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Michele Zaffarano – ISTRUZIONI POLITICO-MORALI all’indirizzo dei nostri giovani poeti…

Michele Zaffarano - ISTRUZIONI POLITICO-MORALI all'indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e sulla assimilazione dei concetti nuoviMichele Zaffarano – ISTRUZIONI POLITICO-MORALI all’indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e sulla assimilazione dei concetti nuovi – [dia*foria / dreamBook ed. , 2021


Dalla bandella del libro: “Un
coaching mentale: è questo che ci propongono le Istruzioni politico-morali. Un esercizio di poesia pratica a uso e consumo dei giovani, poeti e non poeti, svolto a tappe forzate e a velocità di fast-forward. Le Istruzioni appartengono totalmente, integralmente e radicalmente alla loro epoca: esibendo una natura persino più corporate rispetto a quella degli uomini d’affari più accaniti, scavalcano allegramente a destra l’ultraliberismo in affanno e s’impossessano degli elementi della lingua di quest’ultimo per risputarli poi fuori in forma di tautologie e di ridondanze, a mitraglietta, fino all’esplosione finale. Quello di Zaffarano è uno dei libri più divertenti che ci possa capitare di leggere in questi tempi così sinistri: il suo umorismo meccanico e sleale ci fa pensare a un Alfred Jarry che abbia barattato la bicicletta con il Falcon 1 di Elon Musk. La verità è che, proprio grazie al fatto di crederci troppo, le Istruzioni riescono a smontare, o meglio a saccheggiare, non solo la logica capitalista, ma l’intera metafìsica occidentale, con tutta la sua scolastica e i suoi esercizi accademici, con tutta la sua tradizione, i suoi concetti, le sue problematiche, i suoi obiettivi, le sue informazioni utili, le sue tecniche, le sue idee generali, le sue quantità, le sue cause, le sue conseguenze e le sue soluzioni. E a questa metafìsica che il poeta fa fìnta di vendersi, per meglio continuare a operare nella lingua una riduzione in tutto e per tutto apparentabile alla riduzione rituale delle teste, praticata lasciandole bollire per molto tempo e ricucendone in seguito gli occhi e la bocca. Le Istruzioni politico-morali non hanno insomma nessuna pietà, non propongono nessun accomodamento possibile: una «forma d’azione estrema», come direbbe Jean-Marie Gleize”. (Nathalie Quintane)
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Enrico De Lea – Giardini in occidente

Enrico De Lea - Giardini in occidente - Seri Editore, 2022Enrico De Lea – Giardini in occidente – Seri Editore, 2022

 

