Nel 1980 Silvia Batisti e Mariella Bettarini ebbero l’idea di chiedere ad alcuni poeti italiani chi fosse il poeta secondo loro, a distanza di quindici anni da “Il mestiere di poeta”, iniziativa simile curata da Ferdinando Camon nel 1965. Ne uscì un libro intitolato appunto “Chi è il poeta?”, edito da Gammalibri, in cui 33 autori dicevano la loro rispondendo a tre domande che oggi, ma forse anche allora, possono e potevano apparire, come dubitavano le stesse curatrici, “patetiche semplicistiche ingenue”. O forse, mi permetto di aggiungere, ottimistiche rispetto ad uno status e ad un peso, quello del poeta, che già allora era parecchio problematico (come dice qui Zanzotto, “il mestiere è sempre allo stesso punto. Da lasciarci le penne. Nella solita emarginazione. Editori e librai sono sempre ostili, e del resto hanno ragione: basta contare le copie vendute”). Le domande del “questionario” (*) erano le seguenti:
1) A circa quindici anni dall’uscita di “Il mestiere di poeta” di Ferdinando Camon e ormai abissalmente lontani da quegli anni Sessanta, che cosa resta (se resta qualcosa) del “mestiere di poeta”? E che significa oggi, alle soglie degli anni Ottanta, essere poeti in Italia? È possibile “essere poeti” in una società (anche letteraria) come la nostra?
2) Il rapporto tra scrittura e biografia, tra versi e vita (una “vita in versi”?), tra uomo (donna) e poesia, tra letteratura e storia di sé, tra individuo e poeta. Vorremmo tu parlassi di questo. In che modo interagiscono — a tuo parere — questi due elementi, questi due inevitabili (e indissolubili) poli all’interno di una dinamica quotidiana, personale, familiare, storica, anche in relazione ai problemi economici, pratici, del lavoro quotidiano, quello che, per intenderci, “dat panem”?
3) A tuo giudizio, il testo basta a se stesso oppure no? Il lettore ha o non ha diritto a conoscere l’uomo (la donna)-poeta, la sua realtà pretestuale ed extra-testuale? Quale rapporto indichi, in definitiva, tra la (tua) carta (quella stampata: i libri; la faccia esterna pubblica nota) e la (tua) carne (la persona: la faccia interna privata ignota)? Per superare il “mito del poeta” (e l’eventuale automatizzazione) non ritieni sia importante che chi legge versi conosca “anche” l’uomo (la donna), l’individuo, e non soltanto il testo; sappia il corpo e le sue manie smanie acciacchi dolori persecuzioni vite e morti, non solo l’olimpica testa, produttrice somma di testi?
Sì, forse a leggerle oggi le domande possono mostrare qualche ingenuità, o almeno un’idea di fondo aprioristica, che cioè il poeta avesse comunque un ruolo culturale e sociale ancora rilevante, una “singolarità d’autore” (Majorino) su cui riflettere, per quanto decisamente non riconosciuti. Ma c’è da domandarsi cosa risponderemmo oggi, tra chi dà la poesia morta e sepolta e chi tenta, non sempre con buoni esiti, di rinnovarla, magari con mezzi non canonici. Vale la pena di osservare che alla terza domanda, che riguarda una questione mai chiusa in ambito critico, la maggioranza delle risposte (tra gli altri Guidacci, Giudici, Spatola, Roversi, Cucchi) fu, con varie sfumature e distinguo, che il testo deve bastare a sé stesso, altrimenti “vuol dire che qualcosa nella sua produzione non ha funzionato” (Oppezzo), sebbene “non sappiamo bene cosa sia un testo, né se davvero esista” (Zanzotto) e “il testo ha bisogno di un pretesto, di un contesto” (Pignotti).
Comunque allora le risposte furono le più diverse, lungo una gamma che andava dal prendere la questione fin troppo sul serio fino ad affrontarla con ironia; dal ribadire una propria poetica fino all’approfittare dell’occasione per un esercizio di stile. Molte di esse sono ancora interessanti e anche attuali (e in effetti a volte sembra che il tempo non sia passato, in questo campo), come le risposte di Di Ruscio, di Spatola, di Zanzotto, di Porta, o molto divertenti, come quelle di Cesare Viviani o di Franco Cavallo.
Ripubblico qui l’intervento di Gianni Toti, seriofaceto da par suo, irridente, e tuttavia denso di interrogativi sempre esemplari, nel suo linguaggio mobile, reinventato, col quale le domande poste vengono ri-create, discusse, destabilizzate, trasformate nell’opera di un ingegno polimorfo e inquieto.
*) Il questionario fu utilizzato in quegli anni anche nell’antologia “Donne in poesia”, curato da Annamaria Frabotta nel 1976, una “inchiesta poetica” in quel caso orientata sul fare poesia femminile/femminista. E’ poi rispuntato sotto diverse specie in anni successivi.
(foto di Gabriella Maleti)