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Poeti dalla Romania 1: Daniel D. Marin

Daniel D. Marin - Poesie con gli occhiali, Ed. Ensemble, 2024Daniel D. Marin – Poesie con gli occhiali, Ed. Ensemble, 2024

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Un poeta particolare, una poesia particolare. Ironica, surreale, a volte non sense a volte Oulipo, quando serve, quando cioè, come annota Ștefania Mincu nella prefazione, le poesie di Marin “non rimandano a un senso, ma alle stesse possibili formule del senso”, mettono in atto “finzioni date per vere”, con personaggi (o personae, direi) che “non attengono all’epico, ma sono puri segni coinvolti in modo bizzarro nel quadro situazionale delle proprie maschere fittivo-introspettive”, nel tentativo, molto attuale, di “usare un linguaggio gestuale-iconico, creare tra l’emittente e il ricevente uno spazio di percezione particolare, una mediazione non verbale”. Il che significa, riducendo il linguaggio specialistico e un po’ criptico di Mincu a qualcosa di più “digeribile”, che Marin cerca di non fare tanto un gioco di metafore, con i suoi personaggi che alludono a qualcosa di umano, alla Jean de la Fontaine, metaforizzando cioè il significato complessivo della “storia” che narra; tenta piuttosto di scalare il linguaggio iniettandovi per vie traverse ed ellittiche elementi del reale, in primis la sua assurdità, anzi – svelata con i suoi specialissimi occhiali – la sua “normale” assurdità. Per la quale non importa che il personaggio invece di un uomo sia ad esempio un coniglio di alabastro: è solo, come si direbbe in chimica, un accelerante.

Va detto però che il libro è radicalmente diviso in due parti, le prime tre sezioni (Poesie con gli occhiali, Madama civetta, Il coniglio di alabastro), nelle quali Marin esercita la sua fantasia surreale; e l’ultima, Il mondo in un chip, che personalmente preferisco di gran lunga, assai diversa per stile e contenuti, con testi anche molto buoni, che soprattutto non sono e non vogliono essere, a differenza dei precedenti, “molto assennati all’apparenza – se non addirittura puerili” (Mincu), che mostrano una concreta aderenza alla vita, alla realtà, alle dinamiche del mondo attuale, come si trova nella migliore poesia dell’Europa orientale (V. Holan, per citarne uno), e in qualche tratto anche una interessante aria “beat” (v. es. qui sotto Tra le crepe o l’ottima Il cane invisibile). E però da questa strutturale differenza tra le parti la raccolta non appare disunita, semmai va intesa come bipolarità di visione (come l’occhio di vetro del colonnello, v. sotto), come pluralità di registri, come alterità di prospettive che si riflettono sulla lingua, sulla parola, che in Marin è sempre concreta anche quando surreale, spesso ironica o giocosa, sempre “utile” e evidente come una buona lente di ingrandimento. (g. cerrai) Continua a leggere

Jacques Réda – Poesie

Jacques Réda - Di Pkobel - Opera propria, CC BY-SA 4.0Il 30 settembre scorso è morto a Hyères, dove risiedeva da tempo, il poeta, critico musicale e saggista francese Jacques Réda, considerato in patria uno degli autori più significativi del secondo Novecento. Per l’occasione ripropongo il post che gli avevo dedicato quasi dieci anni fa, sul vecchio sito di Imperfetta Ellisse, accompagnato da alcune mie traduzioni. (g.c.)

Jacques Réda (Lunéville, 1929) è un poeta, critico musicale e saggista  francese. Ha diretto la Nouvelle Revue Française dal 1987 al 1996. Oltre ad essere noto come inventore del verso di quattordici sillabe, che – dice – deve essere letto a voce alta, come tutta la poesia di cui valga la pena, Réda è considerato uno dei maggiori poeti francesi d’oggi. È anche autore di racconti in prosa e grande amante della musica, in particolare del jazz. È membro del comitato di lettura delle edizioni Gallimard. Collabora regolarmente a Jazz Magazine dal 1963. Ha pubblicato svariate opere sul jazz, tra cui L’Improviste (L’improvviso, 1980) che propone una lettura sensibile e poetica di questo fenomeno musicale. E’ autore di numerose raccolte di poesia, tra cui Cendres chaudes (1955), Amen (1968), La Tourne (1975), Hors les murs (1982), Sonnets dublinois (1990) e svariati altri, molti dei quali ispirati dalla città di Parigi e dall’osservazione dell’ambiente circostante, che ama attraversare in treno, in bicicletta o anche a piedi, raccogliendo le suggestioni anche le più umili di un mondo percorso a piccola velocità. Réda cerca nella casualità di incontrare qualcosa di apparentemente insignificante ma che riveli poi non solo una nascosta bellezza, una “meraviglia” inattesa, ma anche un significato più profondo, più universale. E’ questa l’ispirazione fondamentale della sua poesia, che appare di una voluta semplicità, lineare, diretta e comunicativa. Réda ha vinto il Grand prix de poésie de l’Académie française, il Prix Goncourt de la poésie, il Prix Roger Kowalski-Grand Prix de Poésie de la Ville de Lyon. È quasi del tutto inedito in Italia. (continua a leggere QUI)

