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Francesco Lorusso – Maceria, nota di G. Cerrai
Francesco Lorusso – Maceria – Arcipelago Itaca, 2020
Ma per la verità ho avuto un primo moto di delusione alla lettura. Almeno in riferimento all’unica pietra di paragone che ho, il libro citato all’inizio, perché i primi testi che qui si incontrano mi sono apparsi alquanto petrosi, di una certa difficoltà di comprensione, una specie di salto nell’oscurità. Per quanto abbia una certa esperienza come lettore di poesia, confesso che diverse volte ho avuto qualche problema a mettere a fuoco il nucleo del testo (lo stesso prefatore scrive, pur alla fine assolvendo: “questa scrittura che spessissimo sfiora l’incomprensibile e certamente denuncia lo slogamento del senso che è poi lo slogamento dell’esistenza”). Facciamo un piccolo esempio:
Bernardo Pacini – Fly mode
Bernardo Pacini – Fly mode – Amos Edizioni, 2020
Emilio Capaccio – Canzoniere della biondezza
Emilio Capaccio – Canzoniere della biondezza – Ed. L’arciere del dissenso, di Emilio Paolo Taormina, 2019, f.c.
Meccanismi in azione, ma forse con meno frequenza, anche nella seconda sezione del libro, “Canzoniere dell’estate”, dove l’amore c’è, è ancora presente ma disperso in un’aria estiva a volte onirica, in un’ambientazione leggera che tuttavia ha maggiori concretezze anche oggettuali, dipinge atmosfere più visibili per quanto qui decisamente più liriche, di un lirismo che Capaccio non teme, anzi esibisce senza infingimenti in tutte le sue tradizionali sfumature (“Vengono all’estate i violini piagnucolanti / delle ore lente dei giorni / inneggiano / alla fiacca sospesa delle mosche”; “Cantano i cappelli dei narcisi / questa rotta canzone”) e forse è proprio questo ricorso senza patemi d’animo a tonalità e registri che ci rimandano direttamente alla prima metà del Novecento a restituirci una certa piacevolezza, anche per così dire “eccessiva” come nella poesia Brandeggiano i loro spadici d’oro o in Fuori la veranda (v. più avanti) dove la fa da padrone un divertente affastellamento di termini botanici e entomologici, un’accumulazione che invece è piuttosto moderna e a volte ha esiti che sono – però qui volutamente – scherzosi (“Dimmi che sono io il tuo cochon d’Inde / l’uccello delle tempeste che svilisce nella ragna”). Se si superano steccati del tutto paradigmatici, come quello che divide il resto del mondo poetico dalla poesia lirica, non si fa fatica a dire che questa seconda sezione appare (per diverse qualità, accenti, disposizione e scelta della lingua, leggerezza, forse ispirazione) senz’altro migliore della precedente. Lo dico sulla base di un metro empirico che uso qualche volta, ovvero quanti testi a mio avviso meriterebbero di essere trascritti all’attenzione del lettore, che in questa sezione dovrebbero essere davvero quasi tutti. Forse merito, in sintesi, di una felicità dello scrivere fregandosene di alcune cose, che mi pare traspaia ed arrivi a chi legge da queste poesie di Emilio Capaccio. (g. cerrai) Continua a leggere
Giacomo Cerrai: inediti su La poesia e lo spirito
Oggi su “La poesia e lo spirito” l’amico Enrico DeLea ha curato la pubblicazione di alcuni miei inediti. Lo ringrazio di cuore e ringrazio LPELS dell’ospitalità. Si tratta di testi che risalgono ad un periodo che va dal 2014/15 al 2019 e corrispondono a “sentimenti” di scrittura abbastanza diversi tra loro e anche rispetto a quanto già pubblicato. “Bootleg” è il riflesso di una incazzatura, anche politica. “Soggetto due” (esiste anche un “Soggetto uno”, ne trovate una versione QUI) riguarda il sociale e le relazioni interpersonali. Nel caso dei “dettagli” (titolo del tutto provvisorio) si tratta poi di un lavoro ancora in progress che non è ancora chiaro dove vada a parare, ma che in sostanza dovrebbe rispondere a due direttrici abbastanza definite: mentre l’ascolto di sé e della realtà va verso il profondo, il basso, l’oscuro la scrittura corrispondente tende a riempire d’aria certi spazi vuoti e in qualche modo sollevarsi, alla ricerca di altre correnti in quota. Se vi interessa potete leggere gli inediti su LPELS QUI. Altri inediti, in parte collegabili a questi, li trovate QUI.
