In attesa di parlarne domani con lui (Pisa, Libreria Erasmus in Piazza Cavallotti, ore 17.30) pubblico un paio di testi tratti da Un regno di ciechi senza doni di Stefano Guglielmin (Marco Saya Edizioni, 2023). Come forse è noto l’ossatura del libro – insieme ad altri fili come il fare teatro e metateatro, il fare poesia e metapoesia, la scrittura, la biografia personale – è la trama dell’Amleto di Shakespeare, come emblema (anche) del rapporto tra realtà e finzione, quella letteraria compresa, e della inanità del singolo di fronte alla complessità del mondo. (g.c.)
Teschio
Qualcuno mette il teschio in mano al principe nel monologo
famoso, anzi glielo posa sul palmo: bianco su bianco, nel fango
intorno.
Nell’Amleto del ’55, tuttavia, l’eroe Gassman sta supino,
a mani vuote, poi si solleva e, seduto, recita in preda alla noia;
quando arriva Ofelia, si alza e le va incontro, senza dare tregua
alla parola né al tono.
Non dissimile Laurence Olivier: dopo una vertigine di scale,
su una melodia hollywoodiana spalanca un mare a precipizio,
cui guarda con dolore, una lama in mano pronta a porvi fine,
nel film che vinse l’Oscar, nel ’48. E Zeffirelli?
A mani nude, Gibson scende in una camera funebre, la voce
splendida di Giannini ne intona lo sconforto mentre monologa
col marmo di una fanciulla morta. Tutto è pietra e penombra.
Amleto-Alice nello specchio, invece, nel monologo di Kenneth
Branagh, inamidato in un candido palazzo, si misura i passi,
additando col pugnale i malanni universali; anche a lui
l’Oscar nell’America dei record del ’96, prima della grande
Recessione.
Il teschio arriverà alla fine, forse il terzo in ordine di emersione:
dalla terra consacrata esce Yorick, il burlone, l’indifeso, il libero
battitore di Elsinore. Amleto lo coccola come un figlio prossimo
a sparire.
Amleto e Yorick
Due occhi su due orbite cave,
il vivo vi si specchia: vede il futuro
e le spalle di un uomo buono
strette a cavalcioni;
che il buffone sia suo padre?