Enrico De Lea è una garanzia, sotto diversi aspetti. Posso dirlo – poi vedremo in che termini – perché lo conosco da tempo e in diverse occasioni ho scritto delle annotazioni sul suo lavoro (v. QUI), a cominciare da I ruderi del Tauro (L’Arcolaio, 2009), che possiamo considerare il suo vero libro d’esordio (un’altra raccolta risale al 1992). Enrico, pur avendo affinato nel tempo la sua scrittura soprattutto in termini di “precisione” del dettato, è sostanzialmente fedele a sé stesso, ai suoi temi, a un suo costante “ritorno a casa”, anche nel senso di rielaborazione modernizzante di una tradizione lirico elegiaca con venature crepuscolari e con modelli anche molto alti come, per dirne uno, Bartolo Cattafi. Lui però ne fa un filone tutto suo, che non dimentica lezioni anche filosofiche (potremmo  azzardare, in questa direzione, uno sguardo gramsciano, specie in quel che di “popolare” si intravede sempre nei versi di Enrico, nel suo tematico ritorno alle radici). Di primo acchito diremmo, ancora una volta, che di questo fondamentalmente si tratta. Il giardino, occidentale o siciliano che sia, accoglie e conclude in sé uno spirito e un mondo, è luogo di qualche quiete, di riti quotidiani e ricorsivi, di personaggi emblematici, del come si stava meglio, che però è in sostanza immoto, non coltivato se non nei solchi della memoria, abitato da lari che da lì, a differenza dell’autore, non si sono mai mossi, popolando di fatto la mitologia poetica di Enrico. Come Diego Conticello rimarca nell’introduzione (e come avevo già annotato negli scritti citati), si tratta prima di tutto (anche in termini di stagioni della vita) di “memoriale ritorno agli archetipi che si formano durante l’infanzia e tali permangono, fissi e irredimibili, nell’immaginario”. In effetti la biografia dell’autore ci parla di un uomo diviso (“dislocato”, dicevo altrove) tra il Nord, in cui svolge la sua attività professionale e che è di fatto assente nei versi di Enrico, e il Sud in cui risiede la sua matrice creativa e che è inteso appunto come giardino delle delizie (ispiratrici), una “Sicilia ancestrale…perduta nei meandri di un sonno millenario…ancorata ad una presunta età aurea di una civiltà contadina” (ancora Conticello), quindi naturale, quindi incorrotta ecc. (ed ecco perché ho parlato di elegia). Potremmo parlare di nostos (come fa Conticello e come feci a suo tempo), ovvero del nucleo più classico del sentimento insoddisfatto, dello sradicamento che esige (ma non ottiene) un’inversione di rotta, un cambiamento di per sé folle in una società attuale. Del resto ricordo cosa mi scrisse nel 2012, a proposito di Da un’urgenza della terra luce (ora ne La furia refurtiva), parlando di “un ossessivo, costante identificarsi coi luoghi resi luce e con la luce resa lingua e materia amata, una mitografla ctonia e naturale”. Potremmo appunto parlare (Conticello ed io) del tentativo, anche per mezzo del linguaggio, di recuperare una forza terragna che solo laggiù risiede e che l’autore ritiene salvifica, rigenerante. Mito, quindi, forse desiderio inesigibile (e che vale per quello), forse illusione. Non utopia, che come ricordava Michelangelo Pistoletto in una intervista vuol dire non-luogo, e appena trovi il luogo giusto per creare essa diventa realtà, e qui il luogo – per quanto mitizzato, antistorico, antimoderno – nei versi di Enrico c’è ed è il linguaggio che lo trae, lo ricrea da quelli che sono épaves, relitti della memoria o dell’immaginazione (come già ne I ruderi). Come già ne I ruderi (e altrove, v. link citato) il linguaggio alla fine diventa personaggio e voce, quanto mai lontano (in De Lea più che in tanti altri) dal linguaggio normato della professione (nessun termine tecnico entra nemmeno per sbaglio in questi versi) o da quello ordinario. Linguaggio condensato, anche nel senso analitico del termine, dove il recupero di forme colte o dialettali non è riuso o semplice citazione, ma funge da pivot eidetico, crea l’immagine e la lancia nel testo, lega e tiene insieme le cose e le memorie (vere, reinventate), pur distanziandole nella giusta misura (come nel culto dei morti, c’è sempre qualcosa di vagamente apotropaico nella poesia di Enrico, una “fasciatura”, come ho detto di lui altrove).

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Alessandro Silva Ferrari / Federico Galeotti – L’arte di allacciarsi le scarpe

Alessandro Silva Ferrari / Federico Galeotti - L'arte di allacciarsi le scarpe - Pietre Vive Ed., 2022Alessandro Silva Ferrari / Federico Galeotti – L’arte di allacciarsi le scarpe – Pietre Vive Ed., 2022

