Conosco Loredana Semantica da qualche tempo, anche con un suo eteronimo che anni fa le permetteva una sua presenza eclettica e intelligente nel web letterario. L’ho incrociata varie volte, anche occupandomi della sua scrittura, come ad esempio del libro L’informe amniotico (Limina Mentis, 2015), finalista sia a Opera Prima 2012 sia al Montano dello stesso anno (v. QUI).
In questo nuovo libro che mi manda (Titanio, Terra di Ulivi 2023), come afferma lei stessa raccoglie “i primi frutti del lavoro – svolto nel corso del 2022 – di riordino, organizzazione e strutturazione della propria produzione poetica espressa negli anni dal 2010 al 2021”, un lavoro iniziato con la raccolta inedita In absentia vocis, segnalata al Montano 2022. Un lavoro, mi par di capire, non tanto autoantologico quanto forse di “recupero” di testi in qualche misura dispersi. Possiamo definire questa come una impressione iniziale, leggendo, che deriva forse da un senso di rapsodico “disordine” di queste poesie, così omogenee – mi si passi l’ossimoro – nella loro eterogeneità. Omogenee come stile, scelta lessicale, ispirazione, irrinunciabile lirismo, assoluta centralità dell’io poetico (e ognuna di queste connotazioni andrebbe poi approfondita, come lo stesso concetto di “dispersione”). E tuttavia eterogenee per quel rapsodico disordine a cui accennavo, nel senso delle relazioni tra testo e testo (o forse meglio fra le tematiche) che se ne traggono (in parte corretto dalla ripartizione in sezioni più “dedicate”, come Biografia o Calligrafie, ovvero il rapporto, metapoetico ma anche “sentimentale” con lo scrivere). Le poesie nella loro disposizione appaiono riferite a un tempo indeterminato (e le date, come annotazioni notarili, non tolgono la sua indeterminatezza, non collocano in una sua “Storia”, non ci dicono che quel testo deve essere lì e non altrove, anche – intendo di conseguenza – nel corpo stesso del libro). Lo stesso dicasi per un riferimento (del resto non essenziale) al luogo che, a parte rari accenni ad esempio alla sua Sicilia, è altrettanto indeterminato. Ma forse non serve una “esattezza” in questo senso, forse la raccolta è davvero un malinconico riordino di momenti in sé bastanti, siano essi memorie o insorgenze di una riflessione che non è mai epifania, “apparizione” ma che è però costante, segnata da una specie di nostalgia per un luogo, invece, un luogo dell’anima che non c’è, a cui perciò non è possibile ritornare. E anche forse da un’attitudine all’osservazione di quello che ho sempre chiamato un universo ristretto, concluso, magari rassicurante, come stare sdraiati per “osservare il soffitto / il semilucido della parete le due o tre crepe / qualche puntino nero incerto / se essere macchia o insetto”. O forse ancora quel luogo è un vuoto, misterico, orfico o magari semplicemente tardo novecentesco ovvero individuale e solitario (”non ho niente che valga la pena / nessun messaggio speciale / solita vita un quadro di Hopper / un lampione ferito l’incerto respiro”), a cui tuttavia si replica scrivendo “qualcosa di umano”. Continua a leggere
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Maristella Diotaiuti – . come cosa viva
![Maristella Diotaiuti - . come cosa viva - Terra d'ulivi Edizioni, 2021 Maristella Diotaiuti - . come cosa viva - Terra d'ulivi Edizioni, 2021](https://imperfettaellisse.it/wp-content/uploads/2022/05/diotaiuti.jpg)
Davide Cortese – Zebù bambino
Davide Cortese – Zebù bambino, Terra d’ulivi ed., 2021 – Nota di lettura di Matteo Galluzzo
“Zebù bambino”, questo il titolo dell’ultimo libro di Davide Cortese, poeta siciliano originario dell’isola di Lipari. Un titolo che fin da subito rende esplicito, nell’assonanza irriverente con il più ortodosso e pacificato Gesù bambino, il tono di questa breve ma intensa raccolta composta da 21 liriche che filano veloci come filastrocche ma in cui si intrecciano tematiche molto più articolate e profonde di quanto possa sembrare ad una prima e superficiale lettura.
Quello del Zebù bambino di Davide Cortese è uno sguardo che ci interroga e a cui non possiamo sottrarci. È un confronto serrato con noi stessi, fin dalla poesia iniziale che serve da guida e da dichiarazione: “Due miei volti si specchiano/nelle ginocchia sbucciate/del demone bambino.”