Daniele Beghè – chicane

La chicane, ci dice il Vocabolario Treccani, è “una curva o serie di curve successive che vengono introdotte in un tratto rettilineo di una pista, per diminuire la velocità dei concorrenti”, ma anche un cavillo giudiziario, una difficoltà piazzata a bella posta in un percorso processuale, quindi un inciampo nell’ordine normato delle cose. In entrambi i casi devi rallentare, pensarci un po’ sopra, decidere qualcosa che non sia del tutto disastroso. In fondo, secondo Daniela Marcheschi nella quarta di questo libro, è proprio quello che succede a “un io mai autoreferenziale [che] privilegia lo sguardo orientato verso il quotidiano”, un quotidiano domestico, personale, frammentario in cui il passato e l’oggi, l’attuale, sono equamente divisi ma senza andare – sia indietro che avanti – troppo lontano, poiché le storie, la storia, la Storia sono tutte glocali, cioè situate in un orizzonte che è insieme contemporaneo, con tutti gli epifenomeni che si porta dietro, e locale e senza sbocchi, come la strada a fondo chiuso che l’autore o il suo alter ego poetico hanno abitato per sessant’anni (L.I.F.O. – Last in first out, pag.15). Posando lo sguardo su di esse è facile – e comunque necessario – rallentare, indugiando. Del resto, cos’è che vede Beghè, di che cosa parla in questo libro? Be’, lo abbiamo detto, si tratta di una porzione raggiungibile della realtà, e per giunta raggiungibile rapidamente, nel senso che – al di là di quanto compete alla memoria – tutto quello che questo sguardo raccoglie è sostanzialmente immoto, a portata di mano e alla portata di quel tempo che basta per una osservazione diciamo così “sul campo”, naturalistica e – sia detto sine iniuria – superficiale. Questa porzione, non tanto esperienziale ma direi oggettuale, è costituita da “piccoli episodi del tirare avanti” (Fanta e Lady Diana, pag. 71), eventi minimali, ricordi non memorabili, scene colte in giro per strada, nei quartieri o nei centri commerciali, “visioni” un po’ bizzarre che arrivano inopinate, magari guardando le posate “nel cassetto della cucina componibile” (Visure, pag. 49) o là dove “l’ambientazione appare comune e contemporanea” (Strati, pag.28). Direi che queste chicanes, questi rallentamenti non nascondono “decisioni”, come dicevo prima, né drammi, non comportano epifanie speciali né critiche politiche ma forse solo constatazioni, ed è comprensibile che a un materiale poetico di questo genere corrispondano, nella forma, “ritmi pacati pronti a sfociare con naturalezza in quelli più distesi della prosa” (ancora Marcheschi, e forse in prosa le cose migliori, anche in termini di scrittura, nella loro compiutezza scenica) e qualche ingenuità (“l’alta tensione che corre / sul pentagramma elettrico dei cavi” – Enfisema, pag. 23; “la panchina, corpo di legno / e metallo, è una bestia calma, / un’abitudine a bordo strada,/ se l’accarezzi sul dorso fa le fusa” – Bestia calma, pag. 27; “Non lascio che il temporale di oggi / infradici la miccia, quella dei sogni, intendo” – Miccia, pag. 32; “manca il battaglio alla campana / verde del vetro” – L’altra campana, pag. 64).

Beghè sa bene di porsi proprio “dove deraglia la catena di una minima storia” (L’ultima mosca dell’autunno, pag. 44) ma senza nessuna particolare irrequietezza, ironia o contraddizione postmoderna, un non luogo in cui cerca, non troppo convintamente, “un varco nel muro del sistema” (ma sistema, diciamolo, è una parola impegnativa). Varco che a volte lascia intravedere qualcosa (ad esempio quando l’autore fa qualche raro accenno al sociale, come le “morti bianche” in Lavoro a mano armata, pag. 18 – e però lo fa seguire da un’istantanea scattata all’Ikea, E relativo relax, pag. 19; ma anche il lavoro di educazione degli adulti e degli immigrati, l’interessante Legge regionale n. 14, pag. 72); più spesso, come se quel varco restituisse una specie di horror vacui, una insostenibile complessità del “sistema”, Beghè ripiega su qualcosa di più confortevole, come è quasi sempre la memoria, o l’osservazione non giudicante e irrelata, quasi da flâneur, di una realtà quotidiana immodificabile. (g. cerrai)

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Letizia Polini – Subsidenza

Letizia Polini – SubsidenzaPuntoacapo, 2024

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Opera vincitrice di Bologna in Lettere 2024, sezione Opere inedite, questo libro di Letizia Polini rientra nella categoria delle raccolte poetiche problematiche, poco “confortevoli”, nel senso che ti danno sempre da pensare più di quanto ti confermino in qualche logora aspettativa da lettore. È quello che dovrebbe fare la poesia, spostare, magari di poco, un limite o, come dico sempre, darti un’idea dell’aria che tira.

