Enrico De Lea – Giardini in occidente

Enrico De Lea - Giardini in occidente - Seri Editore, 2022Enrico De Lea – Giardini in occidente – Seri Editore, 2022

 

Enrico De Lea è una garanzia, sotto diversi aspetti. Posso dirlo – poi vedremo in che termini – perché lo conosco da tempo e in diverse occasioni ho scritto delle annotazioni sul suo lavoro (v. QUI), a cominciare da I ruderi del Tauro (L’Arcolaio, 2009), che possiamo considerare il suo vero libro d’esordio (un’altra raccolta risale al 1992). Enrico, pur avendo affinato nel tempo la sua scrittura soprattutto in termini di “precisione” del dettato, è sostanzialmente fedele a sé stesso, ai suoi temi, a un suo costante “ritorno a casa”, anche nel senso di rielaborazione modernizzante di una tradizione lirico elegiaca con venature crepuscolari e con modelli anche molto alti come, per dirne uno, Bartolo Cattafi. Lui però ne fa un filone tutto suo, che non dimentica lezioni anche filosofiche (potremmo  azzardare, in questa direzione, uno sguardo gramsciano, specie in quel che di “popolare” si intravede sempre nei versi di Enrico, nel suo tematico ritorno alle radici). Di primo acchito diremmo, ancora una volta, che di questo fondamentalmente si tratta. Il giardino, occidentale o siciliano che sia, accoglie e conclude in sé uno spirito e un mondo, è luogo di qualche quiete, di riti quotidiani e ricorsivi, di personaggi emblematici, del come si stava meglio, che però è in sostanza immoto, non coltivato se non nei solchi della memoria, abitato da lari che da lì, a differenza dell’autore, non si sono mai mossi, popolando di fatto la mitologia poetica di Enrico. Come Diego Conticello rimarca nell’introduzione (e come avevo già annotato negli scritti citati), si tratta prima di tutto (anche in termini di stagioni della vita) di “memoriale ritorno agli archetipi che si formano durante l’infanzia e tali permangono, fissi e irredimibili, nell’immaginario”. In effetti la biografia dell’autore ci parla di un uomo diviso (“dislocato”, dicevo altrove) tra il Nord, in cui svolge la sua attività professionale e che è di fatto assente nei versi di Enrico, e il Sud in cui risiede la sua matrice creativa e che è inteso appunto come giardino delle delizie (ispiratrici), una “Sicilia ancestrale…perduta nei meandri di un sonno millenario…ancorata ad una presunta età aurea di una civiltà contadina” (ancora Conticello), quindi naturale, quindi incorrotta ecc. (ed ecco perché ho parlato di elegia). Potremmo parlare di nostos (come fa Conticello e come feci a suo tempo), ovvero del nucleo più classico del sentimento insoddisfatto, dello sradicamento che esige (ma non ottiene) un’inversione di rotta, un cambiamento di per sé folle in una società attuale. Del resto ricordo cosa mi scrisse nel 2012, a proposito di Da un’urgenza della terra luce (ora ne La furia refurtiva), parlando di “un ossessivo, costante identificarsi coi luoghi resi luce e con la luce resa lingua e materia amata, una mitografla ctonia e naturale”. Potremmo appunto parlare (Conticello ed io) del tentativo, anche per mezzo del linguaggio, di recuperare una forza terragna che solo laggiù risiede e che l’autore ritiene salvifica, rigenerante. Mito, quindi, forse desiderio inesigibile (e che vale per quello), forse illusione. Non utopia, che come ricordava Michelangelo Pistoletto in una intervista vuol dire non-luogo, e appena trovi il luogo giusto per creare essa diventa realtà, e qui il luogo – per quanto mitizzato, antistorico, antimoderno – nei versi di Enrico c’è ed è il linguaggio che lo trae, lo ricrea da quelli che sono épaves, relitti della memoria o dell’immaginazione (come già ne I ruderi). Come già ne I ruderi (e altrove, v. link citato) il linguaggio alla fine diventa personaggio e voce, quanto mai lontano (in De Lea più che in tanti altri) dal linguaggio normato della professione (nessun termine tecnico entra nemmeno per sbaglio in questi versi) o da quello ordinario. Linguaggio condensato, anche nel senso analitico del termine, dove il recupero di forme colte o dialettali non è riuso o semplice citazione, ma funge da pivot eidetico, crea l’immagine e la lancia nel testo, lega e tiene insieme le cose e le memorie (vere, reinventate), pur distanziandole nella giusta misura (come nel culto dei morti, c’è sempre qualcosa di vagamente apotropaico nella poesia di Enrico, una “fasciatura”, come ho detto di lui altrove).

