Ugo Magnanti – Il nome che ti manca – peQuod 2019
Conosco Ugo Magnanti da un po’. Una singolare figura di poeta militante, nel senso che non soltanto considera la poesia come parte essenziale e stile del proprio esistere, ma anche si prodiga per la sua diffusione con passione che può essere spiegata solo con la gratitudine per quanto da essa riceve. Così organizza eventi, incontri, tour ciclopoetici (di cui si ha traccia in opere come Ciclocentauri, con disegni di G.R.Manzoni, Fusibilia 2017), pubblicazioni in cui è sempre presente anche una buona componente di impegno civile ed umano.
Questo libro rappresenta una specie di autoantologia in cui Ugo “raccoglie un’ampia scelta (‘ampia’ rispetto a un corpus virtuosamente esiguo)” di poesia scritte in un decennio, tra il 2005 e il 2015, come ci informa lui stesso. Autoantologia che però vuole essere “opera autonoma che nasce dalla ricollocazione dei testi”, dalla espunzione di altri, dall’inserimento ex novo di prosette liriche ecc. In effetti, a dimostrazione che il lavoro sul macrotesto è essenziale (e nemmeno facile), il libro presenta una notevole compattezza stilistica, un’idea precisa del risultato e di certo un filtro abbastanza feroce ed autoanalitico. Il che significa innanzi tutto una fede e una fedeltà (a canoni, a criteri, ad una musica, ad una ispirazione – in ultima analisi, ad un mondo poetico) nelle quali il mezzo e la voce trovano la loro definizione ed anche, come giusto, la loro giustificazione e la loro identità. Ma significa anche, o sembra significare, qualcosa di definitivo, una specie di sunto da una parte, dall’altra la cognizione di un limite oltre il quale il mondo e la voce per cantarlo finiscono o diventano eco. Sia chiaro, ammesso che quello che dico sia esatto e non solo un’impressione, solo i veri poeti sono in grado di rendersi conto di questo confine, in realtà un bivio tra la ripetizione e l’invenzione, il salto. Ecco quindi che leggendo si capisce cosa intende Ugo nella sua nota quando dice di aver voluto ridefinire, in questo libro, ” la funzione dei testi, senza alterarne la sostanza lirica, ma facendone scaturire nuove implicazioni, e un nuovo senso che risulta più vicino alla mia attuale stagione creativa”. Una svolta, quindi, senza tagli. Che ci dica da dove proviene Magnanti e forse dove va, anche se “eludendo il criterio cronologico” Ugo volutamente non ci aiuta. E’ la scelta di identificare in sé e nella propria opera una o più costanti: una lingua sempre controllata, coerente all’idea o all’immaginazione, in grado di restituirne sempre la dimensione lirica ed evocativa ma sempre depotenziando qualsiasi esito scontato od usuale; la necessità di un confronto con la propria capacità di intendere e sviluppare l’oggetto del proprio scrivere, uno scambio di battute costante tra quella che possiamo del tutto impropriamente chiamare l’ispirazione e il poliforme e insieme unico “io” o “tu” o “noi”, ovvero la centrale figura poetica intorno alla quale ruotano non solo i testi ma l’intero libro; l’incessante domanda, eplicita o sottesa, che sempre alberga in queste poesie e che non riguarda tanto (o non solo) l’usuale senso della vita che banalmente si associa alla poesia lirica, quanto piuttosto la richiesta alle cose di un corrispettivo per così dire dialogico, fossero pure un filo d’erba a febbraio o “le conchiglie dentro un certo recipiente di vetro” o oggetti che mi ricordano un paesaggio pasoliniano (“E’ solo un palazzo fra tanti, / un prodigio sollevato / dal deserto”), ma anche qualcosa di più astratto come “un buio a cui appena per un pelo sfugge il senso”. Intendo con questo il bisogno di trovare – e di riconoscere ad essi un giusto rispetto quasi reciproco – dei landmarks, dei punti di riferimento a cui annodare il discorso, e che in quel senso ci fanno esistere). Indizi di realtà che forse cercano di circoscrivere il “caos pieno di figure” di cui parla Carlo Bordini in una breve nota, o forse compongono il liber fragmentorum a cui accenna Rino Caputo in un’altra; e infine, tra le costanti, un sottile understatement emozionale che da una parte si appoggia ad una musica leggera del verso altrettanto costante, dall’altra non cela del tutto quella nota neoermetica che Ugo dichiara di aver abbandonato né un senso di oscuro immanente che alla fine inquieta, come giusto, chi legge. Tra le cose migliori e belle, in questo senso, i testi più lunghi e ariosi appartenenti alla sezione L’edificio fermo, che infatti risalgono al 2015 e sembrano i più adatti a dare un’idea di possibili futuri sviluppi. Di altre poesie presenti nel libro, in particolare nelle sezioni 20 risacche, Poesie del santo che non sei e Il battito argentino avevo parlato in breve in un post (con testi allegati) di sette anni fa (v. QUI ). Mi sento di confermare quelle poche parole, soprattutto per l’intrinseco elogio della lentezza che quei testi contenevano e per quel loro essere come su una soglia, in procinto – scrivevo – di “svoltare verso altri impensati esiti” che magari poeta e lettore immaginano verso territori differenti. (g. cerrai)