Gabriele Gabbia – L’arresto
Gabriele Gabbia – L’arresto – L’Arcolaio, 2020
Gabriele Pepe – L’inferno del nostro portento
Gabriele Pepe ama i titoli “giocati”, come ad esempio il precedente L’ordine bisbetico del caos (2007), che in un witz contengono già un indizio della sua poetica, o quanto meno del tipo di rapporto poetico/strumentale che ha con la sua visione del mondo e con il linguaggio. Che, come il suo estro, è “libero ed eclettico, magniloquente ex contrario“, come rammenta Plinio Perilli nella sua esorbitante introduzione. Lo (pseudo)shakespeariano “Inferno del nostro portento” potrebbe perfino vagamente richiamare certi ironici titoli o testi di gente come Corrado Costa (“Inferno provvisorio”), Gianni Toti, Emilio Villa, Paolo Gentilomo, ma la somiglianza si ferma lì. Costruito in tre sezioni (Urbi et orbi e la Teoria del tutto; Distanze vicinanze ed altre vie di fuga; Gli inganni del traguardo) i cui titoli celano tre poemetti (l’ultimo assai corto), in realtà ulteriormente e diversamente titolati, articolati in parti, a loro volta costituite da spezzoni aperti e chiusi talvolta da una punteggiatura (…) sospensiva (nella prima sezione), il libro appare un ambizioso canovaccio del mondo e della Storia, dell’individuo con i suoi accidenti e del cosmo, tratteggiato con un piglio a tratti epico/oratorio (grazie anche alle numerose citazioni classiche e non, e all’emergere di una ipermetrica altrettanto epica), a tratti aforistico, e nel quale il poeta si tiene da parte come un descrittore interessato e coinvolto ma sufficientemente disilluso, quasi – per quanto possa apparire contraddittorio – esterno alla faccenda. In realtà c’è materia per più di un libro, materia qui abilmente concentrata in una sessantina di pagine e trattata soprattutto con una lingua il cui tono principale è polemico/sarcastico, e con la quale Pepe, secondo Perilli, costruisce la sua “disquisizione”. Se dico materia per più di un libro vuol dire anche però che si ha a volte l’impressione di un veloce excursus a volo d’uccello, quello che Perilli chiama bonariamente un “passare agilissimo…dal Mito alla Storia, dall’Arcano al Culto sempiterno”, nel quale si toccano temi svariati e di per sé complessi, come la società dei consumi, il malessere del pianeta, la contemporaneità veloce, l’uomo in essa coinvolto ecc., e lo si fa spesso con flash fulminanti e assai significativi, a volte con aforismi secchi prima di passare oltre.