Ho già parlato in questo spazio del lavoro poetico di Alessandro Silva  in due occasioni su cui torneremo più avanti perché in diverso modo sono utili per capire qualcosa dell’autore. Ma intanto diciamo di questa ultima fatica, equamente condivisa con l’artista Federico Galeotti, disegnatore e illustratore autore di diversi libri nei quali la poesia e i poeti (Baudelaire, Poe, Blake) sono stata affrontati graficamente. In questo caso sono i versi di Silva a fare da contrappunto testuale alle tavole di Galeotti, in uno scambio di significati reciproco.
Il libro prende spunto dall’evento catastrofico avvenuto nel 2011 in Giappone, a Fukushima, dove la centrale nucleare venne severamente danneggiata da uno tsunami scatenato da un terremoto, compromettendo l’ambiente e la vita delle popolazioni con gli elementi radioattivi liberati dall’incidente, e causando decine di migliaia di morti. Un fatto di cui ancora ci ricordiamo e che tuttora ha effetti a livello planetario.
Non è un tema da poco, se lo si vuole affrontare con un mezzo “fragile” come la poesia, per quanto efficacemente sostenuto dalle immagini. Tuttavia Silva non è nuovo a impegni del genere, cioè a una poesia che sia insieme “civile” e drammaturgica, lirica e a suo modo cinematografica, con una storia individuale e tuttavia collettiva e con un suo epos. È un tipo di sfida che lo affascina, poiché nel 2016, sempre per Pietre Vive, aveva messo mano, tentando – come dicevo allora – di farne un poema (come adesso), alla vicenda tragica e ancora irrisolta dell’Ilva di Taranto, nel libro L’adatto vocabolario di ogni specie (v. QUI). Sfida già impegnativa per il fatto che si trattava di un’opera prima. Anche lì c’erano tavole di corredo, opera di Giovanni Munari, a supporto di una storia, di un racconto di vicende dolorose, di protagonisti in varia misura vittime di un disastro ambientale. Anche questo libro mi pare risponda a un’attitudine di Silva, che è in fondo quella di un’attenzione acuta e un po’ dolente verso “il mondo, quindi, come un catalogo permanente”, come cita l’esergo di Edoardo Sanguineti (presente qui, mi pare, anche con altre ispirazioni); ma le similitudini mi sembrano finire qui, per ragioni che è utile sottolineare. In questo ultimo libro, intanto, Silva fa una precisa scelta di linguaggio, o addirittura di riposizionamento rispetto alle precedenti scelte stilistiche. Nel Vocabolario la linea era quella descrittivo-lirica, in tono narrativo, con accenti di critica sociopolitica filtrati dalla saltuaria apparizione di un io compartecipe, un io personaggio che ogni tanto dava dolente voce alle vittime come un corifeo, le scene erano nette, discorsive, i fatti avevano una loro evidenza poetica come episodi esemplari. 
Silva sceglie di scrivere una sua Terra desolata, di giorni quasi uguali a sé stessi di persone normali, di piccoli eventi, di vita ordinaria di gente che prende l’autobus, di simboli del quotidiano come delle semplici scarpe o un gatto che attraversano tutte le scene, mentre qualcosa là fuori sta succedendo. E sceglie di scriverla con un linguaggio altro e distante dalla sua prima prova, ma anche da altre sue cose più personali, più intime o più liriche (v. QUI), una lingua poetica dal piglio sperimentale di una certa efficacia e di non poca inventiva lessicale, ma che porta con sé e trasmette un senso di oscura allusione, d’indeterminatezza, di chiusura ermetica riguardo a ciò di cui sta parlando. Tanto che se avessimo il solo testo forse non emergerebbe agevolmente il tema, l’occasione, il luogo, la denuncia se non con la sinergia con le tavole di Galeotti (che, sia detto per inciso e forse i meno giovani lo riconosceranno, in certi modi e tratti mi ricorda lo splendido Eternauta di Oesterheld e Solano Lopez), che tanto più funziona quando il verso, ma non sempre, diventa lettering del disegno, cioè si innesta in esso, nella sua rappresentazione. E questo va bene, se si considera – come giusto che sia – questo libro non tanto una graphic novel atipica (e men che mai un manga come ha detto qualcuno) quanto un’opera visiva mista – come certe opere d’arte in cui concorrono al risultato materiali di diversa natura e consistenza, magari asincroni ma funzionali – con il testo che assume una funzione più tipicamente soggettiva (anche in senso cinematografico) e non necessariamente narrativa (quindi “interna” o interiore); mentre la grafica si accolla la funzione diegetica, di racconto, scenica, o di uno storyboard possibile, e di raccordo con un immaginario visivo (quindi “esterna”). Sono due codici che mirano alla descrizione di due entropie parallele, una diciamo privata l’altra pubblica. Tuttavia questa dicotomia tra testo, che evita qualsiasi didascalismo nei confronti dell’immagine, e l’immagine stessa che ricrea la cronaca per spezzoni, alla fine nell’architettura complessiva dell’opera funziona bene, facendone, al di là della cronaca stessa, qualcosa di emblematico del rapporto tra l’uomo, specie l’individuo, e l’ambiente, nel quale la natura incontrollabile trova nei guasti prodotti dall’uomo un moltiplicatore. E la scrittura di Silva, nel suo cupo andamento spesso tanto simbolico quanto a tratti surreale (specie nella formazione di certe immagini) o dichiaratamente onirico restituisce al lettore la sua angoscia, una densa atmosfera che sembra presagire comunque il disastro, qualunque disastro, questo e quelli futuri. (g.cerrai)

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Francesco Tripaldi – L’individuo superfluo

Francesco Tripaldi - L’individuo superfluo - Ronzani Ed., 2022Francesco Tripaldi – L’individuo superfluo – Ronzani Ed., 2022

 

