Alessandro De Francesco – e agglomerati, degli alberi o

Alessandro De Francesco – e agglomerati, degli alberi oArcipelago Itaca, 2023

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Ci sono oggetti poetici di non facile manipolazione, almeno al fine di una nota, di una recensione, o solo quando si voglia citarne degli esempi. Ci sono oggetti poetici complessi, di non facile definizione, alla quale – forse – semplicemente vogliono sfuggire (“È un aereo? È un uccello? No, è Superman![1]“), giacché mettere in discussione il definibile fa parte del loro gioco. Parlare di oggetti poetici non è un vezzo ma una precisa intenzione. Specie nel caso di questo libro di Alessandro De Francesco, che è un libro, su questo non ci sono dubbi, ma forse non è alcune altre cose e altre  cose vuole diventare. Non è una desueta raccolta, non è una silloge, non è (ma forse forse) un prosimetro, non è, non mi sembra, una installazione, e volerlo relegare nell’ambito  della scrittura di ricerca o sperimentale sarebbe tanto generico quanto lapalissiano (oltre ad essere, dice l’autore, “un formalismo fuori tempo massimo”). Certamente è un oggetto che sembra soffrire di dover essere stampato su carta, di diventare statico, non interattivo, non ulteriormente deformabile (come vedremo). È proprio con questa materialità “definitiva” che ho avuto il primo approccio quando ho pensato di farne una piccola recensione, ricevendone di che riflettere. È vero che tutti i libri sono materiali e concreti, ma è anche vero che questo in particolare tende a rappresentare, di questa materialità, una vis insieme centrifuga e ineffabile, come un “prigione” di Michelangelo.

Per consuetudine di questo blog quando scrivo una nota su di un libro aggiungo anche, ad usum lectoris, qualche testo esemplificativo. Col cartaceo si lavora di scanner e OCR, con i pdf si fa una semplice estrazione dei brani che interessano, tutto lì. Ma il lavoro di De Francesco è un particolare assemblaggio di testi tipografici “originali” (che si presume abbiano avuto una stesura, digitale o analogica, precedente alla stampa) e frammenti, estratti, specimen di opere (libri, siti, documenti) diverse ed  aliene. I primi corrispondono ad un testo in varia misura “leggibile”, di cui cioè trasmettono un senso interpretabile mediante una qualche verbalizzazione (ma non necessariamente parafrasi), ancorché sia esso sottoposto talvolta a torsioni, sovrascritture, rovesciamenti speculari, cancellazioni, abrasioni o “danneggiamenti” di qualche tipo (v. esempi più avanti); i secondi sono “citazioni” (presenti peraltro anche nei primi) o copie, per lo più di dati, elenchi, nomenclature o – appunto – agglomerati. Sono questi ultimi, come vedremo, ad aver subíto la maggiore de-formazione, almeno finché andando in stampa sono sfuggiti alla ulteriore “violenza” dell’autore (ma va detto che quella dinamica, come suggestione di un moto inerziale, è destinata a perdurare).

Quindi la difficoltà di maneggiare materialmente l’oggetto è solo l’indizio di qualche interessante problematica. Perché – intanto – come si fa a trascrivere (citare) un testo che presenta forti difficoltà grafiche? Lo si riproduce, tecnicamente, proprio nel senso (in realtà ben più vasto, e politico) che intendeva W. Benjamin. E nel contempo si prende atto, proprio come lettori, che c’è una specificità in un testo per il quale il font o l’impaginazione o la direzione della scrittura non sono elementi ininfluenti (o variabili indipendenti) e che questo fatto ha un significato che trascende il testo stesso, inteso come insieme coerente di costruzioni sintattiche o extrasintattiche significanti (costruite dall’artista o da qualcun altro: qui si aprirebbe una questione che riguarda la “citazione”, chiamiamola così per comodità, ma forse ne parleremo più avanti).

