Poesia e intelligenza artificiale: due o tre cose – nota di G. Cerrai

A partire da: Vincenzo Della Mea – Clone 2.0Samuele editore, La gialla di Pordenonelegge, 2023 (ma questa non è una recensione)

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Leggo di questa opera di Vincenzo Della Mea, presentata come una novità o forse una innovazione, creata utilizzando l’intelligenza artificiale (AI) di GPT-2. Leggo nella nota editoriale: “Vincenzo della Mea ha usato GPT-2, prima “addestrandola” introducendo circa 12.000 poesie (ma anche testi di informatica e di neuroscienze) lasciandola poi libera di creare poesia. La seconda fase è stata eliminare da questa super produzione le poesie che avevano troppi debiti o errori grammaticali, tramite dei software progettati dallo stesso autore umano, e infine scegliendo tra le rimanenti secondo il gusto dell’autore umano”. Tralascio le considerazioni presenti nella stessa nota, che magari vediamo dopo. Questo il fatto, di cui dobbiamo prendere nota, anche se la prima reazione l’ho espressa in un commento, una battuta, su FB (“Bravi, ora chiedete a GPT anche la recensione”). Ma dobbiamo trarne qualche lettura, se non altro per il fatto che secondo me si tratta di un brandello neanche tanto piccolo di quella complessità di cui si discute in diverse sedi.

La prima cosa che viene in mente, forse, sono i riflessi di questa faccenda sul concetto (primario nel campo dell’arte) di autore. Con una certa astuzia (o modestia) Della Mea parla di sé come “autore umano”, cioè fa un passo di lato, che però è quello del demiurgo asimoviano che dà l’input e controlla che la macchina svolga in maniera soddisfacente il suo compito. Se autore, in etimo, è colui che aggiunge, che fa crescere qualcosa, che inventa qualcosa che accresce il mondo, certo Vincenzo in questo caso lo è. Lo è perché ha le competenze, anche informatiche, per creare o adattare uno strumento, ha le competenze per gestire un’idea, un paio delle cose che deve avere un artista per crearne un’altra. Idea tra l’altro di per sé non nuovissima, in letteratura, pensando a Balestrini (Tape Mark I, 1962), a Silem Mohammad e il suo “googlism”, ecc. Ma già nel 1952 Christopher Strachey, un amico di Alan Turing, aveva creato un programma che scriveva lettere d’amore con una lista di lemmi tratti da un Thesaurus e andrebbe anche ricordato Theo Lutz che nel 1959 a Stoccarda, usando un computer Zuse S22 produsse delle poesie (Stochastische Texte) attingendo a frammenti del romanzo Il castello di Kafka. La storia è lunga, mi fermo qui ma bisognerebbe citare almeno H.M. Enzensberger (Poesie-Automat, 1974-2000) e, a livello di pensiero, il Calvino del saggio Cibernetica e fantasmi (1967).

E nelle arti visive o plastiche non è andata diversamente, in questo tentativo di “intrusione” umano/artefatto: dal ready made (in fondo anche l’AI fornisce un “prodotto” pronto) fino al NFT (come “firma” certa di un prodotto “incerto”) passando per opere come ad es. Edmond de Belamy, un ritratto creato dal collettivo Obvious (che nemmeno sono artisti) usando una rete neurale (e venduto a 432500 dollari!). Idem per la musica, non sto a fare nomi.

È anche vero, dunque, che ognuno crea con i mezzi che ha o che magari si inventa, si costruisce. Il punto è che cosa succede quando il mezzo travalica l’utilizzatore, lo influenza, il suo essere “oggetto” non è più così scontato, e nemmeno il suo essere un non-soggetto. Nessuno degli esempi letterari storici citati sopra utilizzava strumenti “generativi”, erano di tipo combinatorio, computazionale e spesso somigliavano a un cut up con altri mezzi. In un ambiente AI invece si suppone che la macchina non sia solo una forbice (oggetto) che taglia un testo in stringhe, ma che elabori “soggettivamente” – seppure sulla base di istruzioni – una selezione da una massa di dati linguistici che in potenza è enorme (più delle 12000 poesie fornite da Della Mea). Selezione che per il momento deve essere sottoposta all’occhio di un buon editor – “tramite dei software progettati dallo stesso autore umano, e infine scegliendo […] secondo il gusto dell’autore umano”, scrive Vincenzo – ma che tra breve o forse già oggi sarà in grado di scrivere un intero poema, magari fornendogli solo il tema principale o lo stile generale. Ma nel frattempo trovo abbastanza divertente questa macchina post-saussuriana che si muove tra l’asse della selezione e quello della combinazione, per il momento traballando. Anche perché la referenzialità e la fonte, vicendevolmente limitati, sono un altro dei problemi. Mi spiego meglio: in termini linguistici molta parte del discorso dipende dalla capacità di riferirsi ad “altro” sia fuori che dentro il linguaggio, qualcosa di molto vagamente simile all’alludere. Se la fonte è limitata (e 12000 poesie lo sono) il mondo linguistico che fornisce (e la sua referenzialità) è limitato, anche se la macchina è di quelle intelligenti i rimandi, le connessioni ecc. sono come echi in una piccola stanza. Solo un certo margine di casualità, lo stesso che sperimenta ogni poeta di fronte alla scrittura ma certo non maggiore di quello trattandosi di una randomizzazione, può dare l’illusione o la speranza di quell’aura che si tende ad attribuire alla poesia.