Tripaldi, lucano di Tricarico, classe 1986, avvocato specializzato in protezione dati, è con questo libro alla sua seconda raccolta, dopo Il machine learning e la notte stellata (Lietocolle, 2019), che purtroppo non ho letto, a parte qualche estratto apparso in rete. Ma in quest’ultimo di certo c’è molto della presenza tecnologica che quel titolo sembrava supporre nella sua antinomia tra Turing  e Kant, tra la macchina e l’uomo e il suo ethos. C’è in quanto rappresentazione di un vuoto che in qualche modo in natura deve essere riempito, nella misura in cui l’individuo di cui parla il titolo non viene tanto per così dire espulso da un contesto, ma tende a diventare superfluo motu proprio. Voglio dire, se l’uomo recede, batte in ritirata, una diversa natura, sia essa tecnica o comunque artificiale, tende a prendere il sopravvento. Tripaldi in questo senso mi pare ce la metta tutta, come uomo e poeta. Intanto diciamo che il lavoro di Tripaldi si inscrive a pieno titolo in una poetica della crisi che dura ormai da un trentennio, ma che nel frattempo ha perso per strada quanto meno la sua carica di critica politica del mondo, della sua complessità e del come in questa complessità l’uomo  navighi. Parlo di critica politica (in senso lato, come habitat del cittadino) perché, per quello che può valere all’interno del discorso poetico, una critica del mondo non manca nei versi di Tripaldi. Magari sotto forma di ironia, magari sub specie di torsione della lingua, di gioco di parole che mette in mora una certa sintassi delle cose, di inserto culturale (citazioni, riferimenti, altro, a volte puramente nominalistici), di espressionistici quadri sociologici  alla George Grosz (v. es. La iena ridens piange), di accumulazioni sintattiche che tentano una mimesi del caos (ma con le accumulazioni bisogna essere bravi davvero). In effetti Tripaldi padroneggia bene la sua lingua, soprattutto sui temi che più gli stanno a cuore, sebbene tenda a un certo barocchismo, o quanto meno ad un effluvio verbale non sempre funzionale, come nei testi in prosa che intercalano la raccolta, che danno l’idea sia di essere dilatabili a piacere, e quindi irrelati,  sia di essere confezionati secondo una ispirazione per così dire randomizzata, legata cioè a volte al caso, ad una certa accidentalità verbale, a volte all’ovvia successione del pensiero, insomma, per citare l’autore, “storie vere[,] quelle che fanno scintille ma non riescono a scoppiare”. Tuttavia l’effetto complessivo che ne esce è interessante, coagulandosi qualitativamente in alcuni (non moltissimi) testi di rilievo, come la malinconica, forse leggermente scontata ma vera L’immortalità dell’identità digitale (v. sotto). L’impressione generale che se ne trae è che Tripaldi sappia di cosa sta parlando, ma che non se la senta di scendere più in profondità, in certi inferi in cui l’individuo superfluo è abbandonato da solo, preferendo in certi casi un’arrabbiatura verbale un po’ beat, ma non sufficientemente crudele, per dirla con Artaud (che poi come sappiamo vuol dire – anche – sacrificio del superfluo di una lingua). Anzi, spesso c’è una rilevante componente di gioco, che è divertente di certo, cosa che a suo modo (ovvero in modo diverso), può costituire un valore a patto di ricordare che la carica “eversiva” del divertissement, del paradosso, dello sberleffo ha un limite, specie per un lettore che nella sua testa deve leggere, deve “performare”, il testo a modo suo. Ecco, appunto: mi pare che molti di questi testi siano stati scritti per un palco più che per un libro, per uno slam o roba del genere, o  almeno dovrebbero esserlo. Certe poesie sarebbero da urlare, o almeno dovrebbero esserlo, in un ambito in cui la ripetizione, o l’innamoramento per una formula (“a questa poesia va aggiunta l’IVA”) avrebbero la loro giustificazione. Il che non è insolito, fa parte anzi di una scelta plausibile nel ventaglio delle tendenze della poesia nostrana, della sua comunicazione. Comunque sia, al di là dei bit, dei server che conservano la nostra identità, l’individuo (che è l’autore) che esce da questi versi appare essere una specie di flâneur tecnologico e postmoderno però ben inserito, contemporaneo, urbano, qualcuno in fondo non tanto superfluo, semmai in qualche modo funzionale testimone intento a inventariare i sintomi più che le cause di una complessità (compresa quella dei rapporti interpersonali) non governabile. Più che una protesta è un presa d’atto, un ubi consistam condiviso da molti autori della generazione di Tripaldi, per i quali la realtà è (e forse non può essere altrimenti) una rappresentazione dolente ma frammentaria del presente. Se c’è un’ E-tica in questa E-poca, ci dicono, è quella di una seppur parziale presa di coscienza di questa realtà. Forse col tempo ne potrebbe uscire anche una praxis. (g. cerrai)

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Note a margine: Stefano Guglielmin e i dispositivi