Un libro dalla rigorosa struttura, un percorso con poche deviazioni, un’idea di fondo forte e convinta che parte da un’immagine principale, una visione “geologica” dell’esistenza e dell’io (il nucleo drammatico dell’opera, per quanto astratto e un po’ sine causa manifesta, è questo), una surmetafora che principia con il concetto del titolo, la subsidenza, fenomeno che consiste nel lento e progressivo sprofondamento del terreno, per via antropica o naturale, per cause interne o esterne. Una sorta di proemio, cinque sezioni, alcune “tregue”, alcune “intrusioni” (altro termine geologico), qualche “fossile” scandiscono una inusuale mise en abyme, non tanto narratologica quanto intrametaforica, intersoggettiva e multilivello. Il punto di partenza, come ricorda l’amico Daniele Poletti nella sostanziosa prefazione, è il corpo, corpo rappresentato “che parte da una condizione più estrema, in senso nichilistico, quella dell’annientamento causato dalla gravità. Che poi sia una “gravità” declinabile come denuncia politica o esistenziale o entrambe le cose, starà al lettore deciderlo”. Va bene, accetto il legato. Intanto, condizione più estrema rispetto a che cosa? Come acchitto ideale mi paiono giusti i richiami, sempre del prefatore, sia al Bernard Noël dei clamorosi – anche perché era il 1956/8 – Extraits du corps, dove la carne è “la carne del mondo”, il suo prolungamento come dice mi pare Merleau-Ponty e il corpo, secondo Noël, è “l’imbuto interno” che introietta, distrugge, soffre e produce scorie, metafora e “correlativo oggettivo, di pura marca modernista, di quelle figure dell’ansia che presiedono al senso di finitudine dell’uomo contemporaneo” (Poletti); sia rispetto, negli anni Sessanta, al corpo antagonista “con[tro] le modalità di rappresentazione del soggetto nella nostra tradizione poetica” (sempre Poletti), ovvero come spostamento dell’io in una posizione decentrata e recessiva (ma potremmo ricordare, tra gli esempi, il corpo feroce di Bataille e quello come doloroso campo di battaglia della poesia femminista e post – ma certo si parla di un’altra generazione). Naturalmente non si tratta di stabilire confronti o paralleli, essendo che ogni opera, poi, è prodotto del tempo e del talento individuale e perciò bisogna unicuique suum tribuere. Continua a leggere

Pietro Roversi – Kaiser

È uscito, pubblicato da Arcipelago Itaca, l’ultimo libro di Pietro Roversi, Kaiser, di cui ho scritto la prefazione. La anticipo qui sotto, insieme a qualche testo.