A questo va aggiunto (ma non è la prima volta, v. anche La furia refurtiva) il ricorso, convinto e programmatico, alla forma chiusa, tranne eccezioni nella sezione I piccoli trionfi, che comunque mi pare la più spuria, un po’ estranea rispetto al resto del libro. La forma chiusa, nel caso De Lea, non è esercizio di stile. È, come dicevo, da una parte uso moderno dei contenitori (su, mi ripeto, tema antimoderno e saltuariamente strapaesano), dall’altro incarnazione formale e  sonora della tradizione (anche antica, anche siciliana) e ancora del mito (si pensi alla trascrizione popolare delle Scritture e dei grandi classici dell’antichità, come pure i cantàri, le “storie”, ecc.), dall’altra ancora è, come scrissi, “tentativo  di Enrico – apparentemente paradossale –  di rinchiudere   l’idea (sia essa una piccola meditazione sulla morte o una memoria) dentro l’angusta cella della forma, e ivi illuminarla come alla luce d’una feritoia, e liberarla, renderla acuminata”. Ma tutti i 48 testi della prima sezione Certo del sangue e i 113 della seconda Simulacri o teatri aspirano nella loro brevità aforistica (quattro versi) a qualcosa di più, mi pare. Una specie di epopea di schegge di memoria in sé concluse, che vadano a formare se non un poema almeno una costellazione di eventi d’elezione (peraltro identitari, “certi”, segni di un “sangue”) o luoghi sereni  come valeriani cimiteri marini, che non possono essere altro che brevi illuminazioni, agnizioni, epifanie, memorabilia. Esse sono, si affermano in maniera non dubitativa, a volte tendono alla massima filosofica, tetragone e indefesse nella loro stretta rimatura ABAB o simili e consegnate alla storia con l’imperfetto, che è il tempo verbale del passato affettivo e desiderante, che aspira alla continuazione. Ci parlano con la loro immediatezza anche di un’altra aspirazione, quella di creare un florilegio di topoi, di momenti e pensieri “eccellenti”, un breviario per lo “spaesato” Enrico, forse “ancora incerto / tra inventare e inventariare un mondo”, forse in attesa di scoprirne altri.  E che tuttavia sa che “può nostalgia di nulla ingravidare, / farlo ogni giorno per la vita intera, / il raro sole che richiama il mare, / e sempre altrove l’esistenza vera”. (g. cerrai)

da Certo del sangue

6. (30 ottobre 2010)
Oggi mio padre avrebbe anni ottantotto,
quieto furore dell’oro che albeggiava
sul paesaggio comune, ancora assorto
tra Ionio a vista e occhio della lava.

12.
Amare febbri a primavera, nella lingua
delle correnti di Ulisse e di lampare
placide – il calamaro sembra non distingua
l’attrattiva luce nel fresco, all’imboscare.

16.
Tra roccia e spiaggia nella baia di Taormina
giungevano coi treni – erano fresche,
dopo il lungo viaggio, nel fresco della mattina,
innamorate del secolo – le giovani tedesche.

19.
Nella prima calura pomeridiana
erano affranti da un caldo di scammazzo,
pure leniva quanta gente lontana
il fresco delle Rocche, il canto di un ragazzo

24.
Faro, Ganzirri, ai laghi di vongole e di cozze
giungevano in lambretta, con il vino
fresco, i miei, freschi di nozze,
da un colle al mare, per la Consolare, dal mattino.

25.
Vado a trovare mio padre al cimitero,
gravido di paesaggio, di Ciappazzi –
da ultimo all’ingresso, con un pensiero
vitale d’ironia o scongiuro, il suo ritrarsi
appena sulla soglia del coraggio.

30.
La morte sempre torna, o tappinara,
nei discorsi a gabbo e meraviglia,
quella che non ti piglia e non ci piglia,
quella che ora s’accampa, non lontana.

da Simulacri o teatri

20.
Asciutta e secca voce a notte, rara,
basta all’avara immersione nella fonte,
frattanto che si guada la fiumara,
il letto immenso al sole, l’acheronte.

27.
Madri con madri dai responsi cupi
ci generarono a formule e figure
della febbre, salvezza sui dirupi
del sonno, e tempia di paure.

61. (3 / ottobre – 1 novembre) 
(domani sera si risolve l’annoso, anzi l’eterno
enigma della notte –
conziamo la cena ai nostri morti,
smentiamo pure che il buio sia l’inferno) 

102. (ad Alberto Alberti) 
Ripartire dal sangue, dalla voce dei morti,
riconoscerli in coro dietro il muro
confinario, nel presente dei forti.
Scavare il passato, mordere il futuro. 

113.
Al limite, come in un gesto idiota, 
incidere nel muschio sopra il muro
segni in una lingua a se stessi ignota,
epigrafi né al passato né al futuro. 

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