Sonia Lambertini – perlamara – Marco Saya Edizioni, 2019
La perla è bellezza generata dall’intrusione, è difesa e tentativo di espulsione dell’estraneo. E’, alla fine, inclusione in sé, accettazione a certe condizioni, come quella di ridurre l’estraneo a presenza incastonata. E’ su questo simbolo che Sonia Lambertini costruisce il suo libro. Che sia amarezza, anche, cioè un sentimento non risolutore ma che accompagna una memoria dolente, questo va da sé. E in genere è quella che va a finire nella poesia, più del dolore medesimo. Con l’esito, lo sappiamo, di elegia e compianto, roba rischiosissima da mettere in versi.
Ma sulla sua vicenda, su quel qualcosa che ha percosso il suo corpo, e che ignoro ma che è manifesto, Sonia costruisce una raccolta (breve e di testi brevi) di grande equilibrio e, direi, di una notevole raffinatezza. Se la leggerezza è un valore (non sempre lo è, lasciamo in pace Calvino), qui lo è alla maniera di quei tagli che sulle prime non si sentono, poi fanno male. Già dicendo questo mi rendo conto che forse si cede ad una impressione anch’essa emotiva e di difficile argomentazione. Meglio andare al sodo. Cominciando magari dalla considerazione, questa sì reale, che in questi testi la leggerezza e la brevità sono inversamente proporzionali al raggiungimento del senso, alla sua felice compiutezza. Non sono necessarie tante parole, a Sonia, come se tutta la complessità di quanto è passato fosse già decantata, anzi sublimata. Deve averci pensato parecchio a cosa e come scrivere. Deve aver lavorato parecchio a sottrarre. C’è nel dire questo anche un raffronto, una misura con quanto ho letto e scritto a proposito del suo precedente lavoro del 2016, Danzeranno gli insetti, stesso editore (v. QUI ), dove i testi avevano certo un diverso sviluppo, forse la necessità di più fiato, forse perché i temi (la morte, il distacco) erano più difficili da incastonare con quella capacità di dire multa paucis, qui brillante. Lì il confronto del resto era con una angoscia fondamentale perché riferita al destino di tutti, ma in qualche modo posticipata, rimandata ad un futuro certo e tuttavia inconoscibile, prefigurato da uno “scivolamento continuo nelle tenebre della nullificazione” (Mario Fresa). Qui non c’è prefigurazione di quanto avverrà, è già accaduto, la riflessione è sui segni del corpo, la poesia è eleborazione dell’evento, inteso come crisi e come avvertimento, e come tale va, diciamo così, risemantizzato nella sua concretezza, bisogna dargli le giuste parole. Non è strano, né contraddittorio, che queste siano poche, essenziali, legate da fili sottili a volte non subito annodabili ma che esistono, costituiscono elementi connettivi di quel senso. Sono tra questi, ad esempio, tutti i termini che rientrano nel campo semantico del corpo. Ma il corpo di cui parla Sonia, e le sono grato di questo, non è il corpo feticcio o il corpo vessillo di battaglia di una parte della poesia femminile, e soprattutto non è topos o topografia di sé stesso, e questo perché ogni sua parte nominata non è “cosa” ma, come ho accennato, “segno” e linguaggio, veicolo espressivo e relazione col mondo. Così bocca, lingua, ossa, ventre, nelle loro reiterazioni da un testo all’altro (e a questo proposito aggiungo che pur brevi queste poesie hanno bisogno, davvero, di essere lette in sequenza), ed anche altri “oggetti” simbolici che sul corpo si insediano, quasi organicamente, metamorfizzano in esso come buchi, becchi, ali, ed anche un cuore citato pochissimo ma per così dire “mediale”, cioè risimbolizzato come non solo anima non solo sangue; insomma per me, parlo di me lettore, sono segni assai indicativi, mi danno l’impressione di non essere impersonali, di non essere puro soma né sole parole, ma, diciamo, “punti di ascolto” (“c’è un buco a forma di peccato //un vuoto esilio, suono assoluto”), o di visione, come gli occhi, “sotto sale”, a “un centimetro di terra vuoto” (sì, c’è spesso questo vuoto, vuoto di memoria, vuoto da anossia ecc.). E poi, certo, altri simboli, quelli che rimandano agli uccelli, sopra accennati, un naso-becco per “setacciare le sementi / setacciare il mio embrione”, come un organo esplorativo (mi viene in mente l’airone di Porta) che rimanda a capacità conoscitive “naturali”, ma anche a un rapporto basico, quasi animale, col dolore, con la ferita. Con quel taglio, forse, più volte evocato: “tagliatemi le mani, la corolla // tagliate i ponti, la coda del serpente / le antenne pettinate della bella di notte”; “non ricordo nulla dei rammendi / dei miei ritagli, solo pause / ritmi irregolari…”; “nel campo dei fusti recisi, immaginaria // avvolgo piedi e punte di spalla, copro il capo / di lino bianco…”). Poi c’è altro, naturalmente, come la memoria, almeno un paio di volte assimilata ad un guscio d’uovo, forse qualcosa di fragile che si è rotto e che mostra un vuoto inquietante, forse proprio un elemento di realtà, come riprendersi vuota da un trauma o da un sonno chimico. Ma forse serve poco analizzare tutto questo, e altre cose che tralasciamo. Mi pare più interessante nella poesia di Lambertini apprezzare la disposizione di questi elementi, la loro organizzazione prosodica per intenderci, la loro informazione (il dato) e la loro suggestione/ connotazione, e un certo senso di sospensione, in qualche raro caso anche sintattica, che rappresenta bene la materia stessa, il tema “amaro” e irrisolto di questa raccolta. Nella quale, in riferimento a quanto afferma Elio Grasso in una introduzione che peraltro aiuta poco il lettore, non trovo affatto quella “controversia formale (che) viene risolta nella sua brevità, da leggersi come prima qualità della sperimentazione”. Al contrario, mi pare che a Sonia non debba essere accreditato, nemmeno come qualità, alcun sperimentalismo, se non quello della ricerca di uno stile del tutto personale che aderisca alla sua sentita verità. (g. cerrai)