Stefano Guglielmin - Dispositivi, Marco Saya Ed.Dopo la serata di presentazione qui a Pisa (21 luglio 2022, presso Libreria Erasmus) di Dispositivi (Marco Saya ed. 2022), raccolgo qui qualche appunto di lettura, cose di cui forse ho parlato con Stefano in quella occasione, forse no:
Consideriamo innanzitutto, per chi non la conosce, la struttura del libro. Organizzato in due sezioni, Dispositivi del poetico e Dispositivi della salute, il libro presenta in apertura due exerga di peso: il primo di Giorgio Agamben, l’altro di Amos Bianchi, due filosofi che affrontano il problema dei dispositivi come ideati da Foucault, il primo sottolineando la desoggettivazione che subisce l’individuo contemporaneo da parte del potere, l’altro la soggettivazione come modellazione che rende non unici ma singoli e perciò ininfluenti. Ma cosa sono i dispositivi? Tutto quanto, dalle norme agli oggetti agli strumenti, dalle istituzioni alle regole, da un computer a un cellulare, un giornale, tutto quanto instauri una serie di rapporti di potere e dipendenze non eludibili (V. anche la voce su Wikipedia, per quanto carente), non necessariamente tecnicamente chiaramente espressi (può essere qualcosa “tanto detto quanto non detto”, dice Foucault in una intervista del 1977) ma sempre aventi “una funzione eminentemente strategica”, che implica “una certa manipolazione dei rapporti di forza”.
Le due sezioni, come indicato dai titoli, prendono come “ispirazione” due aspetti che intersecano l’esperienza poetica (e filosofica) di Stefano e che diventano oggetto della sua speculazione (mi si passi il termine) in versi.

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Gabriella Musetti – Un buon uso della vita

Gabriella Musetti - UN BUON USO DELLA VITA - Samuele editore  2021Gabriella Musetti – UN BUON USO DELLA VITA – Samuele editore  2021

 

La morte è un attimo, ma la brevità di quello che la precede cos’è? È forse la summa o il fallimento, il momento topico o il realizzarsi di un momento apparentemente ininfluente, quasi banale, di un buon uso della vita, si chiede Gabriella Musetti (presente su IE anche  QUI). E quella è la morte improvvisa o naturale, non ricercata, una morte ordinaria se non triviale, comune, forse plebea. Si direbbe che c’è qualcosa della vittima sacrificale nell’accidente, o incidente, in quel che càpita insomma. In quei casi, dice Chiara Zamboni nella prefazione, “la morte crea il monumento dell’insignificanza”, essendo anche, come vedremo una “morte differita”, cioè sempre presente, in corso per così dire, a parte il suo esito irreversibile. Risiede in questo il loro essere sacrificali: essere in balìa, a disposizione del fato. Certo non tutte hanno la fortuna, o il coraggio di sperimentare, di Emily Dickinson, citata in esergo, la quale avvertita che nei boschi avrebbe potuto incontrare un Serpente o degli Spiriti Maligni, trovò invece dei poetici Angeli, una verità, un senso. “Le storie sono all’inizio tutte uguali”, dice Musetti, poi “ognuno trova a caso la sua stanza / chi bene – felice lui o lei – chi / con dolore”. È in questa casualità, e nella brevità dell’accadere che si riverbera sulla brevità  dei testi, che sta l’interesse poetico di questa piccola Spoon River (è la stessa Musetti a citarla in una nota) di vite al femminile. Per altre la morte è una specie di ricostruzione dei fatti, una conclusione logica, una dolorosa scelta, un esito programmato. Che  pertanto in qualche modo sfugge al destino, essendo appunto una scelta, un arbitrio, perfino un atto intellettuale, di “intelligenza”. Stiamo parlando delle figure femminili non anonime né ordinarie, che appaiono nella seconda parte del libro. Anche per loro, per motivi diversi, la morte è rimandata, differita, seppure ad un giorno esatto della vita. Si tratta di nomi noti: Plath, Woolf, Cvetaeva, Rosselli, Bachmann, Gaspara Stampa, Saffo, Alfonsina Storni, la Pozzi. Campionesse del dolore, della malinconia, del disagio esistenziale, della morte corteggiata. I nomi che avrebbero potuto essere qui (e forse ci sono, tra quelli non espressamente citati) sono molti, Pizarnik, Sexton, Ruggeri, Nika Turbina, la Campana, una scia di poetesse che hanno scelto di togliersi la vita, scrivendo fino all’ultimo giorno, di tornare “alla terra, alla terra come tale, al viscere terrestre”, come ci ricorda in esergo Maria Zambrano.

