Come giuria della sezione C (poesie inedite) di Bologna in Lettere 2021 abbiamo anche il compito di stendere le motivazioni dei premi (o delle segnalazioni, come in questo caso). Pubblico anche qui, insieme ai testi, quelle di cui sono autore. – 1 –
Erika De Felice – Lungomare, Zara
Quella di Erika De Felice è poesia colloquiale, in conversazione con un tu di riferimento (“hai mai pensato…”, “per ricomporsi sai…”) che è specchio ed assenza, o forse è – almeno poeticamente – un alter ego con cui rapportarsi. Il luogo, l’ora (22.45 dei giovedì dispersi) sono puri palcoscenici, come quando si rimugina guardando l’orizzonte seduti su un molo, la presenza fisica è marginale rispetto al lavorìo del pensiero, la verbalizzazione di questo pensiero è connotata da una frammentazione di quello che poeticamente si riesce e si vuole ricordare, registrare a futura lettura, che poi è in parte il meccanismo della memoria (tutta questa poesia è in fondo memoriale e perciò elegiaca), e quindi secondo una procedura (non tanto retorica o testuale, quanto magari psicologica) metonimica (una parte frazionaria per il tutto, ad es.: “Le tue spalle / e il mio peso del mondo / solo questo ricordo / questo solo di te”), di cui anche la scrittura, la forma sono specchio. Un procedimento che rende questa poesia decisamente affettiva e perciò stesso immediatamente – diciamo – agréable, nel suo poggiarsi in definitiva su un ventaglio di sentimenti di privazione e di solitudine che conosciamo, che sono umani e quindi a noi (terenziani lettori) non alieni. Ma il sentimento di inquieta aspettativa di qualcosa non destinato al ritorno, al recupero, al nuovo abbraccio, quel sentimento è definitivo, “come una notte che non risorge”, ci dice l’autrice. Questa mancanza di un’alba (o qualsiasi speranza) è agnostica e perciò conchiusa in sé, qualsiasi esperienza in fondo, per quanto ripetibile in poesia, avviene per consumazione della stessa come in un giorno anch’esso ripetibile, “quest’oggi [che] non è passato”, qualcosa a cui forse ci si abitua (“nulla mi ripugna di te / nemmeno la morte che scorre sottile / nemmeno questo pallido vento”) ma a cui in fondo non si vuole credere (“e dimmi, alla fine / è poi questa la fede?”). La poesia dà voce, come può, a questo dibattersi come all’interno di una Skinner box, una gabbia da esperimento, una condizione che ha un che di destinale, di ontologico, forse – come l’angoscia – non del tutto sensato quanto irriducibile. “Questa vita – corpo confuso / ci contiene per sbaglio”. Il resto del mondo appare precluso. (g. cerrai)
LUNGOMARE – ZARA
Alle 22:45 dei giovedì dispersi
In fondo credo
anche tu ti sei disgiunto
come quando camminando
l’ombra ti assale e ti recide.
*
Hai mai pensato – sotto ai tuoi lampioni
le notti bianche come gelo e non hai più
tempo, ormai l’hai perso
come lei
che si calpesta
addosso e oltre
la notte è infranta, gli specchi muti
e soffia piano sottovoce
non passerà, quest’oggi
non è passato.
*
Ti sussurrava
scusa non potevo, no
la colpa che tu dici
è una lettera di fuoco
un marchio sulla fronte che ti cola
ha lui il tempo
non te lo rende
il pezzo al centro del tuo puzzle
da trenta e due anni e venti giorni.
*
Per ricomporsi sai
serve un riparo
un antro senza eco, magari
il palmo di una mano
lì
dietro una barca rovesciata
dove un uomo da lontano
sospinge il vento e
l’attraversa.
Le tue spalle
e il mio peso del mondo
solo questo ricordo
questo solo di te
e un taglio
un ritorno
la linea che trema
tra il collo e la sciarpa.
Così sarà la fine pensavo
se ci raggiunge
come una notte che non risorge.
Questa vita – corpo confuso
ci contiene per sbaglio
abbandona le ossa a te stesso
alle mani
abbandona i tuoi conti, abbandona
l’amore
guardami – opaca
senza vedere se
quello che sento chiamarmi
di te mi strappa la carne
non ti coprire
nulla mi ripugna di te
nemmeno la morte che scorre sottile
nemmeno questo pallido vento
ricorda – chi ci toccava
rimasto sbattuto ai deserti
nei vuoti
nelle cose del tempo
e dimmi, alla fine
è poi questa la fede?
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