Dualità e contrasto sono i poli tra cui si muove la poesia, anche dal punto di vista linguistico. E il contrasto tra la semplicità del linguaggio che rimanda, anche ritmicamente, alla leggerezza della filastrocca e l’abominio della descrizione, genera lo spiazzamento del lettore, il suo straniamento.
Franz Kafka in un passaggio di una lettera indirizzata a Oscar Pollack si domanda “Se un libro non ci sveglia con un pugno in testa, perché mai lo leggiamo?”, per poi aggiungere che “un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”. Queste affermazioni sottintendono il fatto che un libro può agire sul mondo solo nel punto di incontro tra scrittura e lettura; è nella lettura, infatti, che si avverano le promesse del testo scritto.
Così questa raccolta poetica, proprio nella sua apparente semplicità, e attraverso la frizione tra forma e contenuto, forza il lettore a interrogarsi sul senso della propria lettura.Lo spinge cioè a riconsiderare il proprio posizionamento nei confronti del testo e del mondo, suscitando una riflessione più ampia sul senso e sulle difficoltà dell’agire umano, soprattutto nei suoi cedimenti al male. Il testo chiama in causa, suscitandola, l’individualità del lettore, portandolo a rispecchiare su se stesso le colpe del diavolo bambino e a sentirsene in qualche modo responsabile: “A chi aspramente lo rimprovera/per qualche suo scherzo atroce/“L’ho imparato dagli uomini”/ogni santa volta dice.” Per contro, la caduta della responsabilità, il suo rinnegamento, genera quell’abominio di cui il piccolo Zebù si fa esecutore. Continua a leggere
su Hairesis di Francesco Marotta
Francesco Marotta – Hairesis – Terra d’ulivi edizioni, 2016
La ristampa di un’opera di Francesco Marotta, con varianti e aggiunte rispetto alla primeva edizione in ebook (Cepollaro E-dizioni, 2007), è sempre una bella notizia, anche se ormai risale al 2016. Lo è certo per me, che riprendo ora in mano questo libro e che seppure troppo sporadicamente ho frequentato il lavoro di Francesco, ma che sempre ho apprezzato, in questo ambiente per molti versi discutibile, la sua naturale riservatezza, una eremitica distanza dalle cose (alimentata da alcune buone ragioni) che tende a far dimenticare alla gente, almeno nella convulsione della rete, il suo essere un eccellente poeta. Ma anche per la poesia italiana in generale, stante la qualità quasi paradigmatica della sua scrittura, il suo rigore stilistico e morale, l’impegno costante ad immettere nei versi una spiritualità che non teme né di credere né di contestare il divino quando serve “(che tu sia maledetto in eterno / signore degli eserciti / dominatore di sabbie millenarie”) ed una umanità che non dimentica gli orrori e i dolori di cui è impastata, e di cui nessuno è incolpevole in quanto uomo, ma che coltiva il senso di un’etica amorevole che coinvolga il prossimo e il distante, l’io e l’ “altro”, l’amato e il disamato, i vivi e i morti, un’umanità capace anzi di reimparare “l’arte dimenticata di morire”, come dice una seqquenza del libro. Se altre volte ho parlato di “meditazione” in merito a certa poesia (non sempre, lo ammetto, in maniera appropriata), nel caso di Marotta credo sia quanto mai giusto, in questo libro come ad esempio in Per soglie di increato o Impronte sull’acqua (v. QUI) attribuire una dimensione di intensa e concentrata riflessione, caratterizzata talvolta da testi di ampio respiro e di autorevolezza sapienziale. Quasi un esercizio spirituale, sull’essere in sé e in rapporto con la trascendenza, su cosa significhi essere uomini anche in relazione alla Storia, alla vita quale ininterrotta lectio. Anzi, quale “poema ininterrotto”, come Marco Ercolani ha titolato il volume a lui dedicato (Il poema ininterrotto di Francesco Marotta, Carteggi letterari Le edizioni, 2016). E in questa prospettiva Hairesis è un libro, non esito a dirlo, essenziale.