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Maristella Diotaiuti – . come cosa viva

Maristella Diotaiuti - . come cosa viva - Terra d'ulivi Edizioni, 2021Maristella Diotaiuti – . come cosa viva Terra d’ulivi Edizioni, 2021
Come scrive nel primo testo, in questa raccolta che mi pare essere il suo esordio poetico, Maristella Diotaiuti  “Inscena. l’oscuro. Prepara. la sua trama. Tesse. intriga. la tragica ironia”. Per chi non avesse il libro in mano diciamo intanto che questa interpunzione che frange i sintagmi, spezza il ritmo e il respiro, costringe la mente a ricomporre un senso è già un elemento di stile della scrittura di Maristella. Ma a parte ciò (ci torneremo semmai) il testo iniziale è già abbastanza indicativo, o addirittura programmatico, una specie di preambolo dell’opera in cui l’autrice ci dice tra l’altro che “Questo è il ritmo.  dei figli più belli. del mondo. i poeti”, i quali “Sanno. che la verità. è chiara e tortuosa”. Al di là di questo ossimoro la cifra di Diotaiuti è un’oscurità misteriosa, una materia ad alta densità che a tratti si riflette sulla scrittura, ma che non è perseguita o ricercata a fini mimetici, anzi è il luogo dove quella verità deve essere indagata. Non ci sono alternative, è una sfida che deve essere raccolta. E questa notazione per così dire metapoetica, che riguarda cioè il fare, non è esterna alla materia stessa, non è uno strumento ma una mappa. Il territorio, come in tanta poesia contemporanea, è  esistenziale, non tanto come mero vissuto (e quindi memoria) quanto come intreccio di domande spesso senza risposta (e quindi speculazione e angoscia). Questo nella sua generalità, poi naturalmente lo sguardo si volge in ambiti nei quali l’identità del poeta trova le sue eco, i suoi punti di riferimento, i suoi totem, e soprattutto gli essenziali appigli alla realtà vissuta e percepita. Che possono essere elementi oggettuali, rondini in cielo, odore di erba, una falce di luna ecc., senza tuttavia essere correlati oggettivi (cioè metonimie)  giacché la loro funzione principale, mi sembra, è quella testimoniale, un esserci insieme a chi osserva, il poeta stesso, che in questa rarefatta realtà tangibile è insieme presente e assente, ma comunque esiste, è momento di sé. In altre parole, le cose (“il concreto e il misurabile”) sono nel verso perché il poeta è lì ad attestarle  e ad esserne attestato. Ed è suo compito di estrarle (“le cose stanno / ritirate in se stesse / in una insenatura inconsueta”), di rinvenire la natura poetica di esse, accettare ogni “imprevisto grumo di realtà”.

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Francesco Lorusso, Mauro Pierno – Tra i tempi tecnici

Francesco Lorusso Mauro Pierno, Tra i tempi tecnici - Ed. SpagineFrancesco Lorusso Mauro Pierno, Tra i tempi tecnici – Ed. Spagine, Associazione Culturale Fondo Verri, Lecce, 2021

 

Un libro a quattro mani di Francesco Lorusso (già su Imperfetta Ellisse QUI e QUI) e Mauro Pierno, con una erudita e ponderosa postfazione di Antonino Contiliano che purtroppo non  aiuta molto la lettura. Ma vediamo di cavarcela da soli.
Diciamo intanto qualcosa sullo scrivere a quattro mani. Come affermano gli autori: “si voleva smontare il concetto della creatività come operazione individuale e solitaria e, contemporaneamente, indagare quali fossero i fattori che entrano in campo fra due “poeti” e colleghi di un medesimo luogo di lavoro”. È una interessante prospettiva, anzi una dichiarazione d’intenti che ci offre per ora un paio di suggerimenti, ovvero il cosa e il come. Il tema intanto, che sembra essere quello già caro al Lorusso di L’ufficio del personale (v. secondo link qui sopra), cioè appunto l’ambiente lavorativo. Ovvero il luogo in cui – lo sappiamo – lo spazio è limitato e il tempo viceversa sembra infinito e dove i due poeti, in un certo senso, coabitano per quel tempo che si è detto e per quel tanto che basta, direi, per – creativamente – assomigliarsi. E  poi, di conseguenza, come secondo punto la messa in opera concettuale di questa scrittura che è in teoria indistinguibile (vedremo poi se si tratta di un pregio o di un difetto), ma che in realtà (e mi scuso con Pierno, di cui non ho letto niente) nella sua tessitura mi ricorda parecchio il Lorusso di Maceria (v. primo link qui sopra). Ma non c’è motivo di dubitare che la scrittura a quattro mani si sia effettivamente concretizzata in questo libro, che cioè esso sia in qualche modo la realizzazione di quell’auspicato superamento della “creatività come operazione individuale e solitaria”, superamento peraltro nell’arte sperimentato diverse altre volte (basti pensare a collettivi come Gutai o Fluxus). Non c’è motivo di dubitare, ripeto, ma certo, stante la dichiarazione di cui sopra, una verifica (altro termine che ha ampia cittadinanza in arte, e che peraltro gli autori citano) non sarebbe superflua. Che intendo dire?