Specificità e significato, abbiamo detto. Rispetto ai quali il lettore, oggettivamente in estrema minoranza, deve (o è costretto a) disporsi a un necessario “stupore”, proprio per il preponderante speso specifico di un’opera di questo genere. Che non è certamente quel “meccanismo pigro (o economico)” che ipotizzava U. Eco, e rispetto alla quale il plusvalore di senso (come direbbe sempre Eco) è tutto extratestuale, cioè risiede, per semplificare, non tanto nelle parole che in questo libro è possibile leggere quanto nella “allusione” che il lettore è chiamato a percepire in relazione al “destino” che quelle stesse parole hanno sulla pagina (in quanto, tra l’altro, mezzo evidentemente  obsoleto). Destino forse, nell’idea dell’autore, niente affatto fausto. Perché gli “agglomerati” di De Francesco (le concrezioni, gli inventari, l’inosservabile, come titolano alcune sezioni) sono spezzoni di realtà (alcuni dei quali, diciamo così, preesistenti e “rinvenuti” dall’autore) che sfuggono alla verbalizzazione, non trovano casa in una lingua in cui le parole sono carenti, fuorvianti, inesatte (a parte, certo, i brani più creativi, che sono indubbiamente i migliori del libro, alcuni davvero interessanti), in definitiva non “capaci”. In definitiva, una vecchia questione. E tuttavia interessante, come ho detto, soprattutto nel nostro caso per la messa in campo di strumenti e modalità vari e diversi, una scelta di mezzi che costituisce già in sé un’idea (o un messaggio, se preferite) e che non è neutrale, ad esempio nemmeno quando si utilizza, nel testo, una citazione enciclopedica, di per sé oggettiva (una modalità adottata da De Francesco anche in altre occasioni. Un esempio, accessibile a tutti, scaricabile, QUI). E la citazione è appunto uno di questi mezzi, il prelievo di parti, il loro esproprio, il riutilizzo, una sorta di ready made (che è scelta dell’autore, un atto di volizione e di memoria culturale, rizomatosa), la ricreazione e ricollocazione quindi di elementi che come già accennato hanno certo un loro status di inconfutabilità ma che sono collocati sul terreno letterario come problematici  menhir pretendenti a un senso. A questo va aggiunto, come accennavo sopra, il “guasto” del segno, che opera sia sulla produzione originale che sul “prestito”, nei modi che ho già citato che vanno dagli  interventi tipografici come cancellazioni e rovesciamenti agli spostamenti di testo fino alla deformazione spaziale che, mi pare, tenderebbe volentieri alla costruzione di fantastici quanto impossibili oggetti topologici. Un meccanismo complesso che è anche invenzione di scorie, di épaves di una  realtà tanto disastrata quanto ineffabile, ma forse soprattutto è la realizzazione dell’usura della scrittura, o quanto meno del limite del mezzo tipografico, la vecchia angustia di chi lavora con l’arte della parola, in special modo poetica, che a differenza di altre arti non ha modo di andare oltre o altrove se non diventando altro; magari, ecco ancora, con una fuga dal piano, con la ricerca di una tridimensionalità che però è essenzialmente iconica, non necessariamente significante, a cui contribuisce la torsione (in questo caso anche prospettica, come se, curiosamente, il lettore sbirciasse il testo da sopra la spalla di qualcun altro, in tralice).

E quindi, in ultima analisi, tutto bene? Sì e no, perché se da una parte stanno le interessanti questioni, le domande, i concetti, le suggestioni, gli spiazzamenti (anche di chi legge), dall’altra il libro appare non essere  superiore alla somma della sue (evidenti) parti e soprattutto c’è il fatto che – parafrasando Wittgenstein[2] – il limite della scrittura è il limite del libro, quindi il suo essere celibe, la sua impossibilità di andare oltre, oltre il carico di rottura che si prefigge, il suo essere “finito” proprio perché ha a disposizione (sua e dell’autore) una  potenzialmente infinita possibilità di replicare sé stesso in questa forma. Nel qual caso, al di là dei “formalismi fuori tempo massimo”, la ricerca sarebbe esaurita. (g. cerrai)

  1. non è la battuta di un film, è un esempio usato da D. Kahneman e altri in relazione al problema dell’identità sortale, che riguarda grosso modo la domanda logico-filosofica “che cos’è?”

  2. 5.6 I “limiti della mia lingua” significano i limiti del mio mondo (L. Wittgenstein – Tractatus logico-philosophicus)

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