Julian Charrière a Bologna, riflessioni sull’arte di Elisa Castagnoli

” All we ever wanted was everything and everywhere”

Julian Charrière (immagini tratte dalla mostra al Mambo di Bologna)


“ Prima luce dell’alba, paradiso perduto, noci di cocco divenute ordigni nucleari

Finzione nel cuore del Pacifico

Non siamo al di sotto, non al di sopra ma all’interno dell’oceano

Affondati dentro le acque per scrutare il sole atomico e oscuro dell’isola

in mezzo a promesse infrante dove eravamo soliti fluttuare.”

 

Iroojrilik, (Video 2016)

 

Nelle isole Marshall, varie imbarcazioni militari furono portate dall’esercito americano nell’atollo di Bikini per sperimentare diverse bombe atomiche. Questa specie di flotta fantasma, giace al fondo del Pacifico, là dove gli Stati Uniti avevano posto le loro basi logistiche per testare gli ordigni nucleari. Lì furono deposte, lasciate all’erosione lenta e inarrestabile dell’oceano al fondo delle acque insieme ai bunker costruiti sull’isola per documentare i lanci atomici. Avamposti di una fantomatica impronta coloniale, essi si ergono nella loro massa di cemento estraneo come intrusioni violente e brutali sul territorio, in un rigurgito di materia difficilmente assimilabile dal naturale processo di rigenerazione.

 

Charrière filma tali strutture atomico-industriali al largo del Pacifico insieme ai relitti depositati al fondo della laguna divorati dal tempo e dalle maree. Le immagini originali scattate dalle immersioni sottomarine evocano l’affiorare di una nuova Atlantide, riemersa dall’abisso come l’ombra sommersa di una civiltà perduta.

 

La prima immagine che si imprima nitida ai nostri occhi dal video è questa spiaggia arsa dalla calura incontenibile della crosta terrestre, surriscaldata come se la terra fosse preda di un processo di graduale auto-combustione, nella secchezza inumana della pietra divenuta roccia carsica in assenza d’acqua e di vita. Un sole rosso infuocato e immobile, semicoperto dalla densità nebulosa dell’atomica si erge sulla superficie opaca della crosta terrestre.

 

La seconda immagine: le profondità marine. La vita scorre al di sotto, attraverso forme infinitesimali, acquoree e indistinte dove fluttuano molluschi, piante, alghe e anfibi d’acqua in un rifiorire di vita semi-sommersa e rigogliosa nelle profondità del fondo marino. Una grande corazza ferrosa e pesante simile al relitto del naufragio biblico domina incrostata di muschi e alghe al centro di quell’immensità oceanica.

 

Rocciosa e gravida di scorie la costa a riva è sovrastata dalla grande nube atomica, esplodente o a esplosione fissa. Costruzioni, blocchi di cemento armato si ergono oltre la foresta amazzonica in piccoli squarci aperti sulla spiaggia arsa in mezzo all’oceano. Tale luogo di una natura primigenia e incontaminata diventa non-luogo violato dall’irruzione della presenza umana, usurpato e devastato dalle scorie degli ordigni atomici. Un sole rosso infuocato sovrasta la spiaggia granitica e solarizzata dopo la grande esplosione.

 

I detriti pesanti sono al fondo, come una grande macchina da guerra o sottomarino affondato e ricoperto di muschi e piante acquatiche. Inquadrata a distanza ravvicinata un’immensa zolla di terra fluttua pesantemente tra le acque; poi, sulla costa si snodano stormi, alberi e foreste pluviali, palme e felci coralline ancora frammiste a cemento e buchi neri: una varco in ferro intaglia uno squarcio oscuro sul blocco armato del bunker americano.

“All we ever wanted …” (installazione)

 

Di quel teatro sottomarino di navi sommerse nella video-istallazione bolognese resta solo un’elica in primissimo piano ricoperta di muschi e alghe marine, quasi a segno della deriva di scienza e civiltà prodotta da un’ideologia di illimitato progresso e indiscriminato dominio dell’uomo sulla natura. Là, ricerca scientifica e tecnologica sembrano aver dato all’umanità il potere di auto-distruggersi nella detonazione di qualche secondo, in un battito di ciglia, per un ordine dato dall’alto, per un calcolo errato di probabilità oppure per l’innescarsi in pochi istanti di un qualche ordigno devastante e distruttivo per l’intera umanità.