Carla Paolini – Moti moventi, nota di G. Cerrai
Carla Paolini – Moti moventi – Controluna ed., 2019
Carla Paolini continua, dalla sua postazione defilata, un lavoro sulla parola, soprattutto su quello che la parola, anche singola e apparentemente celibe, produce, all’interno del testo da una parte, all’interno del corpo che la emette dall’altra. Ne avevo già parlato qualche anno fa QUI e QUI, in relazione soprattutto, all’epoca, a una poesia in cui “il linguaggio coagula ulteriormente attorno a parole affini o parenti” e dove la parola stessa è un oggetto manipolabile, concettualmente, fino a farne una sorta di installazione, un testo cioè in cui il senso non è necessariamente conclusivo senza che, come in tutte le installazioni che si rispettino, il lettore “intervenga”, ci metta del suo, il suo “senso” o almeno la sua perplessità. Tuttavia, rimanendo nel campo del significato, sia in “Elettroshock” che in “Installazioni”, l’aura criptica del testo era abbastanza agevolmente perforabile, il senso, per dirla con Eco, abbastanza univoco, era cioè minore il grado di discrezionalità (in senso etimologico del termine) lasciato al lettore. Là si partiva, insieme all’autrice e secondo le sue parole, da “questo embrione energetico, [la parola da cui] il pensiero struttura e specializza nuove sintassi. La sostanza espressiva si diffonde, disseminando segmenti come linfonodi messi a difesa delle sue intenzioni. L’organismo poetico addensa fisicità singolari, s’installa sulla pagina e accetta l’urgenza di esistere”. Era perciò possibile e intrigante scoprire queste nuove sintassi (e nuovi sensi), cosa non facile senza una lettura “attiva”, che in fondo è ciò che bisognerebbe pretendere dalla poesia. Come si vede da certi termini isotopici (embrione, linfonodi, organismo, fisicità) centrale è il corpo emittente e anche ricevente forse vittima o succube, del linguaggio, ma comunque individuale, un corpo d’artista. Continua a leggere
Ilaria Boffa – About sounds about us (Di suoni e di noi)
Ilaria Boffa – About sounds about us (Di suoni e di noi) – Samuele editore, 2019
Un libro interessante, questo di Ilaria Boffa, che pone delle questioni rilevanti (e anche dei problemi) che cercheremo di vedere. In versione bilingue, con testo a fronte in inglese, composto dalla stessa autrice e dalla medesima tradotto in italiano (con altre collaborazioni per alcuni brani), il libro parte dall’idea-progetto di una “poesia sonora”, come ricorda Patrick Williamson nella prefazione, ovvero di testi in cui l’elemento fonico, sonoro sia parte preponderante, sebbene non esclusiva, del significato, del livello comunicativo, almeno tanto quanto ciò che possiamo definire come “tema” o motivo dello scritto stesso. Dovrebbe essere, il libro, il punto di coagulo o di affioramento di un percorso artistico in cui è coinvolta l’autrice, che come si legge in una nota “dal 2018 produce lavori che uniscono poesia e field recording in collaborazione con musicisti italiani e stranieri”. Come avverte il prefatore, si tratta di mettere in opera una “forma poetica nello spazio sonoro tra i suoni, i versi e le lettere”, là dove “le parole sono macro strutture che contengono informazioni ma le unità verbali sottostanti agiscono semplicemente come elementi sonici”, raggiungendo (o tentando di raggiungere) “una messa in atto poetica di uno stato di consapevolezza non-duale che collassa la suddivisione soggetto-oggetto” (quest’ultima affermazione, per la verità, appartiene a Timothy Morton, teorico degli iperoggetti e della realtà “viscosa”). E’ questa l’ambizione di fondo del libro, anche se mi pare che alcuni di questi concetti in realtà appartengano da sempre alla poesia. Dico subito che in questa raccolta non c’è niente, nemmeno a livello di citazione, della poesia sonora come storicamente la intendiamo in Italia, almeno non quella che ruota intorno a nomi come Giovanni Fontana, Arrigo Lora Totino, Julien Blaine, Adriano Spatola, Gian Pio Torricelli e altri. Il suono in questa poesia deriva, come rimarca anche Williamson, in gran parte dall’uso abile di certi strumenti retorici e pararetorici, dalla selezione verbale per la quale “il suono si adagia su precisi schemi di vocali e consonanti tramite assonanze, allitterazioni, quasi rime e ripetizioni”, come annota Williamson, che di seguito porta l’esempio del primo testo del libro (The sounds of language/I suoni del linguaggio – v. sotto). A questo va aggiunto un uso esteso di “‘s’ sibilanti come suoni iniziali o terminali quasi ad incollare insieme i propri testi, in particolare in Sustain/Sostieni (v. sotto), e una terminologia sonora” (terminologia quale lo stesso sustain, come sa qualsiasi musicista. Andrebbe comunque marginalmente osservato che la citazione di terminologia sonora non è poesia sonora, è semmai metapoesia). Continua a leggere
Roberto Ariagno – L’eredità di un occidente, tre poesie e una nota

Roberto Ariagno – L’eredità di un occidente