A parziale corredo di quanto scritto sopra ripropongo di seguito la nota che dedicai a Lettera da Praga (il primo testo del libro ed uno dei più importanti) e rimando inoltre a quella dedicata (v. link sopra) a Impronte sull’acqua, entrambe del 2008:
Se non c’è memoria diretta (per ragioni anagrafiche o per semplice fortuna) della tragedia e della orrenda banalità del male di arendtiana memoria, c’è almeno, nella sensibilità dell’artista, “intuizione”, nel senso pieno, anzi etimologico del termine. Questa intuizione, o empatia nei confronti delle vittime, di quegli uomini sulla cui “entità” Primo Levi si interrogava, non è forse una delle missioni del poeta, ed insieme uno degli strumenti principi di questa missione? Ed egli, con la sua capacità di ricreare la lingua e con essa il dire e il raccontare, non svolge con questo un’azione eminentemente politica, affondando le proprie radici nella storia? Dico queste cose pensando proprio al testo di Francesco Marotta, più o meno come le pensavo, con qualche distinguo, quando leggevo “Giorni manomessi” di Roberto Ceccarini. Anche qui c’è innanzitutto l’accettazione di una eredità, di un legato, come potremmo dire in termini giuridici, l’accoglimento di una discendenza o di elementi biografici forti che la sensibilità di uomo e artista non può disconoscere, anche se si guardi la Storia da un limes, da una soglia, come osservava S.Aglieco parlando di “Per soglie di increato”. Da questi elementi e dal loro recupero o restauro è poi possibile innalzare lo sguardo con animo consapevole – e appunto empatico – alla storia, piccola o grande che sia. Incidentalmente, dal punto di vista della poesia la Storia, anche quella che scorre ora nelle nostre vite, non è affatto finita, con buona pace di alcuni pensatori (e anche di molti poeti). Ma stavo dicendo: dal dato biografico o dalla memoria indiretta o da quella che ho chiamato intuizione, il poeta innesca dinamicamente un rapporto con riflessioni più universali, dal dettaglio anche liricamente intimo e domestico alla visione di insieme della tragedia, in altre parole (e questo è il prodotto artistico) egli universalizza per noi il suo legato e ce ne rende partecipi. Mi viene in mente ora che avevo già espresso questo mio avviso, almeno indirettamente, quando mi fu posta la domanda principe “che cosa è la poesia?”. Nessuno lo sa, e tuttavia nessun poeta rinuncia al tentativo di dire la sua. Risposi (scusate se mi cito): “è anche vero (…) che è memoria e immaginazione. Cioè realtà e invenzione, tradizione e tradimento, in altre parole contaminazione e meticciato della nostra stessa storia. Con memoria e immaginazione torniamo alle radici stesse della poesia (…). Mi piace pensare, pur con tutte le distinzioni del caso, che anche la poesia attuale, che pure non ha niente di epico anzi è fondamentalmente poesia di crisi e ripiegamento, debba poggiare su questo binomio o binario, che è anche piedi, cioè radicamento nella realtà e nel vissuto, e testa, ideazione, ingegno, artigianato, linguaggio capace di creare l’immagine (ecco l’immaginazione, letteralmente) che estende la percezione di qualcosa che da privato (del poeta) diventa condivisibile ma non ovvio, anzi disvelante. A voler essere radicali potremmo dire che la poesia è così, o non è. E allora faremmo meglio a lasciarla nel cassetto”. Credo che il testo di Marotta sia un bell’esempio, etico e poetico, di questo. Pur lamentando “il naufragio della storia”, compie la scelta (hairesis, il titolo del libro, “fare la scelta”, fino all’eresia) di dare voce anche a quei “giorni infiniti / mai nati”, non dimenticarne la linfa, combattere “la deriva degli anni”, rinnovare “franate memorie sottovetro” di quei bambini sul cui corpo, “inesplorato degli anni / dove non sarebbero stati”, la Storia ha infierito. (g. cerrai)
Per qualche estratto dal libro rimando ai molti già presenti in rete, a cominciare dal sito di Francesco, La dimora del tempo sospeso, ma anche su La poesia e lo spirito e altri. Ma mi fa piacere riproporre la lettura in voce che feci quasi dodici anni fa per “Oboe sommerso”, il blog che aveva Roberto Ceccarini, poi rielaborata con fondo musicale (*) nel 2016.
Il varco nel muro – una nota su Afa epifanica dello steccato di Marina Pizzi
Pubblico qui l’articolo che appare sul n.4/2020 della rivista Menabò di prossima uscita, con il quale credo davvero di avere esaurito il mio lavoro su Marina Pizzi, autrice di cui mi sono occupato svariate volte nel corso del tempo (v. QUI e QUI). La nota riguarda il suo ultimo libro, Afa epifanica dello steccato – Terra d’ulivi ed., 2019.