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Di Pietro Roversi lessi e commentai sei anni fa il suo quarto libro, I pinguini dei tropici, stesso editore. Ne trassi qualche conclusione che forse potrebbe esserci utile anche ora, senza perdere di vista il fatto che questa raccolta che stiamo sfogliando è non poco diversa. Ma al di là delle differenze Roversi è un autore che non si smentisce, non rinnega innanzitutto il suo precipuo modo di vedere le cose, né il metodo (o lo stile) con cui le spinge e le tira fino a rovesciarle (non uso a caso questo verbo, come vedremo meglio). Ma appunto bisognerebbe intanto partire dalle cose, termine comodo in cui includiamo soprattutto degli “accidenti”, luoghi quasi topologici in cui quella che al poeta sembra una realtà notabile nel giro di pochissimi versi si torce e si ribalta come un nastro di Moebius. Succede tutto molto in fretta, nel pensiero poetante di Roversi: il lettore non fa in tempo a costruirsi visivamente un cantuccio riconoscibile (una casa, la cima di una montagna, una telefonata, o anche un’idea quasi banale) che subito si trova alle prese con una logica che deraglia non solo da una consecutio ma anche da una aspettativa di senso: il discorso non va come ti immagini, le cose (ancora il termine comodo) non si evolvono come ti aspetti, o forse non sono nemmeno più le stesse. L’effetto perturbante è assicurato, assumendo per perturbante «da una parte ciò che è familiare e piacevole e, dall’altra, ciò che è nascosto e tenuto celato, […] che doveva rimanere nascosto ma è venuto alla luce» (Freud). E però niente di angosciante per chi legge, perché Roversi vaccina il tutto con ironia (amara, forse feroce) e disincanto, la prima sostenuta anche da un frequente gioco di rime e assonanze, il secondo da un certo “dispitto” nei confronti dell’ordinario, del “va come deve andare”. Tuttavia al fondo di questo libro c’è una perdita, forse non sembrerebbe ma è così, una assenza, e soprattutto una rielaborazione per via verbale e poetica di questo “accidente”, come l’ho chiamato prima, e delle dinamiche che una scomparsa (del Kaiser, del padre, di questo si tratta) innesca con altri soggetti o proprio con quei segnacoli dell’esistenza che chiamiamo cose. Ma soprattutto con il soggetto stesso di questa scomparsa (e la morte, si sa, è anche una resa di conti). Ecco che il perturbante ci si ripresenta come “disordine” a cui la poesia vorrebbe provvedere, i gesti, i luoghi, le piccole manifestazioni della natura, la casa, perdono la loro staticità, si inquietano come atomi, suggeriscono nel giro di pochi versi una conclusione, quella sì definitiva, e quasi mai “ordinaria” o conseguente. Il fatto è, e Roversi lo sa benissimo, che di fronte agli eventi non siamo soli, e nemmeno liberi. Gli accadimenti, le persone circostanti, una certa inevitabilità del dopo continuano ad agire, come un effetto farfalla che agita un caos privato. In questo caos niente è “semplice” e tutto è emblematico. Così, ad esempio, (ecco, parliamo delle famose “cose”) l’osservazione del comune gesto (del padre?) di inzuppare nel vino del pane che «gli sfugge dalle dita. Come tutto / già nella vita» diventa (nel titolo) Il fallimento a Cana, ovvero, perfetto ossimoro, il flop di un miracolo, la transustanziazione dell’impotenza. Analogamente un vaso di fiori perde i suoi simboli (benché dia «adito / a interpretazioni»), diventa un mero contrappeso, «il primo / oggetto che capita a tiro» atto a nient’altro che bilanciare il pasto servito su un vassoio (in Fiori per papà). Anche altri oggetti, che sono in realtà i “superstiti” di una vita, creano turbolenze che la poesia registra, i libri da tenere o da disfarsene, un appartamento da dividere o da condividere, una casa che «la sua memoria già / crepuscolo distrutto, profezia / baggiana». Va così, e alla fine il poeta ammette: «Cambio / strategia finanziaria, investo / in altro immobile» e la metafora è chiara. Come dissi al tempo de I pinguini (che qui riaffiorano con la ripresa di due testi), Roversi ha una visione del mondo e delle cose parecchio metaforizzata perché la metafora è salvezza, cioè è regola, riduzione della realtà a qualcosa di sopportabile (ma non necessariamente meno doloroso), e nello stesso tempo cambio di prospettiva, pensiero laterale. Poiché la metafora opera per sintesi e trasferimento di senso, è logico che ne consegua una brevità del testo ed anche, a ben vedere, una puntuta nota epigrammatica. Una forma del genere, in altre parole, non fa sconti, arriva diretta, non lascia ampio spazio a nuances emotive, slanci lirici, giustificazioni, inutile cercare qui una nota di rimpianto, o una qualche nostalgia di memorie risarcitorie. Parlare di epigramma, sia esso voluto o meno, non è del tutto peregrino, poiché in antico proprio di questo si trattava, un breve componimento funerario, lapidario (perché iscritto sulla pietra) e nel bene o nel male definitivo. In questa postura autoriale in effetti sembra evidenziarsi una forza centrifuga, certo un allontanarsi, però alla distanza di una lama di fioretto, alla guardia, senza perdere d’occhio né le origini né le finalità di questa poesia, e nemmeno l’intimo legame psichico con tutti gli “accidenti” e i fantasmi che alimentano l’ispirazione di Pietro. È una materia fintamente leggera, ce se ne rende conto quando giunti in fondo alle non molte pagine che compongono questo libro (ma anche in fondo a ciascuna poesia) dobbiamo rileggere e riconsiderare non solo il pensiero ma anche le scelte linguistiche di espressione di quel pensiero, non separabili da esso, o cercare ancora un significato nascosto, adottando quindi una sorta di etica del lettore, per dirla con il grande Ezio Raimondi. Alla fine si resta con l’impressione di avere assistito ad una piccola e privata catastrofe (una “soluzione” nel senso classico del termine), una liberazione. Che sia definitiva non è dato sapere: in Ultimo bimbo di Hamelin il poeta bambino scrive il suo metaforico dubbio: «E io che sognavo / scomparissero i grandi (…) E invece è il contrario, incredibile, / qui ora solo adulti, / insostenibile». (giacomo cerrai)

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Viola Amarelli – Altamira, inediti

(Pratico una poesia sciamanica, a volte chiaramente,

a volte oscura; del resto, per le sciamane i confini sono per natura confusi)

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Non è un caso che Amarelli premetta al suo lavoro (Altamira, inedito) un esergo di questo tenore. È consapevolezza di sé, poiché tutta o quasi la sua poesia è permeata da un senso (o un desiderio) di “rivelazione”, a partire almeno da Notizie dalla Pizia, che passa attraverso il linguaggio o la lettura delle “nudecrude cose”, come titola una delle sue raccolte migliori (v. QUI ma anche QUI).