Tornando un passo indietro, il riferimento a Duchamp non è del tutto campato in aria, perché mi pare chiaro che questo non è un libro di poesie, ma un’operazione concettuale (magari nel senso artistico della parola). In questo senso credo interessante notare che grosso modo da Duchamp in poi uno dei modi di percepire l’opera d’arte, specie concettuale, è stato spesso quello della sua contestualizzazione diciamo istituzionale: in parole povere se un oggetto viene esposto in un museo o in una galleria è, o è molto probabile che sia, un’opera d’arte. Tanto più se come tale viene dichiarato. Potremmo dire lo stesso per la poesia, vecchia quanto l’arte ma molto più sofferente in termini di rinnovamento, molto più indietro nella ricerca di nuovi linguaggi, e certi sperimentalismi anche recenti ci hanno in effetti provato, tentando di dare autorialità all’interno di un libro di poesie ad elementi spuri o del tutto estranei come estrapolazioni di voci enciclopediche o cataloghi di autoconcessionarie “performati” in poetry slam (tralascio qui il “messaggio” della cosa, a volte rintracciabile a volte no). In un caso come questo, quindi, direi che si contestualizza un risultato (una risultante) in un oggetto “libro di poesia”, si afferma che quella è poesia, vive in un suo contesto, e il suo contesto è il libro, ecc. Forse il raffronto può apparire azzardato, ma in effetti è l’autore umano, almeno secondo quanto afferma Della Mea, a concedere alla fine il diploma di poeticità, a inserire il prodotto in un contesto, anzi nell’umano consorzio dei poeti. E lo fa come abbiamo visto in primis mediante uno strumento diciamo basico, “scegliendo tra le rimanenti secondo il gusto dell’autore umano” (la cibernetica fa i conti con un’estetica soggettiva, non disponendo al momento di quanto si è dibattuto di estetica nei secoli), ma anche con quel “algoritmo” umano a cui fa riferimento Vincenzo nella nota, alludendo a un “immaginario” o alla “nostalgia” che inevitabilmente si riverberano nella selezione dei testi. Insomma, poi alla fine decide quell’insieme di bias di cui siamo fatti. Nello specifico di cui stiamo parlando forse sta solo in questo l’atto di creazione. Ma è anche uno dei limiti, nella definizione di parametri qualitativi accettabili per noi e assimilabili per la macchina.

Del libro, che potrebbe essere molto migliore di quel che suppongo, l’unico testo che ho sotto mano è il seguente, diffuso dallo stesso Vincenzo:

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Non sa come convincerti in realtà a dire

che la lezione è chiara: continuare a vivere,

esistere finalmente dentro.

esistere appena sulla terra il mondo,

essere tutto quanto spazio per esistere!

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Leggendolo se ne trae un’impressione di vaghezza, di soggetto indeterminato, di una modesta riflessione esistenziale in cui la ricerca dell’autore si arena, di una sorta di crepuscolarismo aforistico, insomma di un testo forse di una certa piacevolezza diciamo un po’ standard ma complessivamente povero. Ma il fatto è che il computer, per quanto dotato di AI, non produce niente di “originale”, almeno per il momento, e il testo citato è vago non casualmente, per la questione della referenzialità cui abbiamo accennato, o forse perché alla fine lo stesso “gusto” del coautore umano non può fare molto di fronte alla rozzezza del prodotto.

Al di là del caso specifico, ho l’impressione che – ripeto – almeno per adesso da esperimenti come questo esca una poesia impoverita, ancor di più se la si priva, come qui, di un alone almeno di ironia (invece sempre presente nel concettuale), di qualcosa che la imparenti virtualmente non tanto con le avanguardie storiche quanto con gli storici esperimenti che li hanno preceduti, tutti segnati da una certa aria di sberleffo.

E allora? Allora forse aveva ragione Alan Turing, citato da Quenau: “soltanto una macchina può apprezzare un sonetto scritto da un’altra macchina”. O forse bisogna chiedersi, più seriamente, se lo scopo è produrre una poesia “migliore”, forse post-umana, forse libera dalle vischiose dinamiche soggettive; o se, per questo, i procedimenti automatici aumentano la creatività o la diminuiscono (ricordo che l’AI, proprio perché “comoda”, è giusto il contrario degli “algoritmi” e delle contraintes (costrizioni) che avevano inventato quelli dell’OuLiPo, i Dada, i surrealisti per stimolare l’invenzione – ma certo erano altri tempi); o anche se certe interazioni possono contribuire a interpretare la complessità in cui viviamo o a renderla più oscura. Vedremo. La questione non è del tutto eludibile, non solo in termini letterari. (g. cerrai)

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(Disclaimer: Nessuna intelligenza artificiale è stata molestata o ha subito danni durante la scrittura di questo articolo)

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Ringrazio Il Dott. Giovanni Melosi dell’Università di Pisa, dai cui scritti ho tratto qualche dato e spunti di riflessione.

Ph.: Clockwork Robot by Adeel Zubair (Flickr)

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