Il varco nel muro
Conosco Marina Pizzi da un bel po’ di tempo, in tanti suoi libri, tanto da coltivare alcune convinzioni. Ad esempio, mi ero persuaso che l’acquisizione da parte sua di una voce e uno stile duraturi nel tempo fosse anche una sua maniera, un modo per radicarsi nel mondo con almeno qualche certezza. Ma con lei mica puoi sapere. Così, quando ero arrivato alla constatazione di stare contemplando una specie di monolite kubrikiano della poesia italiana, ecco che lei se ne esce con un libro che, sì, ripropone certi suoi stilemi, una sua ancora accanita propensione a mettere in mora le parole, discreditarle e riaccreditarle, a decontestualizzarle piantandole come menhir smemorati in mezzo al verso o facendole slittare di senso, a strapazzare la sintassi, tendere all’oscurità del dettato; ma qui, in questo ultimo libro, trovo anche una discontinuità, una specie di varco nel muro, la possibilità di gettare uno sguardo su uno spazio privato che per molto tempo era rimasto nascosto, non tanto o non solo perché custodito da un naturale riserbo, ma perché sommerso in profondità abissali della psiche, di un dolore dell’anima e un horror vitae su cui si scagliava il linguaggio duro e puntuto di Marina. Avvisaglie certo ce n’erano già state, ad esempio in Segnacoli di mendicità (CFR, 2014), ma anche, per indizi palesi, altrove. Tanto che qui non solo si evidenziano esplicitazioni del privato (“Ebbi un amore giovanile / Più giovane di me di sette anni”; “…Mia madre se ne andò / Con le preghiere in gola nel mormorio / Dei gatti nel cortile”), ma anche, come quasi richiede la materia, affioramenti di una liricità di assoluto livello, magari anche solo per pochi ma illuminanti versi (“In un registro di crisantemi t’amo / Vetusta andata della giovinezza”; “Aureole di baci ultimi sonnambuli / Nature fossili i tramonti”). Certo il nucleo centrale è ancora quello di una dolorante esistenza, nel quale i vuoti vengono colmati (o si tenta di colmarli) con un iperlinguaggio la cui principale caratteristica sono gli accostamenti radicali e apparentamente insensati, con una iperdescrizione di porzioni di realtà la cui esuberanza è direttamente proporzionale alla consapevole impossibilità di raggiungere una qualche pacificazione. In questo senso il linguaggio di Marina è una medicina amara ma irrinunciabile – e perciò il lavoro di Pizzi è potenzialmente infinito, proliferante, come ho scritto altrove – un inevitabile pharmakon, insieme cioè un curativo e un veleno (esattamente come, nel Fedro platoniano, è per Socrate il testo scritto). Lo è anche, ovviamente, per il lettore, al quale è richiesto di mettere in discussione quella parte di ordinarietà da cui è affetto il linguaggio di ciascuno e di accingersi ad una lettura non passiva, per quanto seduttivo possa essere il mero abbandonarsi anche al solo impulso sonoro che questa poesia, dove sspuntano metri classici, irradia. Insomma, come scrivevo in altra occasione, “la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E’ una specie di viaggio esoterico, di riconquista di codici”. Da questo punto di vista forse quest’ultimo libro, in qualche misura e nei limiti del possibile, è più “leggero”, anche per le ragioni suddette. Ma è indubbio che certi punti oscuri, che spesso assomigliano a quelli della poesia della Rosselli che reputo essere uno degli “antenati” di Pizzi, certe immagini perturbanti come un quadro di Max Ernst (non mancano tratti surrealisti in lei) debbano essere assimilati e accolti, come pure certi termini feticcio come “gerundio” (“gerundio di fallacia il mio tramonto”), che rimanda direttamente a qualcosa di indefinito, ad un processo o un sentire sempre relazionato ad “altro” o singolari metafore (“gheriglio amanuense il mio ceervello / vellutato dal soffio di amore”). Insomma il consiglio che mi sento di dare è cercare sempre, nel testo, di individuare un nucleo, una associazione per quanto astratta, una metafora in genere più concettuale o cognitiva che meramente retorica o analogica. E’ lì che tutto si svela. (g. cerrai)
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