Altamira è manifestazione di segni, primeva concrezione di significati trasmissibili, luogo in cui bueyes pintados emergono dall’ombra millenaria di una grotta per dirci qualcosa di noi e soprattutto qualcosa di interpretabile, sì, e tuttavia interpretabile senza certezze. È, in altre parole, come una metafora della parte oscura del linguaggio, che si evolve, decade, cambia e però continua a contenere in sé qualcosa di árkaios, un nocciolo duro che intriga scavare. E che, tra le altre cose, è parte della natura stessa dell’arte.

Amarelli sembra esercitare sulla grotta di Altamira una operazione ecfrastica, una rilettura e riscrittura di un sentimento che aleggia sulle pareti di roccia, e una riflessione sul tempo seguente. In realtà descrive gli albori di una presa di coscienza umana ancora attuale, che comincia quando si capisce, con un graffio o un glifo, che la rappresentazione del vero non è solo comunicazione, chi disegna sulla roccia è anche artista e di più (” l’ha fatto, esulta, / ora è uno sciamano / qualsiasi cosa sia colui che crea”). E in fondo di quell’atto primitivo non importa tanto incasellarlo in recinti tutti moderni, non conta che sia magia, “ipotesi sciamanica”, “totem strutturalista”, “generatore onirico” o qualsiasi altra interpretazione. Importa che sia “con la creazione, gioia che continua”. La stessa gioia della piccola figlia dello scopritore di Altamira, che grida “guarda papà! buoi dipinti!”. Importa del pari che la forma o la rappresentazione del reale conquisti una sua libertà, libertà da interpretazioni o meglio da intermediazioni “sacerdotali” o rituali, abbia una sua verità. Importa che la creazione sia anche visione per chi scrive, una rivelazione per chi legge. Può essere che quello che vale per una grotta dipinta valga anche per la poesia? Non lo so, forse Viola, che sicuramente in quell’antico gesto di creazione si ritrova, prova a dircelo, tra le righe, con una scrittura che mi pare però più esplicita della solita, meno, diciamo così, “pitica”. Certo questa raccolta un valore metaforico, un suo senso essenziale ce l’ha, ed è certo che senza un po’ di scavo, di luce gettata negli anfratti, di ricerca sotto la superficie, non vale la pena neanche di mettersi a scrivere. (g.c.)

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Gabriella Grasso – Sciott

Gabriella Grasso – SciottPuntoacapo Editrice 2024

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Mi è capitato di riflettere, ultimamente, su (certa) poesia come non luogo. Un concetto che non mi sono ancora ben chiarito, ma che ha a che fare con una produzione poetica in qualche modo “indifferenziata”, che cioè non pertiene a nessun luogo né fisico né dell’anima, che potrebbe essere dappertutto e in ogni dove e forse appartenere a chiunque e quindi non essere coniugabile con il suo autore né con le sue radici. Una poesia cioè che – per varie cause che qui non indaghiamo ma che non hanno a che fare con stile, tendenza, forma, estetica – disegna “uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico”, usando le parole di Marc Augé. E nella quale il lettore, in varia misura, si sente solo.