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John Taylor – Transizioni

John Taylor – Transizioni – Ed. Lyriks, 2021

John Taylor ci presenta ancora un libro notevole (nella traduzione di Marco Morello, con brevi note di Tommaso Di Dio e Franca Mancinelli, e illustrazioni di Alekos Fassianos), con il quale continua il suo personale percorso di decantazione di una scrittura già raffinata ed essenziale, come quella che era stato possibile leggere nel suo Oblò / Portholes (v. QUI), raccolta che possiamo considerare in qualche misura affine a questa ultima. Libri legati al mare, all’orizzonte, ad una visione quasi atomica delle cose, allo scorrere del tempo e in egual misura al suo cristallizzarsi in momenti che non sono tanto occasionali epifanie quanto l’umano avvertire nel mondo, come nella parusia platonica, la presenza di qualcosa di intensamente spirituale che evolve. Come scrive Franca Mancinelli “il suo sguardo [di Taylor] è richiamato dall’istante in cui le cose non sono più se stesse e insieme non sono ancora altro: è l’incanto del trasmutare, delle molteplici transizioni attraverso cui il giorno diviene notte, il buio si fa luce e la vita si avvera nel suo miracolo: «l’acqua […] sale / dalla scura terra». Ciò che avviene in questa sospensione può appena sfiorare la parola per poi subito rientrare nel non dicibile. Per questo i versi sono spesso brevi, come se Taylor tentasse di sillabare una lingua sconosciuta che coincide con il ritmo che avvicina e allontana le onde dalla riva”. Come ho già scritto John è uno scrittore europeo a pieno titolo, per stile, per ascendenti letterari, per cultura, e sarebbe possibile trovare nei suoi versi echi dei moltissimi poeti che ha tradotto e fatto conoscere in America, non solo francesi ma anche italiani come Alfredo de Palchi e Lorenzo Calogero. Qui ci trovo certamente Valéry, citato in esergo, ma anche un Mallarmé che va verso la luce, che abbia trovato sì una sua chiarità post-ermetica ma che continui a captare (ed è lo statuto del poeta) i segreti legami tra le cose, con quella visione quasi atomica a cui accennavo all’inizio. E tuttavia, come afferma Tommaso Di Dio, “non vi è qui nulla di misterioso che non sia evidente, nulla di occulto che non sia sotto gli occhi di tutti. L’estrema concentrazione formale di questa poesia porta alla rivelazione mediante contrazioni rapidissime, fulminei abbagli, iridescenze; la vertigine dei tempi e la tautologia dei deittici si fa pura materia espressiva: «questo mare quel mare / è fu / diventerà». Non posso che essere d’accordo, il poeta in realtà non inventa nulla, semmai immagina e riscrive la realtà che c’è, la interpreta facendo della poesia uno strumento ermeneutico. E la forma breve, per quanto poi allungata nelle due sezioni che sono quasi poemetti, serve a depurare ulteriormente, verso per verso, il lirismo che si accompagnava alle sue opere precedenti,  nella direzione di una sublimazione che da una parte è quasi orientale, in testi dove non è infrequente trovare porzioni che potrebbero essere tanka (”lo scintillio / nell’aria / sull’acqua / così uniforme / così avvolto dalla luce nebbiosa // il mare qualcos’altro / in quest’ora senza vento…”), dall’altra ci rimanda a Quasimodo, Ungaretti, Saba. Su tutto aleggia il movimento incessante dell’acqua, delle onde, degli elementi, della memoria, come una vitale vibrazione cosmica. (g. cerrai) Continua a leggere

