Enrico De Lea – Giardini in occidente – Seri Editore, 2022
A questo va aggiunto (ma non è la prima volta, v. anche La furia refurtiva) il ricorso, convinto e programmatico, alla forma chiusa, tranne eccezioni nella sezione I piccoli trionfi, che comunque mi pare la più spuria, un po’ estranea rispetto al resto del libro. La forma chiusa, nel caso De Lea, non è esercizio di stile. È, come dicevo, da una parte uso moderno dei contenitori (su, mi ripeto, tema antimoderno e saltuariamente strapaesano), dall’altro incarnazione formale e sonora della tradizione (anche antica, anche siciliana) e ancora del mito (si pensi alla trascrizione popolare delle Scritture e dei grandi classici dell’antichità, come pure i cantàri, le “storie”, ecc.), dall’altra ancora è, come scrissi, “tentativo di Enrico – apparentemente paradossale – di rinchiudere l’idea (sia essa una piccola meditazione sulla morte o una memoria) dentro l’angusta cella della forma, e ivi illuminarla come alla luce d’una feritoia, e liberarla, renderla acuminata”. Ma tutti i 48 testi della prima sezione Certo del sangue e i 113 della seconda Simulacri o teatri aspirano nella loro brevità aforistica (quattro versi) a qualcosa di più, mi pare. Una specie di epopea di schegge di memoria in sé concluse, che vadano a formare se non un poema almeno una costellazione di eventi d’elezione (peraltro identitari, “certi”, segni di un “sangue”) o luoghi sereni come valeriani cimiteri marini, che non possono essere altro che brevi illuminazioni, agnizioni, epifanie, memorabilia. Esse sono, si affermano in maniera non dubitativa, a volte tendono alla massima filosofica, tetragone e indefesse nella loro stretta rimatura ABAB o simili e consegnate alla storia con l’imperfetto, che è il tempo verbale del passato affettivo e desiderante, che aspira alla continuazione. Ci parlano con la loro immediatezza anche di un’altra aspirazione, quella di creare un florilegio di topoi, di momenti e pensieri “eccellenti”, un breviario per lo “spaesato” Enrico, forse “ancora incerto / tra inventare e inventariare un mondo”, forse in attesa di scoprirne altri. E che tuttavia sa che “può nostalgia di nulla ingravidare, / farlo ogni giorno per la vita intera, / il raro sole che richiama il mare, / e sempre altrove l’esistenza vera”. (g. cerrai)
da Certo del sangue
6. (30 ottobre 2010)
Oggi mio padre avrebbe anni ottantotto,
quieto furore dell’oro che albeggiava
sul paesaggio comune, ancora assorto
tra Ionio a vista e occhio della lava.
12.
Amare febbri a primavera, nella lingua
delle correnti di Ulisse e di lampare
placide – il calamaro sembra non distingua
l’attrattiva luce nel fresco, all’imboscare.
16.
Tra roccia e spiaggia nella baia di Taormina
giungevano coi treni – erano fresche,
dopo il lungo viaggio, nel fresco della mattina,
innamorate del secolo – le giovani tedesche.
19.
Nella prima calura pomeridiana
erano affranti da un caldo di scammazzo,
pure leniva quanta gente lontana
il fresco delle Rocche, il canto di un ragazzo
24.
Faro, Ganzirri, ai laghi di vongole e di cozze
giungevano in lambretta, con il vino
fresco, i miei, freschi di nozze,
da un colle al mare, per la Consolare, dal mattino.
25.
Vado a trovare mio padre al cimitero,
gravido di paesaggio, di Ciappazzi –
da ultimo all’ingresso, con un pensiero
vitale d’ironia o scongiuro, il suo ritrarsi
appena sulla soglia del coraggio.
30.
La morte sempre torna, o tappinara,
nei discorsi a gabbo e meraviglia,
quella che non ti piglia e non ci piglia,
quella che ora s’accampa, non lontana.
da Simulacri o teatri
20.
Asciutta e secca voce a notte, rara,
basta all’avara immersione nella fonte,
frattanto che si guada la fiumara,
il letto immenso al sole, l’acheronte.
27.
Madri con madri dai responsi cupi
ci generarono a formule e figure
della febbre, salvezza sui dirupi
del sonno, e tempia di paure.
61. (3 / ottobre – 1 novembre)
(domani sera si risolve l’annoso, anzi l’eterno
enigma della notte –
conziamo la cena ai nostri morti,
smentiamo pure che il buio sia l’inferno)
102. (ad Alberto Alberti)
Ripartire dal sangue, dalla voce dei morti,
riconoscerli in coro dietro il muro
confinario, nel presente dei forti.
Scavare il passato, mordere il futuro.
113.
Al limite, come in un gesto idiota,
incidere nel muschio sopra il muro
segni in una lingua a se stessi ignota,
epigrafi né al passato né al futuro.
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