Quindi è stata una coincidenza (ma non una rarità) imbattersi in un libro come questo, perché è una buona rappresentazione di un atteggiamento poetico ostinato e contrario, un libro che in primis stabilisce una sua cittadinanza non solo in un luogo (con quanto comporta in termini diciamo così di koiné, di appartenenza) ma anche e soprattutto in una realtà. In effetti il luogo è ben definito dalle parole introduttive della stessa autrice: è lo sciottu, nome di origine araba di una piazza di forma irregolare al centro della cittadina di Linguaglossa, ai piedi del Mongibello (l’Etna). Tralascio, come Grasso ci fa notare, la tautologia di questi due toponimi, negli incastri linguistici che vivificano il siciliano, prendiamola, al di là della curiosità, come emblema della malinconica e tuttavia passionale ridondanza che anima tanta letteratura dell’isola. Mi piace invece immaginare il set di questo libro di poesie, le piazze, le strade, le facce, qualcosa che ricorda il taglio chiaroscurale di certe foto di Ferdinando Scianna (es.: Villalba, 1983) o Melo Minnella o Enzo Sellerio, fotografo prima che editore. La piazza, naturalmente, è fulcro e pivot, o il bandolo di una matassa (spesso di microeventi) che tende a riavvolgersi in un moto tendenzialmente centripeto. Voglio dire, se molto parte da lì molto ritorna, o si spera che torni, o si aspetta che questo avvenga, soprattutto per una poetica ricerca di sicurezza. Che sta, appunto, nel luogo, nelle storie, nelle facce (“una faccia, una razza”, ma forse oggi, con i tempi che corrono, Salvatores non userebbe più questo vecchio detto greco), una comfort zone non ostante i brontolii del vulcano poco lontano (“siamo pronti a scappare / ma noi lo faremo?”). Sarebbe facile fare di queste facce dei personaggi, fare dei fatterelli dei bozzetti, ma diciamo che Grasso schiva molto bene questi rischi, come quello di uno strapaese alla Arminio, dato che mi pare riesca a sfuggire al momento cristallizzato, unico e “memorabile”, a favore di un tratteggio emblematico e plurale, che lascia spazio, tra i versi, al tipo di immaginazione a cui accennavo prima. Il mondo di Grasso sembra immarcescibile e invariabile come la morte, “tutto è qui dentro / tutto è stato / sempre / se chiudo gli occhi / tutto resterà” scrive in Commiato (Casa) per la sorella defunta, guardandosi intorno, descrivendo “arredi sempiterni”, elencando un po’ di gozzaniane buone cose di pessimo gusto. Questo mondo, come scrive, le sopravviverà? Non è detto, o meglio sì, sopravviverà nella misura in cui questo tipo di scrittura, di poesia (e chi la esercita), si farà carico di cantarlo e ricantarlo, di darne una comprensione che sfidi la surmodernità, o la semplice invasione dei turisti (v. sotto Zoom), di farne memoria, di “negoziare” con l’oblio, come direbbe Paul Ricoeur, quel che vale ricordare. Che potrebbe essere un fatto o semplicemente un carattere, un genius loci – elemento che mi è capitato di evocare annotando altri autori, come il messinese Enrico De Lea (v. QUI) o il comisano Fernando Lena (v. QUI) – o un “parlari” colto o non colto. Certo, la resa qualitativa dei testi qui raccolti non è uniforme, diverge tra brani molto buoni e altri molto molto semplici (es.: Il forno, o Rovesci) e però sempre sentiti, ma in tutti c’è una singolare corrispondenza tra questa materia “locale” (nel senso accennato in apertura) e lo stile o forma, come se certe storie non potessero che essere appunto “cantate” (o cuntate, e qui si torna a una vena popolare, anche siciliana) o cantilenate, con una curiosa predilezione per i settenari (“sembrerebbe lontano / ma il gigante vulcano / ha la bava alla bocca / e la sagoma nera”) e soprattutto, cosa rara, per cascate di decasillabi anapestici (“Lui cammina tenendola stretta”), che a volte si frangono in una risacca di inequivocabili endecasillabi o sono alternati con i citati settenari (“Il suo cuore ha ceduto stanotte / come carta velina / si è franto, e i frantumi hanno rotto / quella volta del cielo…”). A rimarcare, anche per questi segnali, che operazioni poetiche come questa, per aderenze o ossequi a una “tradizione”, non possono che passare per strade (o per piazze) ribattute, magari con un certa spontaneità e naturalezza come nel caso di Grasso. (g. cerrai)

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Carlo Gregorio Bellinvia – Lascio isola ben arredata…(inediti)

Carlo Gregorio Bellinvia – Lascio isola ben arredata con fantasia di navi lontane alle pareti, inedito

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Dal prossimo libro di poesie di C.G. Bellinvia, attualmente in via di revisione ed editing, pubblico un estratto di testi non definitivi (dalla prima e dalle ultime sezioni), e come ogni estratto non del tutto esplicativo, perché il libro ha ambizioni che non possono esaurirsi nella lettura di qualche frammento.