Valeria Rossella – Quello che vedo

Valeria Rossella - Quello che vedo - Interlinea Edizioni 2021Valeria Rossella – Quello che vedo – Interlinea Edizioni 2021
Ricevo da Interlinea Edizioni, certo su indicazione dell’autrice, questo bel libro di Valeria Rossella, già presente su questo blog (v. QUI), in particolare per la sua raccolta di poesie La città di Kitež, uscita per Aragno nel 2012. Rossella, va detto subito, non è solo poeta di grande raffinatezza, ma anche studiosa e traduttrice dal polacco, in particolare del Premio Nobel Czesław Miłosz (sua ad es. la cura del monumentale Trattato poetico, Adelphi 2012). Già all’epoca, cioè nel 2012, avevo rilevato alcuni elementi di interesse, a cominciare da una inesausta fonte lirico elegiaca a cui Rossella attinge senza intellettualismi, forte della convinzione che la poesia, alla fine, appartiene solo a sé stessa, libera da correnti, schieramenti, rinnovamenti obbligati, modernismi. Così come avevo osservato a suo tempo, anche qui tornano protagonisti certi temi che appartengono alla natura stessa della poesia, al suo essere voce umana, pensiero, speculazione sull’esistenza (e tuttavia più della filosofia, giacché – dice Valeria – “i filosofi portano verità cariate nella bocca”): il tempo innanzitutto, topos tanto indefinibile quanto imprescindibile, matrice del flusso della vita e della memoria di essa, filza di attimi/coscienza in cui siamo stati, di cui abbiamo impronta (sia detto, ancora, senza scomodare filosofi); i sentimenti e gli affetti, compresa la mancanza, l’assenza, ma anche la persistenza che ad essi assicura il ricordo, sia pure nella sua poetica “inesattezza”, ovvero nella sua ri-creazione in versi, nella sistemazione di esso in un casellario privato; e c’è, in questa componente sentimentale/memoriale, naturalmente un sentimento del tempo, che scorre e forse ritorna come nelle piccole stazioni che “hanno due binari”, che in qualche modo  è un flusso ma “non sta su un piano cartesiano”, cioè non ha quella razionalità che alla poesia non può interessare, poiché semmai è (e il poeta lo sa) a rude stream di shakespeariana memoria. Va da sé che in questo repertorio tematico, qui come in Kitež, non possono essere assenti la morte e i morti. Rossella sa che “non si ritorna mai, non si ritorna”, la morte è un momento in cui “ciò che è lasciato è lasciato, il libro aperto / a pagina cinquanta”, il distacco anche improvviso da una concretezza di persone e cose, un precipitare “nel buio dove tutto è immoto, dove tutto è anemico”, ovvero un luogo scolorato e inerte. I morti, certo, ma anche coloro che si sono persi per strada, i lontani, i dimenticati, che cioè soggiornano in un limbo, quelli che solo grazie alla memoria, a un recupero poetico, “emergono dal permafrost degli anni”. Come un aruspice il poeta deve raccogliere i segni e risignificarli, siano essi cose concrete o memoriali o gli uccelli qui spesso presenti (civette, cigni, ballerine bianche, le mitiche Chere, storni o “uccelletti sconosciuti con la testa bianca”) oppure “gli oggetti-talismano, il Rocci, lo spartito / dell’Amore è blu”. È un procedimento creativo raffinato, in cui nulla va perduto e nulla è ridondante, e tutto o quasi, specie nelle poesie migliori, si ricombina in un testo poetico assai suggestivo, dove pensiero e immagine si abbracciano (v. ad es. più sotto Monadi nell’autunno del 2020). La poesia si ricompone, si ricuce. E sebbene Valeria ci avverta che “l’arte delle cicatrici non consola” tuttavia la poesia non può declinare certe responsabilità. Si tratta, come già accennato, di ricostruire, che è pur sempre un atto di speranza. O rimettere insieme i cocci, come suggerisce l’autrice nella sezione Kintsugi, ovvero, come annota Rossella, l’arte giapponese di restaurare oggetti rotti con lacche o metalli preziosi lasciando tuttavia visibili le fratture: poiché – aggiungo in generale – il testo, soprattutto in lirica, non nasconde (o non dovrebbe), semmai ricompone sotto altra forma i frammenti, crea un’estetica in cui il segno del tempo (che grida, “il tempo che piange ininterrotto”), forse l’imperfezione, forse un certo senso di impermanenza, o  l’impossibilità del ritorno all’inizio “per chiudere la vena” sono fondamentali (definiamolo, perché no, un wabi-sabi poetico). Alla fine, nella lingua colta ma cristallina, impreziosita spesso da lampi di metri canonici come certi endecasillabi, tutto trova la sua luce, c’è molto poco di fosco, niente di patetico, ma nemmeno niente di rassegnato. Perché, come già in Kitež, Rossella si pone saldamente al centro ma senza egotismi, confida solo (o spera) che la poesia, come i limoni dipinti da Francisco de Zurbaràn, nella poesia omonima, che non “patiranno le muffe e i saprofiti”,  riesca a ricreare una realtà che “cambia di grado”  sconfiggendo “la vociferante obsolescente acqua” del tempo. (g. cerrai)

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