Un articolo su Marina Pizzi, apparso, salvo errori, sul n. 3/2018 di “Versante ripido”, non ricordo se con diverso titolo (*). Lo ripropongo qui, con alcuni inediti tratti da “Feritoie ogivali (2017-2018)”, a sigillo di quanto ho già scritto sul lavoro di Marina almeno nell’ultimo decennio.
Segnacoli di Marina
Conosco la poesia di Marina Pizzi da un po’, almeno dal 2006, quando pubblicai una prima piccola nota sul blog “Imperfetta Ellisse”. Dovrei averne una certa dimestichezza, quindi. Ma con Marina non si può mai sapere. Perché, non ostante la sostanziale invarianza nel tempo della sua scrittura, come stile e come “forma” delle sue parole, c’è qualcosa nei suoi versi che ogni volta apostrofa il lettore, richiamandone l’attenzione. Credo però che sia qualcosa che interpella lei per prima, qualcosa di necessitante che non ha trovato riposo in tutti questi anni. Perché è potenzialmente incessante, un flusso che trova la sua prima evidenza nella numerazione seriale dei suoi testi, e poi una sistemazione con la pubblicazione su carta, in diversi libri, una sistemazione che tuttavia sospetto essere inquieta, in teoria suscettibile di essere rimessa in discussione. Il suo lavoro mi è sempre parso, forse a torto, un unico work in progress, con un nocciolo tematico duro che riguarda soprattutto la domanda di una ragione, o una giustificazione se volete, della vita e dei suoi accidenti, cioè del suo perché. Una questione tutt’altro che generica, credetemi, tanto vasta quanto sufficiente ad innescare quel flusso necessitato di cui si diceva. Sufficiente cioè a generare quella pressione che si scarica da ultimo sulla lingua, ma prima ancora, per usare una metafora, nel cranio e sui denti dell’autrice. Una pressione fortissima che ha bisogno di essere verbalizzata, ma che prima ha bisogno di essere selezionata, di essere filtrata tra quei denti serrati. L’angoscia di Marina è, in fondo, che per questo scopo non ci sia altro mezzo che le parole. Quali parole? Scelte come? E’ questo, secondo me, l’atto doloroso della scrittura di Pizzi, l’emergenza creativa che nasce magari da una semplice scheggia, un’assenza, una domanda d’amore.
Pizzi rientra a buon titolo nel novero degli autori “difficili”, come Amelia Rosselli (forse suo nume tutelare), come in parte Antonio Porta, come Marco Ceriani o l’enorme ma poco noto Augusto Blotto, o come altri, alcuni dei quali per un po’ della loro carriera hanno “sperimentato”, approdando poi ad altri lidi. Marina non è così, è invariante, come ho detto prima, non sperimenta. La pressione, raffreddandosi, non può che solidificare così, in queste forme. Nel tempo mi è parso di rilevare alcuni snodi, che soprattutto con la lingua/parafulmine hanno a che fare. Se è vero che per Marina non c’è altro mezzo che le parole, mi pare anche vero che in lei c’è una sostanziale e contemporanea sfiducia nel mezzo, nella intrinseca ordinarietà della lingua. Che pertanto deve essere sottoposta, nell’atto di poetare, non tanto ad una torsione, termine quanto mai abusato, ma ad una lacerazione, una disarticolazione nei suoi tessuti connettivi, per andare a vedere se al di sotto di essi c’è un’anima, un significato coerente. Significato di che? Di quella vita che a Pizzi appare pesante, e forse poco felicemente abitabile, ma anche di una morte che viene costantemente “contemplata”. La lingua a volte sembra esserne mero epifenomeno, di una realtà che è troppo sfuggente per essere amata o compresa o rispetto alla quale ci si sente inadeguati; o sembra essere il rumore di fondo, l’ “ambiente sonoro” (G. Lucini) di una lontanissima galassia. Da questo punto di vista in passato avevo scritto che “la poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore, la sua scrittura e’ ego-centrata e in quanto tale e’ pura rappresentazione del mondo (o della sua non riproducibilità) cosi’ come lo vede l’autrice” e che “da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E’ una specie di viaggio esoterico, di riconquista di codici”. Codici che riguardano soprattutto quello che chiamavo il particolare sistema metaforico (o metonimico) di Pizzi, nel quale non vige tanto l’accostamento, la (vero)simiglianza, quanto la distanza siderale, e dove non c’è niente da confrontare perché le cose si sustanziano alla sua sensibilità di poeta di ben altre qualità, sono letteralmente qualcos’altro, qualcosa più concettuale o cognitivo che meramente retorico (“mia madre è stata un piatto / da schianto sulla terra / una leccornia di vita”, Plettro di compieta, 2015; “Arazzo di comete fu la fine / Del rantolo finalmente alato / Lì giù mio padre che chiama ancora / E la madre che d’improvviso si fa / Poliglotta. Miracolo d’andarsene / Cortesi oltre il cimiteriale corso”, inedito). Un linguaggio, come si vede, in larga misura economico, perché veicola molto con poco, pur dissipando in quel poco molta energia, un linguaggio molto vicino alla “sorgente” del pensiero, ma anche ad una percezione quasi nervosa del dolore e della “privazione” (intendendo questo termine in senso ampio). Paradossalmente, tuttavia, quella lingua “limitata”, tanto da doverla in qualche modo riformare, diventa materiale plastico, elastico, anche col ricorso a metri non proprio canonici (per quanto spesso si affacci l’endecasillabo) ma senz’altro fonici, e anche con una certa liricità connaturata ai temi più intimi, quando emergono (“essere in vita è un criterio sperduto / un alunno senza lavagna né voce / di maestro”, Segnacoli di mendicità, 2014, ma gli esempi possono essere molteplici). In definitiva ciò che serve nell’affrontare la poesia di Pizzi non è tanto una cocciuta richiesta di senso, o di comunicazione immediata, quanto essere disposti a quello sforzo supplementare di cui parlavo. Leggere, rileggere, individuare i temi, che invece sono chiari. Farsi domande. Queste domande, alle quali una risposta forse arriverà forse no, sono il senso della lettura della poesia di Marina Pizzi. (g. cerrai)
(*) il titolo in rivista è “Non c’è altro mezzo che le parole”, pag. 30 del numero citato di “Versante ripido”.