Già il titolo prefigura uno scenario, proprio in senso teatrale, uno sfondo, volutamente incoerente sia in sé che rispetto alla storia (c’è una storia) che nel libro si svolge. Il fondale, per così dire, suggerirebbe di non prendere sul serio tutta la faccenda, perché ogni libro si comincia dal titolo, e siamo già fuori gioco, scopriamo che forse non c’è nessuna isola, forse nessun io e che il titolo medesimo, fuorviante, non è che la battuta di uno dei personaggi. Già, i personaggi. Il primo che incontriamo e il principale è un essere (un bambino? un animale? un alieno?), che così a braccio mi ha ricordato, con tutte le differenze, l’allegro leprotto di Andrea Raos (Le avventure dell’Allegro Leprotto e altre storie inospitali, Arcipelago Itaca, 2017). Si chiama Cildreno Bambi, invenzione nominale di Bellinvia che crea un figlio (children) che si chiama Bambi e ne fa il protagonista di una serie di traversie. Possiamo senz’altro immaginare il riferimento al Bambi di Felix Salten, più che a quello sdolcinato della Disney. C’è anche una Mòtera (mother, ovvio), che però al momento della storia è già morta, a differenza del libro di Salten, e un Fàtero (father, certo) che c’è e non c’è, come in certe famiglie disfunzionali. Sulla base di questi e pochi altri elementi Bellinvia costruisce una sorta di favola feroce e insieme un romanzo di formazione, un percorso di maturazione di una identità inquieta, incerta, a volte irrelata, che stenta a trovare una propria unità (e i titoli dei brani, come mi dice l’autore, sono quasi sempre indicati come numeri decimali minori di 1 proprio in questo senso). Possiamo assumere che il Cildreno sia una metafora o forse meglio un’allegoria, come uno degli esseri di Bosch, o un freak alla Tod Browning, una figura dotata di una “ombra impressionante” e di strane conformazioni fisiche, allegoria di una metamorfosi, forse un Gregor Samsa che torna a un’umanità che più che somatica è esistenziale. Lo strumento principe di questo progredire è una macchina per scrivere Olivetti, “sua vicina di casa” che Cildreno Bambi sente battere oltre un muro e che, è sicuro, “sta scrivendo riguardo alla sua vita”. In essa, “macchina ribelle”, il Cildreno Bambi “avverte il regalo per un compimento”. Lo strumento emancipatore, quindi, è la scrittura, la regolatrice di un disordine, l’allineatrice di parole. E lo è, immagino, sia per il personaggio che per l’autore, che in questo libro mi paiono assolutamente inseparabili. Ma la macchina non è raggiungibile, rimane inizialmente un desiderio al di là di un ostacolo, qualcosa che “suona” la casa, mentre il muro “separa la carne col mattone in due berlino organiche all’interno”. Fino a che, scavando un pertugio, Cildreno non riesce a raggiungere (e siamo alla seconda sezione del libro) l’appartamento centoventuno, dove sbuca in “un salone dal mobilio d’oro”. Qui inizia una specie di viaggio esperienziale, a cominciare dal fatto che “non è oro, ma pirite, falsità”, dall’incontro con una “venere dal naso bollente”, con una realtà meccanica e commerciale (“eccolo, il fresco operatore mobile tim del novantasette proporre a chiunque…”) di cui lo stesso Bambi entra a far parte come oggetto e destinatario. L’appartamento, a simbolo di una realtà mondana in cui però tutto sfugge e tutto torna, appartiene a un personaggio nominato Nuovodottore, proprietario della Olivetti che, come in una visione alla Burroughs, sembra avere una vita autonoma. Il nuovo personaggio è forse demiurgo, forse curatore, forse torturatore, somministratore di farmaci dai curiosi effetti collaterali, ma in ogni caso mi pare rappresenti l’elemento catalizzatore della metamorfosi a cui accennavo prima. Dopo una fugace riapparizione del Fàtero, Nuovodottore ricovera il Cildreno in un ospedale, in quella che è la quarta sezione del libro. La scrittura, indicativamente, si fa io, prima persona, in un lungo testo dagli accenti a tratti anche lirici, segno di una sorta di appropriazione della storia, di avvicinamento all’identità e alla propria lingua, di riuscita all’aperto, al mondo esterno, per quanto esso sia “nero”. Questa sorta di rinascita, di conquista dell’unità di sé, simboleggiata dal ritorno nei titoli a “numeri interi e positivi” conclude una lunga elaborazione del dolore (anche di non conoscersi), del lutto, in quello che ho già chiamato un bildungsroman in versi.

Libro non facile, certo non perfetto e anzi forse bisognoso di qualche aggiustamento, ma capace di ironia, di critica, di ricognizione sociale, nel cui linguaggio le contraddizioni, la messa in mora dei modi di dire, la torsione lessicale, l’accostamento analogico (compresa qualche ingenuità), contribuiscono alla creazione di un oggetto letterario che potremmo forse semplicisticamente definire surreale, ma nel quale la cosa più importante è la sinergia attiva tra ricerca espressiva e concetto ispiratore e il tentativo ambizioso di creare un ambiente poetico inusuale, sperimentando senza rinunciare a comunicare un’idea. Quando uscirà nella sua stesura definitiva credo che sarà un lavoro di sicuro interesse. (g. cerrai)

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Edouard Roditi – Poesie

Edouard Roditi - Ph. : Stathis OrphanosEdouard Roditi, poesie

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Chi era Edouard Roditi (1910 – 1992)? Ne ho sentito parlare per la prima volta da Fernanda Pivano, nella prefazione a Sulla strada di Kerouac. “Un eccentrico di formazione cosmopolita e raffinata, (…) poeta maledetto, poliglotta ed esteta” che Gregory Corso aveva letto in carcere e aveva cercato di rivalutare tra i suoi amici beat, ignorando che all’epoca fosse ancora vivo. “Era un derivato del dadaismo surrealista e dell’omosessualità (forse più intellettuale che reale) di gusto francese. Aveva il passaporto americano ma era nato a Parigi da un padre nato a Costantinopoli e da una madre nata a Roubaix: per questo, mi disse, si considerava americano. Era un poliglotta alla maniera di Joyce e del mio nonno scozzese e aveva un modo irresistibile di raccontare storie omosessuali a sfondo autobiografico quasi sempre inventate; più tardi le pubblicò in un volume che resterà un fuoco d’artificio di aneddoti, di informazioni, di fantasia”. (F. Pivano – Altri amici, altri scrittori – Mondadori 1997). Quindi un americano di origine turca, ma che aveva studiato in Inghilterra per poi laurearsi all’Università di Chicago in Lingue romanze e cominciare a girare il mondo, risiedendo, per un lungo periodo dal 1929 al 1937, a Londra, Parigi (dove poi visse), Berlino, per infine morire in Spagna nel 1992 per un incidente. Personaggio complesso, marcato da molte culture e come vedremo da molte influenze anche importanti, padrone di diverse lingue tanto da collaborare in diverse occasioni nella Seconda Guerra mondiale alla radio del Ministero della Guerra americano in Francia e perfino come interprete multilingua alla conferenza di fondazione delle Nazioni Unite (1945) e nel famoso processo di Norimberga contro i gerarchi nazisti (lui stesso è accreditato del salvataggio di quasi 300 ebrei).