 

L’oceano se l’è ripresa, l’ha ricoperta della vita propria delle piante, delle alghe e dei flussi marini, l’oceano l’ha riappropriata rendendola un relitto singolare, un oggetto totemico, simbolico, ritualizzato dallo scorrere delle acque che goccia a goccia l’hanno ricoperta, avvolta e arresa alla potenza inarrestabile per quanto sommersa delle profondità oceaniche. Un abisso silenzioso e immobile in primo piano_ in questo mondo di mezzo, ultra-regno marino dove domina il silenzio assoluto, la non-assenza di forma in sé, l’arrendersi della vita allo stadio liquido e primordiale delle acque_ solo qualche pulviscolo bianco e infinitesimale, simile a pioggia, cadenza goccia a goccia nel silenzio avvolgente e si lascia udire sullo sfondo del grande respiro cosmico.

 

Come in un ritorno all’immensità acquatica della natura che silenziosa avvolge e avviluppa tutta la scena,quel rudere pesante in metallo è ripreso dalla forza incontenibile e illimitata delle acque.

 

Nello spazio immenso, soffuso e tenue della galleria dove la luce divaga a tratti, il cammino per raggiungere quell’unica finestra aperta sull’oceano è accidentato, costellato di massi e punti metallici grevi, pesi e ostacoli che spezzano pesantemente e si frappongono al suo libero scorrimento. Solo la bianchezza lieve e trasparente dei sacchetti d’acqua salata appesi, composti insieme in lampadario di cristalli liquidi, scorrevoli allo sguardo, restituisce leggerezza a quell’ ambiente carico di ombre e multipli riflessi, ingannevoli nell’oscurità.

 

Un respiro emana dal sottofondo ritmico della sala, lieve, appena percettibile lasciandosi avvolgere dal silenzio che precede il comporsi di una melodia o da quello che segue il battito innato di un cuore o di un respiro. Qui Charrière convoca il concetto freudiano di “sentimento oceanico” che è insieme dissoluzione del sé e compenetrazione in una totalità più grande dell’ universo, in una unità universale associata all’anima o a Dio.

 

“Silent world” (installazione)

 

L’acqua rischiarata dalla luce lunare ricompare nell’ installazione lasciata in oscurità nell’ultima sala al fondo dell’esposizione. Lì sono i sommovimenti intimi, impercettibili quasi, ora violenti e inaspettati, i flutti continui delle acque nel riflesso lunare mentre un baluginare di luci si inseguono e si riflettono sulla superficie. Come in un film muto dove non esistono dialoghi, parole ma solo accadimenti, sguardi, o l’affiorare limpido dei volti, la serie continua dei fotogrammi si susseguono l’uno all’altra mentre la luce irradia a tratti e s’apre sulle profondità immobili e divoranti delle tenebre. Luce che viene dal fondo, dall’oscurità della pelle, del tempo o della memoria, qualche volte dal sussurro o dal canto dell’anima, irrompe per sprazzi o guizzi improvvisi, mentre spirali libere e fluttuanti si disegnano, affiorano, prendono forma e poi dileguano per essere riassorbite dal nero del fondo.

 

Si creano o si rendono visibili là dove c’è movimento, mobilità e vita. Dall’oscurità immobile scintille d’acqua generano nuove forme, superfici riflettenti, immagini in movimento.

 

“Where water meets…” (fotografie)

 

Charrière cattura con la fotografia alcuni tuffatori subacquei mentre si immergono nell’abisso delle grotte calcaree messicane, dette cenotes mentre fluttuano e lentamente scompaiono in una nuvola sottomarina.

 

Là dove l’acqua incontra la durezza della pietra, la profondità dell’abisso, l’idea di vita che senza sosta rinasce, germoglia e si rigenera.

 

Là dove l’acqua incontra la pietra, la porosità della roccia calcarea che ritorna alla memoria liquida del prima; dove conchiglie marine ricordano d’essere stati pesci, anfibi o creature d’acqua.

 

Là dove l’acqua incontra la superficie levigata e calda dei sassi sulla riva insieme al calore che li avvolge e li riscalda trattenendoli sulla sabbia a ridosso della costa.

 

Là dove l’acqua incontra la massa vischiosa e impregnante del fango, la densità dell’arenaria, la motilità del limo invischiato alla sabbia nelle maree.

 

Là dove l’acqua incontra la profondità oscura di buchi neri e spaventosi che s’aprono sotto il fondale di pietra di alcuni tratti, poi la trasparenza limpida d’altri mentre la superficie si veste delle sfumature del fondale al di sotto: riflessi smeraldo, ora madreperlacei variegati di luce, d’azzurro o di verde marino. (elisa castagnoli)

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