare adito a qualche riflessione, anche acuta, sul senso generale della vita, aprire qualche interessante squarcio in quel presente (v. ad es. parlarci quando è buio, o evolvere nel proprio tempo, nonché i versi messi spesso in esergo alle poesie, in genere migliori del testo sottostante). E’ una scelta del tutto rispettabile, di temi e di posizionamento in un ambito tutt’altro che antilirico, anzi con qualche tratto elegiaco, nel solco di una tradizione che perdura senza troppe scosse. Del resto l’autore dichiara la sua poetica chiaramente: “il rimbalzello è / il futuro nel passato, / un sasso sull’acqua, prima di affondare”. Poi, se sia dolce naufragar rimane incerto. (g.cerrai) Continua a leggere