Uno che paradossalmente si considerava un “tre volte eletto” (“thrice chosen”, come si intitola la sua importante antologia del 1981) per il fatto di essere ebreo (entrambi i genitori lo erano), omosessuale ed epilettico, Roditi durante la sua carriera svolse un’intensa attività di scrittore, critico d’arte, critico letterario, saggista, insegnante in vari college e traduttore. Nei suoi soggiorni europei aveva incontrato e frequentato personaggi come Chagall, Ernst, Carrà, Fini, Kokoschka, Mirò ma anche Joyce, Breton, Eliot, Hart Crane, la Stein e altri, dedicando ad essi articoli e interviste, oltre ai saggi  relativi a Wilde, Proust, Cioran, Degas, Delacroix ecc. Roditi fu l’estensore a Oxford del primo manifesto surrealista in inglese (1929) e tradusse in inglese René Crevel, Alain Bosquet, Saint-John Perse, lo stesso Breton, e poi Kavafis, Celan, Pessoa, nonché numerosi poeti mediorientali e ebrei. Ma naturalmente fu anche autore di numerose raccolte di poesia, a cominciare da Poems for F del 1935, fino al citato Thrice chosen e altri, oltre a volumi di prosa e racconti, nei quali si intrecciano temi sociali (vedasi qui Giovanni Senza Terra), politici (v. qui Il prigioniero politico), amorosi ed anche spirituali, di derivazione ebraica, una letteratura – anche sacra – di cui era studioso. È sostanzialmente inedito in Italia. (g.cerrai) Continua a leggere

Enrico De Lea – Cacciavento

Enrico De Lea – CacciaventoAnterem Edizioni/Cierregrafica, 2024Enrico De Lea – Cacciavento – Anterem Edizioni/Cierregrafica, 2024

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Enrico De Lea torna a casa, da dove realmente non è mai partito, ancora una volta. Lo so, l’ho già detto, lo conosco da un po’, ne ho già parlato in diversa circostanze (v. QUI e di più QUI), cercando di intravedere alcune costanti e delle fondamenta, specie in ciò che riguarda quelle che genericamente possiamo chiamare le sue radici, poetiche e mitopoietiche. Perciò ritornandoci sopra c’è sempre il rischio di ripetersi o peggio ancora di rimaneggiare quanto dato per acquisito. Ma comunque tornare bisogna perché già il titolo, che come vedremo è voce dialettale, ci indica luoghi, memorie, tempi, impressioni di una precisa koiné. In un certo senso Enrico, come alcuni altri, è autore di un solo libro, non tanto nel senso in cui lo diceva Thomas Mann (un unico libro per cui, alla fine, un autore viene ricordato) quanto nel fatto che vi è nella sua produzione un tema centrale, con qualche corollario, imprescindibile come una forza gravitazionale che emana dalla sua Sicilia. Riepiloghiamo in breve di che si tratta:

la radice identitaria: certo la cosa più significativa, con gli inevitabili (e giusti) corollari della distanza, del là e allora vs. il qui e ora nonché della scala di valori che ne deriva (cos’è il meglio nella vita del poeta e di ciascuno, cos’è buono, cos’è “vero”).
il conflitto, direi inoltre, che ne deriva: nel senso dello scontro di direttrici a cui ti sottopone la vita (il paese vs. la città, lo sradicamento – non necessariamente tragico -, il lavoro e la vacanza – il temporaneo ritorno – ecc.) , conflitto che inevitabilmente si concretizza in un nostos irrisolto ma certo creativamente fecondo. C’è come corollario un discorso che concerne un sentimento di dislocazione e, ancora, la domanda (retorica) di dove, tra questi due poli, risieda la salvezza, dove sia casa.
la trasposizione del conflitto in termini linguistici: ovvero la distanza tra la lingua “speciale”, del lavoro, del quotidiano (che non appare ma c’è) e quella poetica e creativa, che diventa nel tempo, affinandosi, un vero elemento identitario, quasi un personaggio con le sue icastiche connotazioni dialettali (qui, non a caso, non c’è niente di “urbano”, non può esserci). Una “lingua salvata” (S. Aglieco) che forse a sua volta salva.
il tempo “diverso”: l’idea, forse vera forse anch’essa legata al personale mito di De Lea, che il tempo abbia una diversa connotazione nel luogo del ritorno e del desiderio, che abbia più valore, che duri di più, che consumi meno, che sia più “ricostituente”. E che sia, quel tempo, l’unico legittimo scrigno delle memorie, delle perdite, degli affetti, del manifestarsi fenomenologico della natura.

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